Mentre fuori il mondo brucia di guerra e di disperazione, la roboante fase costituente del PD sembra essere giunta al fatidico attimo del “cambiamo il nome”. Ci si illude di ricominciare, poco importa se si rimane sempre gli stessi e con le stesse idee, poche e cattive. La verità è però più tragica: mentre il Pd discute se azzerare la propria storia, la sinistra si consuma in una crisi che è anche una rottura generazionale. Non solo e non tanto nella politica, i cui segnali di vita sono così deboli da risultare non troppo significativi, quanto in quella società civile che in questi anni di crisi ha sostituito i partiti sequestrati nel loro finale che non finisce. Dall’associazionismo al mondo delle cooperative, il restringersi della società civile, per come l’abbiamo conosciuta, sembra sempre più un estinguersi. E non basta il paternalismo a fermare questo declino delle forme che abbiamo conosciuto e che ci hanno illuso della loro eternità. Le righe che seguono non sono altro che una confessione, una sorta di diario intimo dal cuore di una crisi politica e sociale in cui la rottura generazionale rischia di lasciare un deserto dove prima fiorivano comunità, forme di vita collettiva, mobilitazioni sociali. Una confessione intima sulla crisi dell’impegno politico di un quasi cinquantenne.
1. L’invenzione della mezza età
Lo confesso, anche se un po’ oramai mi costa: mi sto avvicinando ai cinquant’anni. Notizia che immagino sconvolga emotivamente così tanto i lettori che potrei anche finire qui l’articolo. Invece non solo continuerò, ma non sarò neanche breve (sto già sviluppando la tipica logorrea dei meno giovani). La mia età è un punto d’osservazione privilegiato su uno degli elementi più sensibili della crisi della mediazione politica e sociale. Un ottimo luogo per capire perché partiti e società civile di sinistra non riescono a rinnovarsi in modo credibile.
Il perché avere quasi cinquant’anni permetta di comprendere queste cose in modo privilegiato è molto semplice da spiegare. Fino a pochi anni fa, quando qualche autorevole esponente intellettuale o politico, dopo aver attraversato decenni di militanza, dichiarava infine che “è giunto il momento di lasciar spazio ai giovani”, io mi sentivo chiamato in causa e venivo persino osservato dagli altri con sguardo di malcelata invidia (che comincio persino a capire). Adesso, quando questa scena succede – e tutti possiamo riconoscere che essa si ripete ancora troppo spesso durante i nostri impegni politici o civili – provo un disorientamento radicale. Non sono più giovane e non sono ancora anziano, tutto sommato. Non so bene come definirmi, dal punto di vista generazionale. Sono consapevole che tale punto di vista possa essere ambiguo e scivoloso da maneggiare: basti pensare a quanto non sia corretto fare ciò che sto facendo io per questione di spazio, cioè separare il problema delle generazioni da quello di genere. Che vuol dire infatti introdurre la questione delle generazioni, all’interno della riflessione sulla trasformazione delle forme della politica?
Forse, per cominciare, il modo migliore è cercare di definire a chi mi riferisco quando mi riferisco alle generazioni: i giovani sono coloro dei quali non possiamo ancora raccontare una storia degli effetti delle loro esperienze di militanza. Quelli che si avvicinano perché probabilmente sentono di condividere un insieme di valori, ma che non hanno alcuna esperienza di militanza politica o associativa (non come Renzi, che della storia della sinistra non solo non aveva esperienza, ma aveva anche la presunzione di non condividerne nulla). Sono vergini, non avendo sperimentato ancora né soddisfazione né frustrazione. Il nuovo che rappresentano non è migliore del presente, è semplicemente imprecisato. È politicamente nuovo esattamente per questa sua indeterminatezza che lascia spazio alla speranza che vi sia ancora un sentiero da tracciare affinché le cose possano andare un poco meglio. Invece gli anziani sono quelli che appartengono a generazioni che hanno vissuto la loro giovinezza nell’entusiasmante periodo in cui l’emancipazione sociale non era solo la causa del loro impegno civile, ma ne era anche l’effetto. Un tempo in cui impegnarsi voleva dire non solo sperare di trasformare il mondo, ma trasformarlo concretamente in tanti suoi aspetti. E che dunque vivono il presente sospeso della sinistra non come una legge naturale dell’impegno civile.
Per noi quasi cinquantenni invece il nesso tra frustrazione e impegno civile è naturale come la legge di Murphy: non siamo più vergini, però non abbiamo mai vissuto esperienze di impegno militante che non siano affogate nella frustrazione. Non possiamo rappresentare il nuovo e non abbiamo neppure nessun tempo glorioso da ricordare per ripararci dalle miserie del presente. Pensavo tutto questo mentre leggevo della stralunata discussione sulla necessità di cambiare nome a cui pare essersi ridotta la costituente del PD. Ora, “cambiare nome” è a pensarci bene cosa assai curiosa. Per una persona qualsiasi e salvo casi eccezionali l’unica cosa che non si può cambiare è proprio il nome. Al limite si può essere degni (o indegni, molto più spesso) del proprio nome, ma cambiarlo proprio no. Anche questo è il segno di quanto il PD sia un partito perfettamente aderente al presente. La retorica del merito non veicola in fondo anche questo? L’idea che io valga solo perché mi sono fatto da me, sono un self made man. E se tutto ciò che sono è merito mio, allora potrò cambiare persino il nome. C’è una cosa curiosa che accade da un po’ di tempo nei ringraziamenti delle tesi di laurea (si potrebbe fare una storia sociale assai divertente leggendo i ringraziamenti delle tesi di laurea): buona parte dei laureandi ci tengono a ringraziare se stessi. Non vogliono sentirsi in debito con nessun altro. Sono persuasi che si debba vincere contro gli altri, raramente con gli altri. Ecco, Il Pd è un po’ come i miei laureandi, pretendendo di cambiare ogni volta il proprio nome s’illude di non essere in debito con nessuno. E in effetti rimane sempre più solo. Invece al nostro nome siamo inchiodati. Non possiamo darcelo da noi, è un destino che subiamo, l’ultima rappresentazione del concetto greco di Ananke. Quanto al nostro nome, siamo tutti come Edipo: il nostro destino e la nostra identità ci sopravanzano.
2. La superiorità del proprio nome
Conosco tante persone – anziane, per continuare con le categorie scivolose con cui ho cominciato – che sono così affezionate ai loro nomi che ne fanno una questione identitaria: non se ne separerebbero per nulla al mondo e pretendono che anche coloro che vengono dopo abbiano rispetto per quel nome. Non parlo certo dei loro nomi propri. Ma dei nomi che hanno segnato la loro storia politica: di partiti, di associazioni, di maestri vivi e di altri purtroppo scomparsi, di culture e tradizioni che hanno, letteralmente e in positivo, fatto la storia. Rischiando così di passare all’estremo opposto: non più cambiare con una leggerezza disarmante il proprio nome, ma ridurre il rapporto generazionale a una sorta di guerra affinché il proprio nome e la propria storia non vengano in alcun modo modificati.
Insomma, ciò che resta della sinistra si consuma dentro questa estremizzazione per cui o si può cambiare tutto, persino il proprio nome, oppure non si deve toccare nulla, tanto meno il proprio nome. Una polarizzazione perversa che ha come conseguenza anche quella di disinnescare la continuità generazionale. Non sto certo sostenendo che la responsabilità della crisi della società civile e della politica sia legata esclusivamente o prioritariamente a questo effetto del modo di rapportarsi con la propria identità. Ma credo che questa polarizzazione segnali una sorta di rigidità emotiva che non permette alle generazioni di capirsi. Perché è ovvio che dietro la difficoltà del ricambio generazionale vi sono delle mutate condizioni sociali. I social hanno sostituito la carta stampata, litigare sui social o via mail ha sostituito le discussioni in presenza (peraltro la sensazione è che la tentazione di trasformarsi in leoni da tastiera sia trasversale a tutte le generazioni). Ma dietro questo mutamento non c’è solo un degrado sociale, ma anche una costrizione sociale. Bisogna farci i conti senza farne una colpa alle generazioni che sono state costrette a immaginare il proprio tempo libero e il loro impegno sociale dentro questi dispositivi di relazione e di comunicazione.
Noi quasi cinquantenni abbiamo un ruolo privilegiato. Già sentiamo quella sensazione per cui osserviamo con diffidenza ciò che si presenta come nuovo e difendiamo ostinatamente ciò che abbiamo conosciuto come cosa viva e che adesso è scivolato lontano dal cuore della scena. C’è un esempio che forse riesce a esprimere meglio quanto vorrei dire. Ho un patto con mio figlio: quando ascoltiamo della musica insieme, ci alterniamo nella scelta dei brani. Io scelgo De André e mi aspetto che provi anche lui la stessa emozione che ho sentito quando ho scoperto la sua musica. Poi sceglie lui. E spesso mi costringe ad ascoltare cantanti con nome assurdi – Willie Peyote, Caparezza. Ecco, la mia prima reazione è quella identitaria. Sciogliamo subito il patto perché non tutto può essere uguale e De André è oggettivamente meglio di questa musica senza senso. Se dobbiamo ascoltare della musica insieme, lo facciamo alle mie condizioni. Se dobbiamo impegnarci politicamente insieme, lo facciamo secondo le forme di linguaggio e di relazioni che si sono consolidate nei decenni. E se proprio non possiamo più utilizzarle queste forme – alcune di loro sono come le cassette audio di un tempo, per quanto possa rimpiangerle non si trovano più i dispositivi per ascoltarle – sta a noi più esperti sceglierne di nuove. Perché chi ci garantisce che loro siano fedeli ai nostri valori? Come facciamo a fidarci dei barbari? Ecco, a volte ho l’impressione che invece della fiducia, il legame generazionale sia fondato sulla diffidenza: se tu non sei come me, allora sei un barbaro. È inutile ricordare che la storia insegna che i barbari da cui ci difendiamo sono sempre coloro che possono salvarci dal declino inarrestabile. Ma appunto: mio figlio non ascolta la mia musica e non è come me, per fortuna. Che double bind invivibile: costringere generazioni intere a dover essere uguali a noi e contemporaneamente ricordargli che non potranno mai esserlo. Perché sono loro e non sono noi, per fortuna.
Abbiamo bisogno delle nuove generazioni per non estinguerci, ma non siamo disposti ad ascoltare la loro musica. Abbiamo bisogno che le nuove generazioni vengano ad ascoltare De André, che altrimenti non lo ascolta più nessuno e non si capisce perché. E se proprio dobbiamo concedere di non ascoltare De André, allora ascolteremo Guccini. Qualcuno dirà: che c’è di sbagliato in questo, se De André è oggettivamente migliore di Willie Peyote? E qui torniamo alla questione del nome e a quello che mi sembra il cuore della crisi generazionale che attanaglia le nostre piccole comunità: abbiamo forse disimparato a lasciare in eredità.
3. Della rottamazione e delle eredità
È davvero tutta una questione di eredità. La rottamazione di renziana memoria non solo era falsa – perché non poneva la questione dell’eredità politica ma quella della guerra politica tra le generazioni – ma era anche contraria rispetto a ciò che dovrebbe fisiologicamente accadere. Le eredità, anche quelle politiche, sono una cosa strana, in effetti. Non si possono pretendere e si devono lasciare. Un’associazione o un partito non sono qualcosa che spetta a chi viene dopo coloro che l’hanno animata per tanto tempo. Non ci sono figli e non ci sono parti legittime da rivendicare. Nel momento in cui si pretende un’eredità che non può che essere lasciata in dono, se ne perde il senso che è precisamente quello di simbolizzare un’alleanza rigenerata tra le generazioni che si susseguono. Il cinismo della rottamazione renziana è figlio di un mondo che non sa più cosa sia donare e vuole soltanto rivendicare il diritto a possedere.
Ma se l’eredità è un dono, chi lascia in eredità deve imparare ad affidarla. Non può decidere che cosa accadrà, come quell’eredità verrà impegnata, quali parole e forme essa propizierà. Se lascia l’eredità a qualcuno, è perché si fida. Il valore non sta in ciò che lascia, ma nel legame per cui quell’eredità viene affidata a qualcun altro. Ecco, forse il punto decisivo è semplicemente questo: nessuno sa più lasciare. Perché le cose si trasformano e se non riescono a trasformarsi, finiscono. È una legge naturale, vale per le nostre vite e anche per la sopravvivenza delle cose che abbiamo contribuito a creare nei nostri decenni di impegno sociale. C’è un solo modo per non farle finire: non condannarle a finire con noi. Imparare a lasciarle in eredità. Non a noi quasi cinquantenni. Che non abbiamo né eredità da accettare né eredità da lasciare. Il nostro ruolo è ormai quello di disperati traduttori di linguaggi politici che sono piene di glosse incomprensibili tra loro, che si radicano in esperienze di mondo incomparabili, in attese e valori che non sanno più comprendersi, e forse neanche lo vogliono. Traduttori di lingue che nemmeno noi comprendiamo e che pure dovranno comprendersi, perché solo la verginità dei giovani potrà salvarci dalla frustrazione degli anziani e solo la memoria gloriosa degli anziani potrà fare in modo che la verginità politica dei giovani non affondi nella palude della necessità della frustrazione, come è accaduto con la mia generazione. L’eredità non è fatta per restare intatta. È un piccolo gruzzolo che serve a continuare il lavoro che non è stato compiuto. Per cambiare il mondo. Questo conta. Se non siamo disposti a cambiare noi stessi, come faremo a cambiare il mondo?
PS. Grazie a mio figlio ho scoperto che Willie Peyote ha registrato una versione de Il Bombarolo che, ne sono certo, avrebbe fatto sorridere De André. È una versione fedele ma non letterale, è quella canzone ma è anche un’altra canzone. Ottimo esempio di ciò che potrebbe succedere se imparassimo a lasciare in eredità ciò che di buono abbiamo costruito in questi decenni.