Il programma della destra e l’inganno del presidenzialismo

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La coalizione di destra-centro ha nel suo programma il presidenzialismo che viene definito come “elezione diretta del Presidente della Repubblica”.

Già sulla formula ci sarebbe molto da ridire. Così negli Stati Uniti, la patria del modello presidenziale, l’elezione del Presidente avviene ad opera dei grandi elettori di ogni Stato-membro con la conseguenza che può vincere anche un candidato che ha avuto meno voti popolari a livello nazionale (da ultimo Trump nel 2016). A rigore si può parlare di presidenzialismo quando Presidente e Parlamento derivano separatamente dal voto popolare: il primo è il governo del paese e non può essere sfiduciato, il secondo è il potere legislativo e non può essere sciolto, infine sono previsti poteri di reciproco controllo che dovrebbero impedire il predominio di uno dei due. Ma a ben guardare non è questo il modello preferito dalla destra, ma quello “semipresidenziale” caratterizzato dall’elezione popolare di un Presidente titolare di poteri importanti e dal rapporto di fiducia tra Governo (con Primo ministro) e Parlamento.

In Europa la forma di governo presidenziale esiste solo a Cipro, mentre quelle semipresidenziali sono numerose, anche se numericamente inferiori a quelle parlamentari, e vedono quasi sempre prevalere la componente parlamentare nella quale chi dirige il Governo è il Primo ministro che ha la maggioranza in Parlamento. La più importante eccezione è rappresentata dalla Francia della Quinta Repubblica, fondata da De Gaulle nel 1958, ma consolidata nel 1962 con l’elezione popolare del Presidente approvata con un referendum che aggirò il Parlamento in violazione della Costituzione. Ebbene, la preferenza della destra va proprio al modello francese, come risulta espressamente nel programma della Lega e nel disegno di legge costituzionale presentato l’11 giugno 2018 da Fratelli d’Italia e bocciato dalla Camera. Non è un caso: tra gli ordinamenti semipresidenziali quello francese è il più squilibrato, quando come si è verificato di regola (con la sola eccezione di tre periodi di 9 anni in tutto caratterizzati dalla “coabitazione” tra Presidente e maggioranza parlamentare di opposto colore politico), il Presidente può contare su una maggioranza parlamentare politicamente fedele. In questa ipotesi di gran lunga prevalente il sistema funziona come ultrapresidenziale in quanto il Presidente di fatto somma i poteri del Presidente degli Stati Uniti con quelli del Primo ministro inglese e il Parlamento è uno dei più deboli nel mondo democratico limitandosi a ratificare le politiche decise dall’esecutivo. La situazione è stata peggiorata dalle riforme del 2000-01 che, nell’intento di evitare la coabitazione, hanno ridotto da 7 a 5 anni la durata del mandato presidenziale e stabilito che le elezioni parlamentari si tengono due mesi dopo quelle presidenziali, con la conseguenza di un crollo della partecipazione elettorale che nelle ultime due elezioni ha oscillato tra poco più del 43% e del 46% degli elettori.

È significativo che i presidenzialisti nostrani si guardino bene dal tenere conto della evoluzione, o meglio involuzione, che ha caratterizzato i due principali modelli presidenziali. Negli Stati Uniti è entrato in crisi il sistema di garanzie stabilito dalla Costituzione, come dimostrano le recenti sentenze della Corte suprema a forte maggioranza ultraconservatrice, in particolare quella che ha annullato il diritto di aborto a livello federale stabilito nel 1973, e il sistema politico è diventato fortemente antagonistico con un partito repubblicano ultranazionalista e reazionario e un partito democratico all’interno del quale hanno spazio correnti radicali. La ragione sta nell’emergere di fratture economico-sociali, razziali, territoriali, religiose, culturali, alcune delle quali comuni a molte democrazie, che esacerbano le divisioni politico-istituzionali e rendono più deboli le garanzie costituzionali, rendendo possibile una deriva del sistema presidenziale verso forme presidenzialistiche squilibrate. Ne costituiscono una conferma il tentativo di colpo di stato verificatosi il 6 gennaio 2021 con l’assalto al Parlamento che doveva sancire l’insediamento alla presidenza di Biden di una folla aizzata dal Presidente uscente che non ha riconosciuto l’esito delle elezioni e la minaccia che una futura ricandidatura di Trump fa volteggiare sul futuro della democrazia.

Anche in Francia le fratture sociali e territoriali, che hanno avuto scarsa possibilità di essere rappresentate in un Parlamento che svolge un ruolo secondario, hanno contribuito a polarizzare il sistema politico e, sommandosi all’effetto politico prodotto dall’elezione di un Presidente di centro come Macron, hanno sbaragliato il bipolarismo che aveva caratterizzato la Quinta Repubblica fondato sulla alternativa tra due poli, Destra e Sinistra, all’interno dei quali vi erano due partiti egemoni (rispettivamente quello gollista dei Repubblicani e il partito socialista). Ne è derivato un esito delle ultime elezioni parlamentari caratterizzato dalla perdita della maggioranza parlamentare da parte della coalizione che sosteneva il Presidente e da un forte avanzata di quella di sinistra e del partito lepenista di estrema destra. L’Assemblea nazionale è frammentata se si considera che la coalizione macroniana è formata da tre partiti, quella di sinistra da quattro forze politiche e vi sono poi il partito lepenista e i Repubblicani. Sono state quindi rimesse in discussione le “verità rivelate” per cui un sistema elettorale maggioritario a doppio turno come quello francese produrrebbe necessariamente un sistema politico bipolare e una solida maggioranza parlamentare, come qualche commentatore non aggiornato continua stancamente a ripetere, il che non è più scontato in una fase di crisi dei partiti tradizionali e di radicalizzazione di ampi settori dell’elettorato.

Da ultimo al carro del presidenzialismo si è accodata la proposta del “Sindaco d’Italia”, sostenuta nel programma di Azione e Italia Viva ma anche da qualche esponente del PD, che prevede l’elezione popolare del Presidente del Consiglio e la regola “aut simul stabunt aut simul cadent”, per cui la sfiducia parlamentare contro il Governo e lo scioglimento premierale del Parlamento determinano in ogni caso la rielezione simultanea dei due organi. La formula impiegata è del tutto insulsa perché, adottando come modello il governo delle grandi città mette sullo stesso piano due ruoli tra loro incommensurabili come quelli del Sindaco e del Presidente del Consiglio. Quanto all’esperienza pratica l’elezione popolare del Primo ministro, proposta nel 1956 in Francia al tempo della crisi della Quarta Repubblica, all’interno degli Stati democratici è stata adottata nel 1992 solo in Israele dove è stata abbandonata nel 2001 dopo aver verificato la sua inidoneità a garantire la stabilità di governo. Ora, questo presunto modello, che ha il vizio di essere puramente teorico, non garantisce affatto il prodursi di una maggioranza parlamentare politicamente omogenea rispetto al Primo ministro eletto dal popolo. Perfino nei Comuni italiani più grandi può verificarsi il caso (da ultimo a Latina) della cosiddetta “anatra zoppa”, cioè di un Sindaco che ha di fronte una maggioranza consiliare di opposto colore politico. A meno che non si pensi di adottare un sistema elettorale come quello esistente in molte Regioni, compresa l’Umbria, che assegna un premio di maggioranza alla lista o coalizione collegata al candidato-Presidente vincente. Si tratterebbe di un sistema incostituzionale perché violerebbe la libertà del voto, che comprende anche quella di dare un voto diversificato alla persona candidata alla guida dell’esecutivo e alla lista o coalizione e inoltre comprimerebbe ancora di più il ruolo dell’organo parlamentare e aumenterebbe il disinteresse dei cittadini nei confronti della rappresentanza, come tutte le più recenti elezioni comunali e regionali certificano.

Da quanto accaduto oltreOceano e oltrAlpe deriva che il presidenzialismo non garantisce affatto la cosiddetta “governabilità” in quanto non produce con certezza un Governo che può contare su una maggioranza parlamentare. In questa ipotesi, che è diventata la più frequente negli Stati Uniti ed esiste ora in Francia, il Presidente – e ciò varrebbe anche per un Presidente del Consiglio elettivo – deve contrattare le sue politiche con il Parlamento e trovare una maggioranza al prezzo di inevitabili concessioni. Ma vi è di più: i modelli presidenzialisti possono avere un effetto destabilizzante e conflittuale sul rapporto tra gli organi costituzionali e su quello tra poteri pubblici e cittadini. Infatti possono funzionare in sistemi socio-politici non troppo antagonisti e non attraversati da fratture significative, ma diventano inadatti in contesti divisivi e radicalizzati. In questi possono essere anche pericolosi quando il potere di governo sia consegnato a un personaggio spregiudicato, espressione di una minoranza del corpo elettorale che abbia velleità egemoniche. Contesti di questo tipo possono essere meglio affrontati da forme di governo parlamentari che impongono il confronto e la definizione di un comune programma di governo tra i partiti più vicini, come avviene in Germania che è il sistema democratico più apprezzabile per stabilità e funzionalità.

Gli autori

Mauro Volpi

Mauro Volpi è docente di diritto costituzionale nell’Università di Perugia. Già preside della facoltà di Giurisprudenza e componente laico del Consiglio superiore della magistratura, è attualmente impegnato nell’ANPI e nel Coordinamento per la democrazia costituzionale.

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