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09/03/2023 di: Anna Brambilla
Lo scafo è alzato in alto, in quel mondo in cui tutto è stato rovesciato da quei due colpi tremendi, è irraggiungibile. […] La nave affonda rapidamente e le onde si richiudono sopra di essa.
(A. Leogrande, Il naufragio. Morte nel Mediterraneo)
Nella sua audizione alla Camera del 7 marzo, il Ministro Piantedosi, dopo aver ricostruito gli eventi che hanno portato al naufragio di Cutro ha affermato che «sostenere che i soccorsi sarebbero stati condizionati o addirittura impediti dal Governo costituisce una grave falsità che offende, soprattutto, l’onore e la professionalità dei nostri operatori impegnati quotidianamente in mare, in scenari particolarmente difficili». Parole che fanno seguito a quelle della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni che, nel difendere la linea del Governo, ha affermato: «Davvero si pensa che abbiamo voluto far morire 60 persone? Continuiamo a fare tutto il possibile per salvare vite. Unica soluzione, impedire le partenze. Non è passato un giorno senza che me ne sia occupata».
Il punto, però, signora Presidente del Consiglio e signor Ministro Piantedosi, non è capire se è stato deliberatamente scelto di far morire tante persone ma è accertare se le autorità statali preposte hanno o non hanno pienamente rispettato il dovere di prevenire violazioni del diritto alla vita che, secondo quanto affermato anche nel rapporto “Unlawful death of refugees and migrants” dallo Special Rapporteur del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite sulle esecuzioni stragiudiziali, sommarie ed arbitrarie, «comprende tutte quelle misure di natura legale, politica, amministrativa e culturale che assicurano la salvaguardia dei diritti umani» e viene «violato ogni volta che gli Stati non agiscono con la dovuta diligenza, il che richiede una valutazione di: a) quanto lo Stato sapeva o avrebbe dovuto sapere; b) i rischi o la probabilità del danno; e c) la gravità del danno». Il punto è verificare se, applicando il principio di precauzione e il dovere di diligenza, in considerazione della caratteristiche dell’imbarcazione, del numero di persone a bordo e delle condizioni sia del meteo che dell’area verso cui la nave si stata dirigendo la perdita di tante vite umane si sarebbe potuta evitare.
Secondo la ricostruzione dei fatti fornita in aula dal ministro Piantedosi la prima segnalazione relativa all’imbarcazione avviene alle 23.03 del 25 febbraio quando «il Centro Situazioni di Varsavia dell’Agenzia Frontex comunica – all’International Coordination Centre di Pratica di Mare e, per conoscenza, al Centro di coordinamento italiano dei soccorsi marittimi (Itmrcc), nonché al Centro Nazionale di Coordinamento (Ncc) – l’avvistamento avvenuto alle 22.26 da parte dell’aereo Frontex Eagle One, impegnato in attività di sorveglianza nello Jonio, di un’imbarcazione in buono stato di galleggiabilità con una persona visibile sopra coperta, in acque internazionali, a circa 40 miglia nautiche dalle coste calabresi. […] L’assetto aereo, oltre ad aver captato una chiamata satellitare diretta in Turchia ed evidenziato boccaporti aperti in corrispondenza della prua, segnalava una risposta termica dei sensori di bordo e, quindi, la possibile presenza di persone sotto coperta». A seguito di tale segnalazione, la prima risposta operativa, alle 23.37 di sabato 25 febbraio, è da parte della Guardia di Finanza, e in particolare della vedetta V.5006 della Sezione Operativa Navale GDF di Crotone e del Pattugliatore Veloce P.V. 6 “Barbarisi” del Gruppo Aeronavale GDF Taranto, che tuttavia, «nonostante gli sforzi operati per raggiungere il target, considerate le difficili condizioni meteomarine e l’impossibilità di proseguire ulteriormente in sicurezza facevano rientro agli ormeggi di base». La Guardia di Finanza, dunque, rientra senza che venga chiesto il supporto di altre unità con la sola attivazione del dispositivo di ricerca a terra ed è solo nelle primissime ore del 26 febbraio, attorno alle 4.00 del mattino che, secondo le autorità italiane, «si concretizza l’esigenza di soccorso» anche in ragione di due richieste che pervengono prima al numero di emergenza 112 e poi al numero 1530. Quando il Centro Secondario del Soccorso Marittimo di Reggio Calabria (MRSC) attiva l’intervento e, in località Steccato di Cutro, convergono forze dell’ordine, personale sanitario, dei Vigili del fuoco e della Capitaneria di Porto è troppo tardi, l’imbarcazione si è infranta poco prima sul basso fondale e si è capovolta, distruggendosi e trascinando con sé uomini, donne e bambini.
Fermandosi a questa ricostruzione dei fatti, condivisa in aula dal ministro Piantedosi, tutto quanto era nelle possibilità delle autorità sarebbe stato fatto e, come accaduto altre volte, quanto verificatosi sarebbe da attribuirsi esclusivamente alle manovre azzardate e deliberatamente tese a sottrarsi al controllo degli scafisti.
Eppure.
Eppure, secondo quanto dichiarato dal capitano di vascello Vittorio Aloi, le condizioni del mare erano tali da poter essere affrontate da mezzi della guardia costiera. L’imbarcazione in difficoltà avrebbe potuto essere raggiunta, scortata e condotta fino a riva in sicurezza. Eppure, date le condizioni del mare, il sovraffollamento a bordo, l’assenza di dispositivi di salvataggio, la prima segnalazione (quella di Frontex delle 23.03) avrebbe potuto essere ricondotta quanto meno a quella che il Piano SAR Marittimo Nazionale del 2020 approvato con decreto ministeriale numero 45 del 4 febbraio 2021 definisce come INCERFA ovvero situazione «nella quale si può dubitare della sicurezza di una persona, di una nave o di un altro mezzo e si ha quando […] esiste un dubbio sulla sicurezza di un mezzo o del suo personale dovuto a mancanza di informazioni o alle eventuali difficoltà in cui potrebbero versare; [o] esiste un dubbio sulla sicurezza di una persona in mare». Eppure, quando è arrivata la segnalazione da parte di Frontex, il Centro nazionale di coordinamento del soccorso (IMRCC) italiano avrebbe potuto assumere il coordinamento e inviare mezzi navali ed aerei anche solo per valutare l’esigenza del soccorso tanto più che IMRCC italiano, alle ore 4.57 UTC del 25 febbraio 2023 – ore 5.57 italiane –, lanciò il messaggio Inmarsat n. 963, con priority Distress, con indicazione di evento SAR n. 384, a seguito di un segnale di mayday ricevuto da una stazione radio italiana riguardo a un possibile natante in distress (pericolo), che la Guardia costiera già coordinava questo evento SAR e che, pertanto, l’imbarcazione avvistata da Frontex poteva essere proprio quella per cui era stato aperto evento SAR n. 384.
Indagare su questo è lecito e dovuto, così come lo è stato per il naufragio dell’11 ottobre 2013, per il quale il Tribunale di Roma, pur dichiarando la prescrizione dei reati, ha affermato la piena responsabilità di due importanti funzionari dello Stato italiano nell’avere, tramite il rifiuto di compiere atti dovuti, determinato la morte di 286 persone. Indagare su questo è lecito e dovuto ma probabilmente non è sufficiente a individuare quanti e quali siano i responsabili non solo per la mancata piena tutela del diritto alla vita delle persone decedute ma anche per le condizioni in cui le persone superstiti si sono trovate a vivere nei giorni immediatamente successivi al naufragio. A fronte dell’eccezionale mobilitazione delle persone intervenute sulla spiaggia di Steccato di Cutro, di quanti si sono gettati in acqua ad abbracciare corpi e a scostare capelli, di quanti hanno scavato nella sabbia per recuperare ogni possibile preziosissima traccia, di quanti si sono attivati per permettere ai familiari di essere presenti al fine di restituire un nome e un’identità alle vittime, le istituzioni hanno permesso che i 98 sopravvissuti al naufragio venissero alloggiati per una settimana nell’ex Cara di Isola Capo Rizzuto in condizioni degradanti, con panchine al posto dei letti, senza alcuna distinzione di genere o età, in condizione di promiscuità e sorvegliati dalle forze dell’ordine. Ai superstiti non è stata nemmeno garantita la dignità del lutto, la libertà di potersi muovere e di potersi recare sulle bare dei propri cari senza limitazioni ingiustificate e senza potersi sottrarre allo sguardo (a volte rapace) delle telecamere e dei fotografi.
Indagare su tutto questo è lecito e dovuto ma probabilmente non sufficiente a comprendere quante e quali siano le responsabilità a livello di “sistema”. Un sistema in cui, come evidenziato nella già citata nota “Unlawful death of refugees and migrants, «I governi di tutto il mondo sanno che le persone muoiono nel tentativo di attraversare regioni di confine pericolose, compresi deserti, fiumi e mari. In questo caso, il conflitto tra diritti umani e controllo della migrazione non potrebbe essere più chiaro: i migranti dovrebbero essere dissuasi dall’attraversare una frontiera perché potrebbero morire. È impossibile proteggere il diritto alla vita e allo stesso tempo tentare di scoraggiare l’ingresso mettendo in pericolo la vita. Né è accettabile scoraggiare l’uscita da Paesi in cui le vite sono in pericolo con la motivazione che così facendo si salvano vite dai pericoli dell’attraversamento della frontiera: ciò significa semplicemente permettere una morte più segreta altrove». Un sistema in cui a una madre afghana, i cui figli minorenni si trovano in Germania, non è consentito raggiungere legalmente l’Europa attraverso una procedura di ricongiungimento familiare. Un sistema per cui a una giornalista afghana in pericolo nel proprio Paese non è stato permesso ottenere un visto per motivi umanitari perché questo avrebbe significato consentirle di “scavalcare la fila”, prevalere arbitrariamente su quanti (invano) aspettano di poter accedere ai (necessari ma insufficienti) corridoi umanitari.
Indagare su tutto questo è lecito e dovuto. Così come è lecito e dovuto tutelare la dignità delle vittime, dei loro corpi, della loro identità, dei loro affetti. I nome, l’età e la provenienza delle persone dovrebbero restare sulla spiaggia di Steccato di Cutro a futura memoria, per consentire, anche a distanza di anni, di soffermarsi davanti a quei nomi in silenzioso, intimo raccoglimento così come ci si può fermare davanti alla lapide che ricorda la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. Per non dimenticare. Per non nascondersi, all’italica maniera, dietro il valore delle istituzioni, il coraggio degli uomini in divisa che, quando salvano vite, non compiono atti eroici ma fanno unicamente il loro dovere.
A cinque braccia dal fondo tuo padre è sepolto. Sono fatte coralli le ossa. Due perle son fatti i suoi occhi. Ma nulla di lui va disperso. Ché un sortilegio del mare lo va tramutando, in qualcosa di ricco e di strano.
(W. Shakespeare, La tempesta)