I falò di Parigi e il semipresidenzialismo

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L’Eliseo e i falò sono l’ultima versione della grande battaglia che sta frantumando la Quinta Repubblica. Il presidente che, forte della legittimazione popolare diretta, impone le sue decisioni senza il voto esplicito dell’assemblea, anch’essa formalmente legittimata dal popolo, si incammina lungo il sentiero del dispotismo legale. Azzittita la dialettica istituzionale in nome di un incendiario dispositivo costituzionale che consegna alle mani del capo dello Stato un potere straordinario, la voce della protesta assume la piazza come luogo della insubordinazione.

Affiorano, nello scontro tra la strada e il palazzo, i buchi neri del semipresidenzialismo che sprigiona una contesa scivolosa che riguarda i confini della legittimazione. Meloni vorrebbe importare in Italia proprio un modello che sta per esplodere rovinosamente. Del resto, sino a vent’anni fa, proprio lo stampino francese venne assunto dalla politologia italiana, in contrasto con gli orientamenti prevalenti del diritto costituzionale e delle risultanze empiriche della scienza politica occidentale, come un invidiabile bimotore capace di compiere il miracolo della governabilità, del controllo, della alternanza.

La scienza politica più autorevole, da Lijphart a Linz, non condivide in alcun modo l’infatuazione della politologia italiana per le magie di un sistema che ha due teste e quindi, se una perde il controllo di sé, l’altra è pronta a surrogarla scongiurando ogni incertezza e vuoto di potere. L’esaltazione della diarchia, come manifestazione della flessibilità di un sistema che, attraverso quello che Sartori chiamava un esercizio “non intenzionale di stregoneria costituzionale”, si dimostra suscettibile di riequilibrio dinamico trascura le aporie che si nascondono nelle pieghe di una doppia autorità. Certo, è in astratto possibile lo scivolamento senza grossi traumi da una testa all’altra del potere in caso di coabitazione tra presidente e primo ministro appartenenti a maggioranze ostili. Ma in momenti di convergenza tra la maggioranza dell’Eliseo e la maggioranza parlamentare, il regime di Parigi diventa iper-presidenziale con un comando irresistibile per l’assenza di bilanciamenti, incastri, separazioni dei poteri. Lo spiega bene Lijphart: i sistemi semipresidenziali «in realtà consentono al presidente di essere ancora più potente rispetto alla maggior parte dei capi di Stato dei sistemi presidenziali puri». Quando i colori del presidente non coincidono con quelli del primo ministro la tensione si insinua negli ingranaggi dell’autorità. Con inconvenienti, rischi di paralisi, contrasti di attribuzione, la Francia ha superato le fasi della coabitazione.

Una valutazione comparativa del rendimento del sistema semipresidenziale, negli 83 casi di giovani democrazia che lo hanno adottato, registra punti di notevole sofferenza. I regimi bimotori arrancano rispetto alla resa delle istituzioni parlamentari. L’analisi descrittiva di S. Moestrup (in R. Elgie and S. Moestrup, eds., Semi-Presidentialism Outside Europe, London, Routledge, 2007, p. 41) suggerisce che «in media i regimi con il premier hanno migliori punteggi Freedom House (3,0 contro 3,9) e migliori possibilità di sopravvivenza democratica» rispetto al sistema semipresidenziale.

Inedita è comunque la situazione in cui il regime ibrido alla francese è precipitato. Ben oltre lo stallo, il vuoto di potere, la reciproca paralisi, il governo presidenziale che procede attraverso il decreto e umilia il parlamento fa vacillare ogni immagine di Stato di diritto e rende vulnerabili i pilastri stessi di una democrazia costituzionale. A proposito degli inconvenienti del semipresidenzialismo, Linz ha messo in guardia dinanzi a uno scenario particolarmente insidioso, quello che si presenta attualmente in Francia. Secondo Linz, per un regime come quello disegnato da De Gaulle, «la situazione più difficile si verifica quando il sistema di partito appare in stallo, i numeri sono molto instabili perché una maggioranza è assente nella assemblea legislativa e il presidente non può vantare né sostegno né influenza grazie a un partito o a una coalizione di partiti». Un presidente tecnopopulista che deve convivere con un parlamento ingovernabile, per la presenza di maggioranze negative (voti non cumulabili di destra, centro e sinistra), è indotto all’arbitrio, alla forzatura, alla irresponsabile chiusura degli spazi di dialogo.

Non sorprende che, in Italia, la destra al governo speri nell’impresa di archiviare la repubblica parlamentare con il rifugio in un regime presidenziale che ovunque incontra difficoltà funzionali e per i suoi malanni accentua il deficit di rappresentanza. I nemici storici della costituzione repubblicana vedono nella cesura qualitativa assicurata dall’elezione diretta di un capo dello Stato il compimento della loro rivincita ideale contro la funzione costituente svolta dall’antifascismo. Oltre i congegni istituzionali, che in Francia sono arrugginiti e pericolosi nel loro impiego, in gioco sono i valori originari e fondativi della democrazia in Italia. A cinquant’anni dalla scomparsa di Hans Kelsen, la sua lezione critica sulle insidie strutturali del presidenzialismo andrebbe recuperata per sostenere la battaglia contro le insidie autocratiche che tallonano la democrazia mai così assediata dai nemici di sempre.

 

Gli autori

Michele Prospero

Michele Prospero, professore di filosofia del diritto nell’Università della Sapienza di Roma, studia, in particolare, il sistema istituzionale italiano e il pensiero politico della sinistra. Autore di numerosi saggi collabora, tra l’altro, con “il manifesto”.

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