Di Adriano Olivetti è ben nota la vivace personalità che fu alla base del suo eclettismo e che gli consentì di esplorare innumerevoli campi del sapere. Non solo quelli scientifici e tecnologici, che ne fecero un “numero uno” in campo industriale, ma anche gli interessi per la sociologia, la psicologia, l’arte e il design, la pubblicità, l’architettura, l’editoria, la pianificazione territoriale e urbanistica, la politica… Sono tanti i settori indagati e approfonditi dalla sua intelligenza e dalla sua capacità di visione che lo indussero a guardare sempre al futuro. Ancora poco noto il suo interesse per il settore agricolo e l’impegno che profuse per alcune realizzazioni davvero importanti non solo per il Canavese, suo territorio di elezione.
A proposito dell’impegno in campo agricolo, negli appunti dattiloscritti per il discorso inaugurale della Cooperativa di Montalenghe, custoditi presso l’Archivio Storico Olivetti di Ivrea, si legge: «Battuta polemica: dicono che non ci occupiamo dei problemi agricoli. Non è vero. Procediamo con grande cautela, perché sappiamo quanto sia più facile un equilibrio anche precario che crearne uno migliore. Ma il progresso, soprattutto in Piemonte riposa sull’integrazione di industria e agricoltura». Un sogno o forse un’intuizione. Da riconsiderare per promuovere un equilibrio allo sviluppo ecosostenibile, unica àncora di salvezza per le generazioni che scendono in piazza, con ragione, a reclamare il loro futuro contro chi lo sta loro sottraendo da decenni.
Nel 1954 viene fondato l’I-Rur, l’Istituto per il Rinnovamento Urbano e Rurale del Canavese che si aggiunge, nel piano del Movimento Comunità per la realizzazione di una “comunità concreta”, all’esperienza dei Centri Comunitari, cui è affidato il compito specifico di mettere in atto attività culturali, sociali e politiche, nei vari Comuni. All’I-Rur, che rimanda all’esperienza anglosassone “Town and country planning”, è affidato l’obiettivo di promuovere nuove attività industriali e agricole che da un lato combattano la disoccupazione in aumento a causa della crisi del tessile e dall’altro evitino un incontrollato processo di inurbamento verso Ivrea. L’I-Rur, senza scopi di lucro, ha, per statuto, il compito di delineare programmi per il miglioramento delle condizioni sociali, di creare imprese artigianali, industriali o agricole e di mettere a disposizione delle amministrazioni comunali la sua organizzazione e le sue competenze, anche attraverso una consulenza tecnica, sociale ed economica; si tratta di un soggetto che fornisce credito, assistenza e consulenza tecnica. Sotto il profilo operativo è strutturato in tre settori autonomi: edile, industriale e agricolo. Il suo sogno: la simbiosi tra economia agricola ed economia industriale attraverso la prospettiva della cooperazione volontaria. Libertà politica, coesione, unità e autogoverno, i principi cardine cui fare riferimento. Una iniziativa innovativa, con cui Olivetti intendeva realizzare un’esemplificazione pratica di pianificazione decentrata basata sull’integrazione di industria e agricoltura e sull’idea di scongiurare che la grande impresa fagocitasse ogni altra energia innovatrice svuotando il territorio e logorando il tessuto storico e sociale; uno sradicamento che considerava «una vera e propria malattia dell’anima». In questo spirito nascono a Vidracco, in Valchiusella, la fabbrica delle valigette per le macchine da scrivere; a Sparone la Manifattura Valle Orco che produce elementi finiti in gomma e plastica; a Borgofranco l’Officina Baltea Motori da cui escono motori diesel veloci per impieghi agricoli e industriali; l’Olyva Revel, per la produzione di abiti per bambini, gestita dalla moglie di Adriano che disegnava i modelli, nata a Ivrea, poi trasferita a Parella nei locali dell’ex Cartiera e infine a Loranzè nella ex azienda Marxer. Più tardi gli interventi a sostegno della Icas di San Bernardo di Ivrea e della Distilleria Bairo. L’obiettivo è creare piccole industrie per il bene del territorio e scongiurarne l’abbandono. Nel momento in cui si discute dei borghi e delle comunità marginalizzate, quale miglior riferimento?
Il progetto fu osteggiato sia dalle forze politiche conservatrici e moderate sia da quelle di una sinistra indifferente e disimpegnata nei confronti di un cambiamento possibile che non sapeva né leggere né, tantomeno, comprendere. Solo ambienti locali cattolici che facevano riferimento alle Acli lo valutarono meritevole – sia pure timidamente – della ricerca di un rapporto costruttivo. Adriano Olivetti, in alternativa all’industrializzazione dell’agricoltura, scelse di stimolare la partecipazione dei produttori attraverso la cooperazione e l’associazione consortile, per promuovere l’innovazione attraverso la messa in comune di impianti, strutture e servizi.
L’Istituto raccolse l’eredità del Servizio di assistenza agricola e zootecnica sorto nel 1952 per rimediare al frazionamento della proprietà terriera e ovviare alla sfiducia nei confronti del precario lavoro nei campi messo in crisi a causa dell’attrazione esercitata dalle attività industriali e dal salario garantito. Il Centro Agricolo Olivetti, peraltro, nel periodo bellico sfamò mezzo Canavese, con il pretesto della mensa aziendale e rifornì anche l’Ospedale di Ivrea.
Personaggio strategico per l’intero programma comunitario olivettiano in campo agricolo fu, senza dubbio, Ugo Giuseppe Aluffi, assunto come progettista alla OMO dall’ingegner Camillo Olivetti nel 1937 e poi laureatosi ingegnere. A lui Adriano affidò il compito di studiare il “sistema delle cooperative” su cui fondare il sostegno dell’economia del Canavese nell’ambito dell’I-Rur. Ad aiutarlo, in quella prima fase, un tecnico capace come Adolfo Ronco. Nel preparare il percorso di interventi in agricoltura, fondamentale si rivelò il ruolo di preparazione svolto dai Centri Comunitari con conferenze e corsi di formazione, rivolti soprattutto ai contadini, sulla storia della cooperazione e i problemi della vita cooperativa. Aluffi studia il sistema cooperativistico, in Italia e all’Estero per tentarne la realizzazione nel contesto canavesano già contraddistinto dall’esperienza delle “Società operaie di mutuo soccorso”. Al termine di questo impegno programmatico, tra il 1955 e il 1958, nasceranno: la Cantina Sociale di Piverone (oggi Cantina sociale della Serra); la Cooperativa Avicola Canavesana; il Consorzio Irriguo e Cooperativa Cossano Frutta; il Consorzio dei viticoltori di Carema (oggi Cantina Produttori Nebbiolo di Carema); i Vivai Canavesani di Colleretto; alcune cooperative di utilizzazione delle macchine agricole; la Cooperativa agricola di Motalenghe.
Su quest’ultima vale la pena spendere qualche parola di più. Si tratta infatti dell’iniziativa, in campo agricolo, simbolicamente e idealmente più importante dell’idea comunitaria di Adriano, un progetto audace di conduzione collettiva di piccola proprietà. Parliamo di socializzazione delle terre, concetto che va oltre la cooperazione che è spesso limitata agli aspetti della vendita di prodotto o all’acquisto in comune dei mezzi di produzione. Gli unici precedenti di socializzazione delle terre si ritrovano nell’esperienza dei piccoli coltivatori di Pallanza, degli anni Venti del Novecento, e nelle Comunioni risicole del Basso Polesine che tuttavia prevedevano riassegnazione di terre confiscate. Siamo nel 1956 e a Montalenghe per realizzare questo sogno viene chiamato direttamente il responsabile del settore agricoltura di Comunità Giuseppe Aluffi. Si parte da una situazione agricola fatta di 786 abitanti di cui 603 attivi e dalla possibilità di soluzioni per migliorala. L’approfondita analisi sociale, fondiaria e tecnica sia degli allevamenti che delle coltivazioni fa emergere l’estremo frazionamento della proprietà che rende impossibile passare a una razionale meccanizzazione agricola e un patrimonio zootecnico compromesso. La situazione si sbloccherà grazie all’intermediazione e al sostegno incondizionato. Il primo appuntamento pubblico avviene nel maggio del 1956, a casa di Ugo Fedeli, carismatico riferimento della locale comunità anarchica (a lui è intitolata una sezione della Biblioteca Nazionale di Amsterdam che ne raccoglie il lascito legato alla storia del movimento operaio). Vi partecipano una trentina di persone. Alla riunione pubblica su “Il problema dell’agricoltura locale” del 15 giugno le presenze salgono a una cinquantina di partecipanti. L’8 luglio si costituisce il Comitato promotore per la Cooperativa con la partecipazione di circa 150 persone; il progetto è sposato da 120 capo-famiglia che, moltiplicati per una media di tre componenti, significa 372 cittadini, il 50% della popolazione. La situazione preoccupa la Democrazia Cristiana, ostile al progetto, sostenuta dai molti parroci del territorio e dalla sua associazione di riferimento, la Coldiretti, di fatto padrona dei Consorzi Agrari, attraverso cui esercita un controllo quasi assoluto sul mondo contadino. L’organizzazione manda a Montalenghe un suo deputato eletto nella DC, per mettere in guardia sui rischi dell’iniziativa, in particolare di perdere la proprietà delle terre per chi decidesse di aderire (fake news si direbbe oggi). Ma deve battere in ritirata…
Inizia la mappatura dei terreni messi a disposizione da chi intende aderire alla cooperativa tra i quali, a sorpresa, un illuminato grande proprietario terriero convinto che solo così si possa migliorare l’agricoltura locale. Il 16 dicembre 1956 davanti al Notaio la Cooperativa agricola di Montalenghe, società cooperativa a r.l., è costituita con la firma di 79 soci che diventeranno 89 dopo ulteriori 14 richieste di cui solo 10 ammesse. Gli ettari conferiti sono 130 e il capitale sociale ammonta a 2.371.000 lire cui si aggiunge un prestito temporaneo dell’I-RUR di 3.550.010. Le basi statutarie, così come il Regolamento costruite dai coltivatori e dai tecnici dell’I-Rur sono innovative e originali e si ispirano alle esperienze delle Comunità agricole francesi, alle Comunioni risicole del Delta del Po, alle affittanze collettive della Romagna e, per alcuni aspetti, alle cooperative israeliane dei Kibbuz. Il patrimonio zootecnico, che conta inizialmente 60 capi salirà a 140 e poi a oltre 200. La stalla sociale della Cooperativa rientra a pieno titolo nel grandioso catalogo delle architetture olivettiane rispondendo, come le altre, a una visione della bellezza, architettonica e paesaggistica. Il progetto è di Giorgio Raineri con la collaborazione di Antonietta Roasio, direttamente su incarico di Adriano Olivetti. Fa riferimento progettuale all’organizzazione degli edifici per l’agricoltura nel mondo tedesco, sperimentando i principi del razionalismo in relazione ai materiali e alle tradizioni locali. Dichiarata “architettura pura”, fu pubblicata su “Casabella” e altre riviste nazionali ed internazionali, premiata da Inarch, presente nel repertorio delle Architetture Contemporanee censite dal MiBACT. Nonostante la sua valenza iconica, storica e la fama acquisita, l’edificio, che si incontra a uno degli ingressi del paese, non è purtroppo soggetto a vincoli di tutela che non siano comunali (è fra i “Beni Culturali Architettonici di ambito comunale”).
La storia dell’I-Rur ebbe la sua conclusione a seguito della sconfitta nelle elezioni nazionali del 1958. Mario Caglieris, Amministratore del Movimento Comunità, riceve da Adriano la disposizione di smobilitare il suo ufficio e liquidare tutte le pendenze in corso. Nel 1960, dopo la morte di Adriano, la nuova dirigenza lascia spegnere l’esperienza dell’I-Rur. Bloccati i prestiti, arriva la messa in liquidazione, le aziende che vi fanno riferimento entrano nel capitale Olivetti al 100%. Quattro attività agricole su sei sono comunque tutt’ora operanti. Anche Montalenghe subisce analoga sorte. Tenta di resistere: si riducono superficie coltivata e capi di bestiame, ma nel 1968 i danni ingenti di una tromba d’aria mettono in ginocchio l’esperienza e, nonostante diversi tentativi di salvataggio, si è costretti a chiudere. Non resta che restituire i terreni ai legittimi proprietari. La Cooperativa, fatti tutti i conti, risulterà in attivo quel tanto da donare al Comune una autoambulanza. «Il più interessante esperimento cooperativistico che mai sia stato realizzato in Italia», concepito come esperimento di conduzione agricola collettiva di valenza politica ben più generale chiude i battenti dimostrando, tuttavia, la praticabilità di un progetto di sviluppo a base comunitaria basato sull’integrazione fra cultura, industria e agricoltura, attraverso forme di cooperazione volontaria. Una sfida volta a dimostrare una terza via possibile fra capitalismo liberale e comunismo.