Roberto Calderoli è, a modo suo, una garanzia. In questi ultimi decenni ha rivestito una quantità di cariche importanti – ministro per le Riforme istituzionali, ministro per la Semplificazione, vicepresidente del Senato e, ora, ministro per gli Affari regionali – sempre, immancabilmente, agendo in modo giuridicamente tanto spregiudicato, quanto disastroso.
Indimenticabile – era il 2003 – il progetto di stravolgimento della Costituzione, redatto nella baita di Lorenzago di Cadore, assieme agli altri tre “saggi” incaricati dall’allora maggioranza guidata da Silvio Berlusconi. Un progetto approvato dal Parlamento, ma poi respinto dal corpo elettorale nel referendum oppositivo del 2006, che salvò il nostro ordinamento costituzionale dalla torsione autoritaria che, altrimenti, gli sarebbe stata impressa tramite l’incremento dei poteri del Presidente del Consiglio ai danni dei ministri e, soprattutto, del Presidente della Repubblica.
Meglio ancora la legge elettorale pensata per accompagnare la revisione costituzionale (legge n. 270/2005). Una legge basata su un abnorme premio di maggioranza, volto a costruire, a prescindere dal risultato elettorale, comunque un’ampia maggioranza assoluta in Parlamento a beneficio del partito più votato, anche qualora il suo consenso si fosse fermato al 25, al 15, al 10 o – nell’ipotesi di un’estrema frammentazione del quadro politico – persino al 5 per cento (bastava venisse superata la soglia di sbarramento del 3 per cento). Una legge così mostruosa da costringere il suo stesso autore a confessare di aver fatto «una porcata»: da cui l’imperituro soprannome – Porcellum – affibbiatole dal politologo Giovanni Sartori. Ma, soprattutto, una legge così antidemocratica da venire colpita dalla dichiarazione d’incostituzionalità della Corte costituzionale (sentenza n. 1/2014), caso mai verificatosi non solo nella storia costituzionale italiana, ma nella storia delle democrazie costituzionali del mondo intero. Impossibile immaginare un vulnus più grave inflitto alle istituzioni repubblicane, come quello di aver fatto eleggere ben tre Parlamenti (2006, 2008 e 2013) basati sulla violazione del principio di uguaglianza dei voti espressi dagli elettori.
E che dire dell’intervento di semplificazione normativa realizzato, in due tornate, negli anni 2009-2010? Eliminare le decine o centinaia di migliaia di leggi “inutili” che gravano sulla libertà degli italiani è, da sempre, uno slogan populista di grande effetto. Nessuno, però, era mai giunto prima di Calderoli ad appiccare il fuoco con un lanciafiamme al muro di 375.000 leggi raccolte in faldoni di cartone nel cortile di una caserma di Vigili del Fuoco di Roma (guardare per credere: https://www.corriere.it/gallery/politica/03-2010/calderoli/1/calderoli-rogo-leggi-inutili_20e7c39e-3750-11df-bfab-00144f02aabe.shtml). Un mix di demagogia e incompetenza irraggiungibile, se solo si considera che, tra le leggi abrogate c’erano quelle istitutive di numerosi Comuni, della Corte dei Conti, del Tribunale per i minorenni, la legge preposta alla tutela della salubrità degli alimenti e, ciliegina sulla torta, la legge che aveva fondato … il corpo dei Vigili del Fuoco! Fu necessario intervenire con un apposito decreto “salva-leggi” per rimediare ai danni compiuti, riportando in vita non poche delle norme mandate in fumo nel rogo.
Una simile catena di disastri avrebbe stroncato la carriera politica di chiunque – per non dire di perle quali la partecipazione a una trasmissione televisiva indossando una maglietta raffigurante Maometto, le critiche alla Francia per aver schierato ai mondiali del 2006 una squadra di «negri, islamici e comunisti», l’accusa al movimento lgbtq+ di aver «trasformato la Padania in un ricettacolo di culattoni», l’invito agli immigrati a tornare «giù nel deserto a parlare con i cammelli o nella giungla con le scimmie», l’attribuzione alla ministra Cécile Kyenge dell’appellativo di «orango» – e, invece, riecco oggi Calderoli in prima linea sul fronte dell’autonomia regionale differenziata.
Una nuova occasione per partorire l’ideona giuridica. Anzi, in questo caso, addirittura tre.
La prima: pretendere di disciplinare il procedimento di formazione delle leggi che attribuiranno nuove competenze alle regioni che ne dovessero fare richiesta – tra l’altro, escludendo ogni potere decisionale in capo al Parlamento (caso unico di un Parlamento che non avrebbe voce in capitolo sul contenuto di una legge!) – tramite un’altra legge. Vale a dire, non con una fonte del diritto di grado superiore, e dunque dotata della forza necessaria, ma con una fonte avente uguale grado gerarchico, e dunque priva di qualsivoglia capacità condizionante nei confronti delle fonti a lei pariordinate.
La seconda: definire i livelli essenziali delle prestazioni (lep), che dovrebbero essere garantiti in modo uguale su tutto il territorio nazionale, non tramite una legge, come dispone l’art. 117, comma 2, lett. m, Costituzione, ma con decreti del Presidente del Consiglio dei ministri (dPcm) e, addirittura, nel caso in cui i tempi si prolungassero troppo, grazie all’intervento di un Commissario straordinario. Come se definire il contenuto dei diritti costituzionali fosse la stessa cosa di realizzare un’opera infrastrutturale… Oltretutto, di farlo non ragionando sui diritti, bensì sui costi e sulle risorse disponibili, in tal modo violando la sentenza n. 275/2016 della Corte costituzionale che impone di determinare il bilancio a partire dai diritti e non i diritti a partire dal bilancio.
La terza: sostenere le richieste di maggiori competenze delle regioni del Nord attraverso la retorica del residuo fiscale, sino alla spudoratezza di affermare che «chi al Sud contesta l’autonomia è un egoista rispetto al Nord, perché in questo momento, in Italia, ci sono 12 regioni del Centronord che danno più di quello che ricevono e altre 8 regioni che invece ricevono più di quel che danno» (intervista a La Stampa del 18 marzo 2023). Parole davvero in libertà – tutte le statistiche registrano l’ampio vantaggio del Nord nella spesa pubblica pro-capite –, che esprimono, oltretutto, una posizione illogica e incostituzionale (e, ciononostante, consacrata nell’art. 5, comma 2, del già ricordato disegno di legge sull’autonomia differenziata in cui si prevede che alle regioni che riceveranno le nuove competenze sarà garantita la «compartecipazione al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale»). È una posizione illogica, perché le regioni, in quanto tali, non danno né ricevono: com’è evidente, sono i cittadini che pagano le tasse e che ricevono servizi pubblici e l’una cosa e l’altra non dipendono (se non marginalmente) dal luogo di residenza, bensì dal livello di reddito e dalle condizioni di salute, di età, di benessere, di famiglia, ecc. di ciascuno. Ed è una posizione incostituzionale, perché finalizzata a restringere i doveri di solidarietà economica e sociale, di cui all’art. 2, Costituzione, ai soli corregionali, anziché farli valere, come impone la Costituzione, nei confronti di tutti i connazionali. L’obiettivo è evidente: spezzare ogni possibile legame di cittadinanza nazionale, la base stessa dell’unità della Repubblica (art. 5 Costituzionale), e sostituirlo con una pluralità di legami di cittadinanza regionale prodromici a quella che Gianfranco Viesti ha giustamente definito «la secessione dei ricchi» (https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788858136430).
Anche in quest’occasione, insomma, Calderoli è una garanzia d’insipienza giuridica. Ci sarebbe da sorridere della sua lunga sequela di clamorosi insuccessi, se solo non avessimo coscienza delle conseguenze negative che già ci ha inflitto e di quelle che rischiamo di vederci infliggere nel prossimo futuro.
Sempre necessari questi ” riassunti” di Francesco Palllante, l’ ordine storico degli avvenimenti ( e dei misfatti) che si tende a perdere. Sempre molto chiari, quindi grazie.