La questione delle abitazioni in Italia

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1.

In Italia a inizio Novecento si avviano diverse iniziative per affrontare il problema della casa. Con la legge Luzzati del 1903 nascono gli Istituti Autonomi Case Popolari (IACP) finanziati dello Stato per realizzare programmi di edilizia popolare. A Torino Pietro Fenoglio, maestro del Liberty, con Mario Vicarj e in collaborazione con l’igienista Luigi Pagliani, è incaricato da una cooperativa di iniziativa privata di progettare il quartiere modello di via Marco Polo (1903-1907). Un altro esempio della qualità di questi interventi è il complesso IACP di corso Racconigi (1910).

Durante il fascismo il tema della casa per i poveri non è centrale nell’agenda del governo che vorrebbe disurbanizzare e ruralizzare la società, tuttavia proseguono alcuni programmi di edilizia pubblica, orientati principalmente a settori sociali vicini al regime, con un forte contenuto di propaganda. Tra gli esempi più noti il quartiere La Garbatella a Roma 1920 di Massimo Piacentini, Gustavo Giovannoni, Innocenzo Sabbatini, Costantino Costantini, Plinio Marconi, Gian Battista Trotta e la Casa del sole di Sabbatini. I riferimenti formali di questi quartieri sono ancora storicisti, con attenzione al paesaggio e alla definizione di contesti urbani umani e gradevoli.

Non mancano casi di innovazione da parte degli architetti più interessati alla modernità, come nel caso Olivetti di Ivrea. Nella seconda parte degli anni Trenta, in coincidenza con il maggior ruolo assunto da Adriano Olivetti, figlio di Camillo, nella conduzione dell’azienda, prende nuovo impulso la progettazione di abitazioni per i lavoratori. Architetti di alto profilo sono coinvolti in un progetto urbanistico complessivo che prevede la nascita di nuovi quartieri residenziali nelle aree prossime agli stabilimenti. Gli architetti milanesi Luigi Figini e Gino Pollini, che già hanno lavorato al Piano Regolatore della Valle d’Aosta del 1938 e alla progettazione dei nuovi stabilimenti di Ivrea, realizzano una casa di tre piani e 24 alloggi nel Borgo Olivetti, a ridosso della scuola materna (1939-1941). Il progetto si ispira ai canoni dell’architettura moderna internazionale, ma con un inedito rapporto con tradizioni costruttive locali. Tra il 1940 e il 1941 ancora Figini e Pollini realizzano un complesso di sette case per famiglie numerose. È l’inizio del quartiere di via Castellamonte (oggi via Jervis), non lontano dagli stabilimenti, che nel dopoguerra si espande con progettati di Marcello Nizzoli, Gian Mario Oliveri e Ignazio Gardella. Gli alloggi, ispirati ai modelli di matrice razionalista, sono organizzati su tre piani e ogni appartamento dispone di un piccolo giardino di pertinenza, come nei casi tedeschi. Questo nucleo di edifici, al pari delle Officine ICO, avrà grande notorietà nel dibattito sull’architettura del movimento moderno negli anni prima e dopo la guerra.

Con la guerra tutte le ricerche si interrompono e come sempre sono i poveri a pagare il prezzo più alto, con i bombardamenti che spesso riguardano i quartieri operai e popolari. La casa diventa talvolta una casa di emergenza. Basti pensare alla rete della metropolitana usata come rifugio a Londra. Con il dopoguerra si pone il problema di accogliere chi ha perso la casa sotto le bombe e chi torna dai campi di concentramento e di prigionia. Campi di emergenza sono allestiti a Roma, Cinecittà e sono diffusi in tutto il Paese (Grugliasco, Rivoli, Cremona, Fermo, Santa Maria al Bagno, Firenze, Ferramonti in Calabria, Bari nel Salento, a Tricase, Santa Cesarea e Santa Maria di Leuca).

2.

La fine del regime fascista e la nuova Costituzione sanciscono una nuova fase per il nostro Paese. I governi prendono in carico, almeno in parte, le istanze di progresso e di giustizia espresse della Resistenza. La progettazione della casa per i poveri vive una particolare stagione di interesse e successo che può essere inscritta nell’ampio quadro culturale della letteratura e del cinema neorealisti. Con la legge 43 del 1949, Provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per lavoratori, voluta dal Ministro del lavoro Amintore Fanfani, viene avviato il più importante intervento di edilizia residenziale pubblica mai attuato nel nostro Paese. I quartieri di questo periodo sono espressione di una avanzata cultura progettuale impegnata sul tema della casa per tutti. L’influenza viene dalla sociologia americana della neighborhood unit e dalle esperienze delle socialdemocrazie scandinave. Per la progettazione viene organizzato un ufficio centralizzato di coordinamento assegnato a due architetti, espressione di due tendenze culturali diverse: Arnaldo Foschini, tradizionalista e Adalberto Libera, modernista. La legge prevede il finanziamento da parte dello Stato con risorse recepite in parte dai datori di lavoro e in parte dai dipendenti. Il piano, articolato in due settenni tra 1949 e il 1963, porterà a una massiccia costruzione di nuovi quartieri: nei 14 anni previsti sono aperti circa 20.000 cantieri e realizzati quasi 2 milioni di vani, per un totale di 335.000 alloggi, distribuiti su 5036 comuni, su un totale di 7995. Per le fasi di progetto e di gestione dei cantieri sono selezionati, attraverso concorsi, più di 2.000 tra architetti e ingegneri: circa la metà del totale dei progettisti edili del tempo.

Tra gli interventi più noti basti ricordare il Quartiere Tiburtino (Mario Ridolfi, Ludovico Quaroni, Roma 1950-1954), il Borgo “La Martella” (Quaroni et alii, Matera 1951) che permette di sanare le abitazioni nelle grotte dei Sass, a Torino il Quartiere “La Falchera” (1950-1958), coordinatore Giovanni Astengo, il QT8 (Quartiere Triennale Ottava, Milano 1946-1951), coordinatore Piero Bottoni. In questi e molti altri episodi troviamo i contributi degli architetti più bravi del tempo, impegnati su un tema che è ritenuto cruciale per migliorare la vita nelle città e garantire lo sviluppo economico del Paese. Non mancano i problemi, in particolare questi quartieri nascono come “accidenti” nella città esistente, al di fuori di una pianificazione complessiva, ma soprattutto sono strumenti di segregazione sociale: «Monotona ed anemica si prospetta la vita dei quartieri a categoria fissa: sveglia, uscita per il lavoro e rientro serale avranno il ritmo di operazioni collettive; durante il giorno un grande silenzio, fortunatamente allietato dalle frotte di bimbi in libertà negli spazi verdi. Il quartiere [] si anima alla sera, e la sua funzione è assolta pienamente solo alla notte: esso non è un quartiere di vita cittadina, ma un quartiere-dormitorio che ricalca, seppure attutito lo squallore delle periferie delle grandi città. Anche se la presenza delle progettate attrezzature pubbliche e dei negozi di prima necessità attenueranno la segregazione di chi vi abita, tuttavia la sensazione di non partecipare alla vita cittadina permarrà, necessariamente: il privilegio di una casa sana può anche in definitiva tramutarsi in nevrosi. Al contrario, gli aspetti positivi della vita cittadina, la vivacità, l’animazione, il senso di pienezza, si possono e si devono travasare nei nuovi quartieri: essi devono cessare di essere legati a determinati stanziamenti e quindi vincolati ad ospitare categorie chiuse, per diventare accessibili a tutte le categorie sociali dai commercianti, agli artigiani, ai professionisti, ai pensionati. Cesserà così la vita a orario fisso, le svariate attività economiche ricreeranno interrelazioni sociali complesse: dal semplice tessuto si passerà all’organismo, dal quartiere-dormitorio alla comunità. Ma perché il trapasso possa avvenire occorrono alcune condizioni fondamentali e complementari: la prima è la pianificazione» (Giovanni Astengo, Domitori o comunità, in “Urbanistica”, n. 10-11, 1952, pp. 3-6).

Modesto esito del ricco dibattito degli anni Sessanta intorno alla pianificazione è l’approvazione della legge 167 del 1962 per la realizzazione di edilizia popolare, sulla quale si appuntano le speranze di una nuova urbanistica che non ci sarà mai, nonostante il generoso tentativo del ministro democristiano Fiorentino Sullo, sconfessato dal suo stesso partito ed emarginato per volontà politica e inanità culturale. La legge 167 sarà spesso utilizzata per trasferire risorse pubbliche, attraverso operatori privati e cooperative, a ceti medio alti, mentre restano insufficienti le risorse per i ceti più poveri della popolazione. Saranno le lotte sindacali del periodo a porre al centro della questione operaia il tema della mancanza di case e degli affitti troppo alti, a partire dalla prima manifestazione per affermare il diritto alla casa che si svolge proprio a Torino e si trasforma nella famosa “battaglia di corso Traiano” del 3 luglio 1969.

Negli anni Settanta si registrano interventi di edilizia popolare come lo Zen a Palermo, il Corviale a Roma, Scampia a Napoli, via Artom a Torino. Quartieri paragonabili ai grandi interventi di housing internazionale, tentativi di trovare una nuova risposta progettuale alle sfide dell’abitazione popolare nelle grandi città, ma presto divenuti simbolo di degrado e segregazione. La parabola di Scampia è emblematica: «Il 20 febbraio 2020 è una data storica per Scampia che inizia l’abbattimento della Vela verde. Le vele di Scampia sono diventate simbolo mondiale di periferia, ghetto, violenza, spaccio. Eppure io (e non sono il solo) ho sempre riconosciuto una grande bellezza a queste strutture diventate, poi, mostruose nell’immaginario internazionale. Eppure Franz di Salvo, l’architetto che progettò le Vele aveva in mente tutt’altro, rispetto al destino di ghetto che hanno avuto questi edifici. Le vele nascono per portare in periferia la vita dei vicoli di Napoli. Vengono costruiti questi ballatori sospesi nel vuoto su cui insistono diverse scale, che portano agli appartamenti, dando la possibilità di intrattenersi fuori dalla porta di casa riproducendo proprio il vicolo. Una casa che i normali condomini non hanno. Chi dà colpa a quel tipo di struttura considerandola criminogena per via del fatto che era impossibile da controllare dalle forze dell’ordine forse non sa che in costa azzurra esistono le stesse vele, che sono tra gli appartamenti più costosi del pianeta, certo si trovano in un posto ricco, per ricchi, vicino al mare. Ma è proprio questo il tema: proclamare il rinnovo di un quartiere è davvero sufficiente? O si sta solo distruggendo un simbolo mediatico? Per guarire quel territorio c’è bisogno di investimenti e di lavoro non di abbattere le Vele» (Roberto Saviano, intervista, YouTube page.it, 20 febbraio 2020).

Alla fine degli anni Settanta e agli inizi degli anni Ottanta si registra l’intensificarsi di interventi di edilizia pubblica tra cui quella del recupero del patrimonio. Tuttavia nel corso degli anni Ottanta e Novanta la ventata iper liberista guidata negli USA da Ronald Reagan e nel Regno Unito da Margaret Thatcher, trova ampia adesione nei governi italiani, e si traduce in un progressivo abbandono delle politiche per la casa pubblica. Saranno i governi di “centrosinistra” ad abolire la legge sull’equo canone e ad avviare il decentramento amministrativo: l’intervento pubblico nel settore abitativo viene demandato alle Regioni, senza trasferimento di risorse. Sciolti gli IACP, i nuovi enti creati ad hoc per la gestione del patrimonio residenziale pubblico, le Aziende Casa, devono trovare da sé i finanziamenti per le ristrutturazioni e le nuove costruzioni: procedono ad aumenti dei canoni e alla svendita di una cospicua parte del patrimonio immobiliare pubblico, messo sul mercato a un valore di molte volte inferiore a quello reale. Sostanzialmente finisce una stagione eroica di interventi per l’edilizia popolare.

3.

Attualmente gli alloggi di edilizia residenziale pubblica (ERP) rappresentano soltanto il 4% dello stock abitativo complessivo del Paese, pochi rispetto al fabbisogno e rispetto alla consistenza del patrimonio pubblico di altri paesi come Francia (16,8% del totale degli alloggi) e Regno Unito (17,60% del totale degli alloggi). Una percentuale che pone l’Italia agli ultimi posti in Europa insieme alla Spagna. I dati più recenti sul numero complessivo di alloggi popolari nel Paese, raccolti da Nomisma per conto di Federcasa (Dimensione del disagio abitativo pre e post emergenza Covid-19, maggio 2020), parlano di 758mila alloggi, di cui 652mila assegnati regolarmente. Si tratta di ben poca cosa se consideriamo che attualmente sono 650.000 le domande di case popolari in attesa senza prospettiva di assegnazione e che Nomisma ha stimato che siano 1,2 milioni i nuclei familiari in affitto – al di fuori del sistema ERP – che vivono in condizione di “disagio economico acuto”. Nel frattempo la povertà è in aumento e ha raggiunto la cifra record di quasi sei milioni di persone sotto la soglia di povertà (il 10% della popolazione italiana): Il Censis documenta in Italia quasi 100.000 persone senza fissa dimora, mentre crescono gli sfratti, le abitazioni precarie e le occupazioni abusive. In Piemonte si registrano circa 5.000 sfratti in attesa di esecuzione. A Torino a fronte di circa 16.000 famiglie in cerca di casa si stimano 40-50.000 alloggi non utilizzati: ogni famiglia senza casa avrebbe teoricamente a disposizione tre alloggi liberi. E tutto ciò avviene mentre la popolazione degli ambiti urbani resta stabile o in alcuni casi, come Torino, tende a decrescere. L’accesso alla casa per tutti sembra non essere più una priorità politica per nessun governo.

Ormai è esperienza comune vedere persone che dormono in giacigli di fortuna, per strada, sotto i portici. Sono i cosiddetti homeless, barboni, clochard, senza fissa dimora, disperati, balordi. Queste sono alcune delle definizioni più frequentemente usate per riferirsi a queste persone: «Le persone senza dimora non sono altro da “noi”, prendono forma in relazione a noi. Sono prodotte in relazione alle disuguaglianze e all’assenza di regolamentazione del mercato abitativo privato, nelle politiche discriminatorie rispetto alla residenza, e non sono invisibili ma sono rese invisibili, avere contezza di questo significa parlarne diversamente, spazi che facilitino e garantiscano possibilità di presa di parola, possibilità di agire diversamente. Contrastare la homelessness vuol dire intervenire per ridurre le diseguaglianze. […] Vuol dire dar spazio di parola alle persone che fanno l’esperienza di trovarsi senza casa (a questo proposito è rilevante il fatto che a Torino nel 2017 sia nata la prima Associazione italiana di persone senza dimora AIPSD). [] Vuol dire parlare di politiche per l’abitare. Strumenti di contrasto alla homelessness sono per esempio gli sportelli di resistenza agli sfratti, le occupazioni di edifici abbandonati e auto recuperati, perlopiù attuate da realtà autorganizzate al fine di rivendicare pubblicamente condizioni di vita migliore per tutti/e, un ripensamento radicale dell’organizzazione delle società in cui viviamo. Sono le reti di solidarietà che intervengono nei limiti delle loro possibilità, che sperimentano, che fungono da motore di alcuni cambiamenti, ma che non possono e in molti casi non vogliono sostituirsi al ruolo del pubblico nel garantire condizioni abitative dignitose per chiunque. È necessario riconoscere la questione abitativa come prioritaria se si vuole davvero contrastare la povertà, anziché fare la guerra ai poveri nasconderli sotto al tappeto in occasione di grandi eventi, espellerli, criminalizzarli per la propria condizione. []. È il momento di raccogliere queste sfide» (Daniela Leonardi, La colpa di non avere un tetto. Homlessness tra stigma e stereotipi, Eris, Torino 2021).

Oggi emergono nuovi temi legati alla casa dei poveri, dalla casa per l’emergenza dovuta a terremoti e dissesti idrogeologici, al rifugio per i profughi e per le persone in fuga da guerre, persecuzioni e carestie. L’agenzia dell’ONU per i rifugiati (UNHCR) stima in 80 milioni i profughi nel mondo costretti in villaggi di fortuna o accampamenti provvisori che nel tempo diventano semistabili. Emblematica dell’attualità della “questione delle abitazioni” è la vicenda dei Mondiali di calcio in Qatar che ha visto migliaia di immigrati morire nei cantieri edilizi e abitare in condizioni disumane. Addirittura si scopre che la maggioranza della popolazione del Qatar – il 60 per cento di 2.5 milioni di individui – vive in infinite città-dormitorio che spaziano da quelle “ufficiali”, inaugurate dal governo a quelle “ufficiose”, sorte in maniera disordinata attorno ai cantieri.

A distanza di quasi 180 anni dalla denuncia di Engel intorno alle condizioni di vita dei lavoratori nelle città industriali, la questione della casa non solo non è risolta, ma è sempre più attuale nei paesi poveri e anche nel nostro ricco mondo occidentale. Per di più il tema ha perso quel significato di ricerca e di innovazione che nel secolo scorso aveva motivato le più interessanti espressioni del progetto di architettura e di città. L’accesso alla casa, a un ricovero sicuro e dignitoso per sé e per i propri cari, è un diritto basilare, quello che rende tutti gli altri (libertà, salute, lavoro, istruzione ecc.) davvero praticabili. Ora sembra una sfida non raccolta, che invece le nostre scuole di architettura e il mondo della politica dovrebbero prendere in carico e affrontare.

È la seconda parte della lezione svolta dall’autore il 18 gennaio 2023 all’atto del commiato dal Politecnico di Torino. La prima parte (https://volerelaluna.it/societa/2023/01/31/le-case-dei-poveri-appunti-per-una-storia/) è stata pubblicata nei giorni scorsi. La registrazione dell’intero intervento è disponibile al link https://politoit.sharepoint.com/:f:/t/COLL_RecordingEventi/EvTBwMI-j55DsoPmlhp6_2wBOIAsfC6talwTVDLAVyOM2Q?e=a3tU1x .

Gli autori

Guido Montanari

Guido Montanari (1957), architetto, ph.d., ha insegnato dal 1990 Storia dell’architettura contemporanea al Politecnico di Torino. Autore di più di 130 pubblicazioni, ha condotto ricerche sulla storia dell’architettura e della città tra XVIII e XXI secolo. È impegnato sulla difesa dei beni comuni, della tutela del patrimonio, del suolo e del paesaggio. È stato presidente della Commissione Locale del Paesaggio di Torino (2005-2010), assessore all’urbanistica a Rivalta (2012-2016), vicesindaco e assessore alla pianificazione di Torino (2016-2019). Attualmente coordina le attività del gruppo di studio “Città e Territorio” dell’Unione Culturale di Torino. La sua ultima pubblicazione è Torino Futura. Riflessioni e proposte di un ex vicesindaco (Celid, Torino 2021).

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