Europa: corruzione e deficit democratico

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Dietro la coltre di fumo dell’indignazione per il Qatargate, lo scandalo dai tratti grotteschi che si è abbattuto sulle istituzioni europee, c’è un gigantesco non detto. Un enorme rimosso, che stenta ad affacciarsi alle nostre coscienze assuefatte al teatrino politico-mediatico quotidiano. Si tratta del mai seriamente affrontato “deficit democratico” dell’Unione europea, di cui per lo meno qualche anno fa si discuteva, di cui si avvertiva la gravità, soprattutto se raffrontato agli alti ideali che avevano ispirato l’europeismo del secondo dopoguerra. Ma di cui oggi sembra essere svanita ogni consapevolezza e ogni tentativo, sia pur timido, di immaginare soluzioni.

L’Europa che Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi avevano progettato a Ventotene avrebbe dovuto essere non solo unita, pacifica, solidale, ma anche democratica. Dotata di istituzioni in grado di rappresentare direttamente, senza la mediazione degli Stati nazionali, le aspirazioni, le idee, i bisogni dei cittadini europei. Ciò che esiste oggi è qualcosa di profondamente diverso: «un consesso internazionale di 27 paesi nel quale non si decide a maggioranza, come accade in una universitas, in un (vero) soggetto politico collettivo, ma si procede per continue mediazioni pattizie tra gli interessi degli Stati membri dell’Unione, che questi Stati fanno valere uti singuli» (M. Bovero, Salus mundi, Castelvecchi 2022, pp. 53-4). E in cui l’istituzione che nei sistemi democratici moderni, siano essi di tipo parlamentare o presidenziale, è ovunque (almeno formalmente) la sede della sovranità – l’assemblea rappresentativa, eletta a suffragio universale e diretto da tutti i cittadini – è priva delle prerogative proprie dei parlamenti democratici. Tanto da arrivare al paradosso che «guardando alle sue istituzioni politiche, l’Unione continua a non avere i requisiti democratici che si richiedono agli Stati per farne parte» (ivi).

Entro questo quadro, come osservava Peter Mair qualche anno fa, «l’esistenza e il peso delle istituzioni europee, e della Commissione in particolare, sta chiaramente portando i cittadini ad abituarsi a una più generale accettazione del fatto di essere governati da organi che non sono né rappresentativi né pienamente responsabili elettoralmente» (Governare il vuoto. La fine della democrazia dei partiti, Rubbettino 2013, p. 122). L’Europa, anzi l’Unione europea, è diventata una maestra di anti-politica e di anti-democrazia: ci ha assuefatti alle decisioni dall’alto, giustificate con il linguaggio asettico della ragione tecnocratica, e alle politiche frutto di accordi tra soggetti che sfuggono al circuito della rappresentanza democratica: senza dibattito pubblico, senza partiti, senza cittadini, al più presi in considerazione come destinatari di pretenziose “strategie di comunicazione”, finalizzate alla creazione del consenso.

Perché, allora, dovremmo stupirci se l’Unione europea si sta rivelando il regno della corruzione, dei conflitti di interesse, dei mercanteggiamenti sotterranei tra parlamentari (ma probabilmente anche membri del Consiglio e della Commissione) e non meglio specificati soggetti della società civile globale, privi di qualsiasi legittimazione elettorale? Nel vuoto della sfera pubblica europea, nella totale assenza di dibattito democratico, a chi rispondono i deputati europei? Chi rappresentano? I partiti e, attraverso di loro, i cittadini che li hanno votati, o i corposi interessi dei 40.000 lobbisti che affollano i corridoi e le stanze dei palazzi di Bruxelles?

Le pagine dei quotidiani, le trasmissioni televisive, i social si dedicano oggi al gossip sulle vite spericolate di politici-faccendieri e dei loro portaborse, tra valigie piene di banconote e vacanze extra-lusso. Ci si straccia le vesti per la spregiudicatezza diffusa, la carenza di etica pubblica, la leggerezza con cui vengono attraversate le “porte girevoli” tra politica e mercato. Ma, anche quando si prova ad andare oltre la denuncia delle singole “mele marce” per indagare la natura sistemica e strutturale del fenomeno corruttivo, si rimane alla superficie. Si invoca trasparenza – il valore supremo –, come se l’unico problema fosse che qualcosa è sfuggito alla vista, al controllo, alla verifica degli organi competenti a monitorare i contatti tra esponenti delle istituzioni e i vari gruppi di pressione. E come se tutto potesse risolversi attraverso una nuova e più cogente regolamentazione dell’accesso delle lobbies ai luoghi in cui si decide la politica europea. Nessuno viene sfiorato dal dubbio che il problema stia proprio in un modello di governance in cui le lobbies sono subentrate ai partiti come canali di comunicazione tra società e istituzioni, e la logica corporativa e settoriale della rappresentanza degli interessi ha soppiantato quella universalistica della rappresentanza politica.

In un dossier dedicato a tracciare un bilancio della tangentopoli italiana, a dieci anni di distanza, Mario Tronti coglieva perfettamente i limiti di una risposta alla corruzione esclusivamente schiacciata sulla dimensione etica e giudiziaria: «Dietro la questione giustizia è rimasta, non vista, la questione politica: chi governa, a nome di chi, per che cosa» (Il rovescio di tangentopoli, il manifesto, 16 febbraio 2002, p. 3). Si trattava, allora, di rifondare i partiti perché tornassero a essere forze politiche con un radicamento sociale e una capacità di elaborazione progettuale. Nella consapevolezza che un assetto politico nuovo non può “nascere dai tribunali”, ma “dai parlamenti”, purché vogliano e siano in grado di recepire e tradurre in proposte concrete le istanze di cambiamento. Nulla di tutto ciò è avvenuto. I partiti della prima repubblica sono ingloriosamente crollati sotto il peso schiacciante delle inchieste giudiziarie e della pubblica riprovazione. Un crollo talmente repentino da far pensare che i loro corpaccioni fossero già intimamente consunti e svuotati da un cancro inesorabile. Quello che è venuto dopo – il partito leggero, “piglia-tutto”, personale – è stato ancora peggio. Anche perché la riforma del finanziamento pubblico dei partiti, realizzata a più tappe e culminata nella legge voluta da Letta nel 2013, ha semmai rafforzato, non indebolito, il peso delle elargizioni provenienti da imprese e gruppi di interesse, rendendo la politica ancora più permeabile agli interessi economici, con conseguente crescita delle potenzialità di corruzione e concussione.

In un’Europa fin dalle origini gravemente deficitaria sul piano delle regole e della cultura democratica, siamo ancora oltre. La fine della “democrazia dei partiti”, diagnosticata da Mair all’inizio degli anni 2000, ha aperto la strada alla “democrazia delle lobbies”. Ma le domande rimangono le stesse: “chi governa, a nome di chi, per che cosa”? Quale visione della società, idee, bisogni rappresenta? A chi è tenuto a rispondere? Tutte domande che richiederebbero un ripensamento profondo del senso democratico dell’esistenza dell’Unione. Ben al di là dell’invocazione di commissioni di inchiesta, codici di condotta, registri delle lobbies.

Gli autori

Valentina Pazé

Valentina Pazé insegna Filosofia politica presso l’Università di Torino. Si occupa, in una prospettiva teorica e storica, di comunitarismo, multiculturalismo, teorie dei diritti e della democrazia. Tra le sue pubblicazioni: "In nome del popolo. Il potere democratico" (Laterza, 2011), "Cittadini senza politica. Politica senza cittadini" (Edizioni Gruppo Abele, 2016) e "Libertà in vendita. Il corpo fra scelta e mercato" (Bollati Boringieri, 2023).

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