Ci sarà del tempo per bere fino al suo fondo l’amaro calice della riforma fiscale del Governo in carica. La delega appena approvata durerà 24 mesi: un tempo che per la nostra consuetudine politica equivale più o meno all’eternità, ma che di fronte alla maggioranza drogata dalla legge elettorale di questo Governo suona più come una minaccia che come una speranza. Io non sono esperto in materia e ritengo la presunzione della tuttologia una piaga culturale da estirpare. Però devo confessare che da cittadino e da filosofo (più sobriamente e realisticamente: professore di filosofia) le riforme fiscali mi sono sempre apparse come delle vere e proprie sliding doors, in cui ciò che è in gioco non è solo l’esplicito, ma anche il latente, il non detto. Varcate quelle porte, ci si trova letteralmente da un’altra parte, dentro una forma differente di società. Se c’è una riforma che rischia ogni volta di avere un carattere fondativo – cioè riguarda la riconferma del patto sociale originario di una società e di uno Stato – è proprio quella che attiene al sistema fiscale. Il motivo è presto detto: perché il fisco è il luogo originario dello scambio. Certo che i meccanismi di scambio descrivono più o meno tutti i rapporti tra i cittadini e lo Stato – pensiamo ai servizi pubblici e non dimentichiamoci che noi ne usufruiamo in debito, prima ancora di poter pagare le tasse – ma questi meccanismi sono tutti fondati sulla leva fiscale, sulla sua equità e sulla sua capacità di far sentire tutti alleati in un unico “patto sociale”. Lo scambio istituito dal fisco è così lo scambio che dà forma agli altri scambi. Eccola la sliding doors: si scrive fisco, si legge Stato. Lo scrive magistralmente Francesco Pallante: «è chiaro che la questione delle tasse è la questione dello Stato, e quindi dei diritti: niente Stato, niente diritti» (Elogio delle tasse, Edizioni Gruppo Abele 2021). Ecco perché mi permetto di condividere tre riflessioni a caldo, perché il tema non è semplicemente come sarà il fisco, ma come sarà lo Stato.
Innanzitutto ci tengo a sottolineare una cosa banale, cioè il fatto che i principi evocati dal Governo vanno in tutt’altra direzione rispetto a ciò che sarebbe stato auspicabile. Ma lo faccio con uno scopo non scontato che spiego introducendo un’altra citazione di Pallante. In un suo articolo infatti ci offriva un sintetico elenco di quattro obiettivi da perseguire per un fisco più giusto (per chi volesse approfondirli per esteso rimando a questo link: https://www.micromega.net/riforma-fiscale/): ricondurre a un’unica imposta tutti i redditi, intervenire sui patrimoni, concentrarsi sulla tassazione delle società commerciali, lavorare sulla tassazione indiretta che colpisce i consumi. Inutile dire che nulla di tutto ciò si può intravvedere in queste prime mosse. Più utile svelare che quel sintetico elenco è parte di un articolo scritto a gennaio del 2022 che – non potendo essere un vaticinio – era dedicato all’allora annunciata riforma fiscale del Governo Draghi. Ecco un punto politico che sembra passare in secondo piano, in questo paese senza memoria neanche se corta, e che pure val la pena segnalare. Proprio rispetto a uno dei temi che è cartina di tornasole dell’idea di società cui la politica mira, la Meloni mostra non di rompere ma di essere in continuità col precedente Governo, portando a compimento ciò che esso aveva promesso prima di essere interrotto. Questa sostanziale sovrapposizione tra Draghi e Meloni (con sullo sfondo alcuni elementi di differenziazione, ovviamente), pone qualche problema anche a quell’opposizione che ha in questi anni sostenuto fieramente riforme fiscali non troppo dissimili da questa. Mentre si evoca l’unificazione perversa sotto il regime della flat tax, il «carattere smaccatamente classista» della riforma Draghi viene qui addirittura accentuato e, come vedremo tra un istante, giustificato ideologicamente. È per questo che suggerirei di leggere questa riforma né come una restaurazione – un ritorno al modello fiscale che rompe con l’attuale modello istituito negli anni settanta – né come una semplice continuità. Io credo che sia entrambe le cose e che il termine più giusto è quel che ho scritto prima: portare a compimento. È una riforma che porta a compimento quanto cominciato ormai mezzo secolo fa (che impressione ricordarlo), soprattutto riducendo ulteriormente la progressività (dalle 32 aliquote dl 1973 alle 3 del 2023) ma che allo stesso tempo rompe definitivamente con lo schema di un’unica imposta per redditi analoghi tornando a un modello in cui a parità di reddito i trattamenti sono profondamente diseguali. Insomma, mette in discussione contemporaneamente i principi della progressività e della uguaglianza. Ciò che sintetizza questo duplice attacco è precisamente l’ideale verso cui tende questa riforma, cioè la flat tax.
In secondo luogo, vorrei analizzare brevemente la retorica culturale attraverso cui il Governo tenta di legittimare l’intero progetto di riforma fiscale. Se c’è qualcosa di notevole è proprio la furia ideologica con cui si accompagna questa riforma. Mi servirò – per provare a spiegarmi – di un passaggio del discorso pronunciato dalla Meloni pochi giorni fa di fronte alla platea della Cgil. Sa di giocare in territorio ostile e dunque le sue parole sono tutte tese a legittimare il proprio progetto molto più che illustrarlo. Permettetemi di citare per intero un passaggio: «la strada che non è mai stata intrapresa finora è quella di puntare tutto sulla crescita economica. Oggi si dice che per legge si possono garantire salari adeguati. Ma se fosse così, dovrebbe essere lo Stato a creare ricchezza, mentre le cose non stanno così… La ricchezza la creano le aziende con i loro lavoratori. Quello che compete allo Stato è immaginare regole giuste e redistribuire la parte di ricchezza che gli compete, e se questa è la verità, allora la sfida è mettere quelle aziende e quei lavoratori nella condizione migliore per creare una ricchezza che inevitabilmente si riverbererà su tutti. Per favorire la crescita occupazionale, per aumentare le retribuzioni io credo che la base sia far ripartire l’economia: sostenere il sistema produttivo, restituire all’Italia anche un po’ di sana fiducia in se stessa, liberare le sue energie migliori. È esattamente la visione che sta per esempio alla base della riforma fiscale che ieri il Consiglio dei Ministri ha approvato con una legge delega».
Già con le prime parole Meloni riscrive la realtà, assegnando la forza del nuovo alla ricetta più vecchia, quella del neoliberismo. L’idea cioè che il modo migliore per risolvere la crisi salariale del nostro paese sia affidarsi al mercato e lasciarlo libero di crescere. Cosa ci sia di nuovo in questa affermazione lo sappiamo tutti. Ma colpisce la pervicacia ideologica per cui un progetto di sottomissione dello Stato al mercato possa andare avanti da quasi cinquant’anni e nonostante ciò avere la faccia tosta di presentarsi come nuovo.
La furia neoliberista – quanto di più scontato e retrò si possa immaginare – continua e diventa via via sempre più precisa. Lo Stato non può creare ricchezza e l’unico soggetto in grado di farlo sono le imprese. Ciò che mi colpisce è la naturalizzazione di una tesi di parte: perché lo Stato non può creare ricchezza? Perché “le cose non stanno così”, scrive Meloni. Un “argomento d’autorità” che mette fuori gioco arbitrariamente teorie, tradizioni ed esperienze che di fatto hanno mostrato che le cose possono essere così e che allo Stato – tramite anche le riforme fiscali – può toccare il compito di produrre ricchezza in un certo modo e non in un altro (per fare solo un esempio non certo radicale, Meloni qui dichiara contronatura persino il keynesismo, che scommetteva sulla possibilità che lo Stato potesse indurre la crescita agendo prevalentemente sulla domanda e non solo sull’offerta). Subito dopo, a dimostrazione di quale sia la vera posta in gioco, Meloni ci suggerisce quale sia il ruolo dello Stato. E qui, forse per il contesto in cui queste parole sono state pronunciate, c’è un’apparente sorpresa. Non si limita infatti a suggerirci che il ruolo dello Stato è di essere al servizio dell’economia (la funzione principe dello Stato è di sorvegliare e garantire tramite regole giuste la libertà del mercato), ma fa riferimento anche al compito di «redistribuire la parte di ricchezza che gli compete». Dunque allo Stato non spetta solo di fare il guardiano del capitale, ma anche di redistribuire. Ma ridistribuire cosa? Che cos’è la parte di ricchezza che compete allo Stato? Non è precisamente quella parte di ricchezza che passa nelle mani dello Stato tramite il fisco? E infatti Meloni ci spiega subito: questa parte di ricchezza deve essere minima, perché il fisco ha come obiettivo quello di “lasciar” le imprese libere di creare «una ricchezza che in questo modo si riverbererà su tutti» (ancora la teoria del tricke down… ma quanta mancanza d’immaginazione e di cultura economica c’è nel neoliberismo dei nostri politici?). In altri termini: la riforma fiscale non deve avere come obiettivo quello di mettere lo Stato nelle condizioni di operare una equa redistribuzione, ma deve piuttosto limitare quel che compete allo Stato per liberare ricchezza privata, a cui è affidato ancora una volta il compito (il mito) della redistribuzione spontanea del mercato.
E infatti – quasi a chiudere il cerchio di questo dispositivo ideologico classicamente neoliberista che per ora occupa il posto della riforma fiscale – arrivano le parole del ministro Giorgetti, che chiarisce quali siano i veri obiettivi della riforma fiscale. Redistribuire le imposte in modo più equo? Prevedere un livello di tasse che sia proporzionale a ciò che serve per attuare i diritti costituzionali? Niente di tutto questo ovviamente: «Le nuove regole, operative entro 24 mesi dall’entrata in vigore della legge delega, vanno nella direzione di semplificare e ridurre la pressione fiscale, favorire investimenti e assunzioni e instaurare un rapporto tra contribuenti e amministrazione finanziaria nella logica di un dialogo mirato tra le parti secondo le esigenze di cittadini e imprese. Con l’istituzione del concordato preventivo biennale e il rafforzamento dell’adempimento collaborativo si riscrivono le regole della lotta all’evasione fiscale che diventa preventiva e non più repressiva”. Bisogna almeno riconoscere loro il merito della sincerità. La pressione fiscale va ridotta – poco importa se questo vuol dire affamare ancora lo Stato (quanto noiosamente vecchia è questa riforma che si traveste della retorica del nuovo); gli investimenti e le assunzioni da favorire sono esclusivamente quelli delle imprese e allora i soldi devono restare il più possibile dove vengono accumulati, in modo tale che sia il mercato a estendere la ricchezza; quanto all’evasione, la colpa è solo dello Stato e dunque istituiamo forme di condoni permanenti e preventivi. E ovviamente tutto ciò lo facciamo per una parte della società, mentre per gli altri – i lavoratori dipendenti, i pensionati – fortifichiamo un vero e proprio regime di Apartheid fiscale: non producete direttamente ricchezza, allora meritate di pagare le tasse. Il misterioso accenno di Meloni alla redistribuzione si chiarisce benissimo adesso. Qual è la parte di ricchezza che compete allo Stato? Quella che viene arbitrariamente etichettata come improduttiva: insegnanti, medici, funzionari pubblici, lavoratori dipendenti, pensionati. Il modello è quello: che lo Stato prenda soldi dalla ricchezza che produce società e non accumula profitto (o meglio, che produce il profitto accumulato dalle imprese). La riforma fiscale disegna un mondo così, in cui è esclusivamente il mercato a plasmare la società e allo Stato è assegnato un compito residuale: compete ad esso quella poca parte di ricchezza che non può essere contendibile dall’avidità delle imprese. Le tasse sono ormai viste come il castigo per coloro che tramite il loro lavoro si occupano di costruire la società piuttosto che produrre direttamente ricchezza.
Ora, e vengo all’ultima considerazione, questo dispositivo ideologico è così vetusto e scontato da apparire imbarazzante. Eppure vince. Dobbiamo riconoscerlo. È tragico doversi chiedere perché in Italia chi evoca la patrimoniale non ha diritto di parola, mentre chi predica di flat tax occupa tutte le scene. È tragico, ma è l’unica domanda a cui dobbiamo provare a rispondere, se vogliamo modificare lo stato di cose.
Qualcuno risponde a questa domanda diacronicamente, evocando le patologie della storia d’Italia. Il fatto che siamo un popolo abituato a patrimonializzare i propri risparmi e in cui il senso dello Stato è sempre stato più legato alla diffidenza che alla fiducia, specie per ciò che riguarda “la parte che ci spetta in cambio” (i servizi pubblici). Qualcun altro invece prova a rispondere sincronicamente, riconoscendo in ciò nient’altro che l’evidenza di una società incapace di legami sociali istituzionalizzati e che ha sostituito al patto sociale una sorta di contratto privatistico e non vincolante. Ciascuno si sente in diritto di prendersi dallo Stato ciò che gli interessa, senza sentirsi in dovere di dare in cambio nulla di particolare. Entrambe le risposte hanno del vero e sarebbe utile approfondirle. In entrambi i casi, infatti, siamo catapultati nel cuore di tenebra del problema. La riforma fiscale sta consolidando uno Stato trasformandone il patto sociale che dovrebbe starne alla base. Un patto sociale che non si fonda più su un mutuo scambio originario – io cedo a te una parte affinché tu possa restituirla a tutti in egual misura – ma su una sproporzione tra l’individuo che deve essere lasciato libero dai vincoli sociali e lo Stato che servirebbe solo a garantirgli quanto più possibile questa libertà dai vincoli. Tutto si consuma in questo spazio in cui i rapporti sociali sono ridotti al primato dell’individuo che produce ricchezza per sé. La solidarietà sociale – di cui il fisco dovrebbe essere una rappresentazione – è ormai soltanto un effetto marginale e involontario di questo individualismo proprietario. Ma uno Stato, per definizione, non può essere la semplice somma di contratti privatistici. Se ha un senso ciò che ho scritto, è forse semplicemente questo: riconoscere che dietro la delega fiscale del governo Meloni si nasconde un dispositivo ideologico tanto vecchio e prevedibile quanto minaccioso e destatalizzante. Ancora una volta: si scrive fisco, si legge Stato.