Dopo l’idea dell’attuale Governo di modificare la denominazione del Ministero dell’istruzione in Ministero dell’istruzione e del merito, la questione della meritocrazia è tornata alla ribalta (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2022/11/11/limbroglio-della-meritocrazia/). La meritocrazia infatti – fin dall’introduzione del termine nel dibattito pubblico – rappresenta un concetto ambiguo e spesso strumentalizzato. Originariamente utilizzato in chiave polemica, il termine è stato presto catturato dai suoi apologeti per dividere la società in vincenti e perdenti e rendere così accettabili le disuguaglianze. Nella prospettiva fortemente meritocratica, il successo è sempre e comunque frutto del merito, mentre l’insuccesso è una colpa individuale. E poco importa la dote iniziale del vincente o la zavorra originaria del perdente (i cosiddetti punti di partenza). Un orizzonte piuttosto distante da quello emancipante disegnato dall’art. 3, comma 2, della nostra Costituzione (https://volerelaluna.it/commenti/2022/10/27/il-discorso-di-meloni-alla-camera-otto-idee-di-stato-da-rifiutare-in-blocco/). Ma, se è vero che dietro la meritocrazia si possono nascondere forme di prevaricazione, è altrettanto vero che ci sono ambiti nei quali la valutazione meritocratica è ‒ per forza di cose – indispensabile. Chi mai vorrebbe essere curato da un medico che non sia stato selezionato secondo criteri meritocratici? Senza poi dimenticare che proprio la valorizzazione del merito è spesso la molla che spinge i singoli a sviluppare integralmente quelle potenzialità che, in una prospettiva generale, concorrono «al progresso materiale o spirituale della società» (art. 4 Costituzione). Dunque meritocrazia e giustizia sociale non solo possono, bensì devono convivere.
Una proposta che si muove in questa direzione è quella avanzata dal filosofo politico americano Michael Walzer in Sfere di giustizia, incentrata sul concetto di uguaglianza complessa. A differenza di altre teorie della giustizia, Walzer non parte dai soggetti bensì dagli oggetti e dunque dai beni che comunemente vengono scambiati. Ogni bene sociale – questa è l’idea fondamentale – possiede un suo criterio distributivo intrinseco, che non può valere per altri beni. L’obiettivo è impedire che il successo in un determinato ambito (ad esempio, la politica) si traduca automaticamente nel successo in un altro e diverso ambito (ad esempio, quello economico). Se sono un politico influente è solamente perché ho saputo raccogliere molto consenso e non perché ho accumulato una grande ricchezza economica. Viceversa se ho accumulato grandi ricchezze è perché ho esercitato con profitto le mie libertà economiche e non perché sono stato un politico influente. Insomma, bisogna individuare gli ambiti riservati a ciascun bene per poi mantenerli separati, impedendo così concentrazioni di potere non solo pericolose, ma anche contrarie al principio meritocratico. C’è forse del merito dietro la ricchezza accumulata abusando di una carica politica? E c’è qualche merito particolare dietro un consenso politico ottenuto abusando della propria forza economica?
Proprio nella prospettiva dell’uguaglianza complessa si muove la nostra Costituzione quando separa i diversi ambiti sociali, imponendo – in ciascuno di essi ‒ uno specifico e autonomo criterio distributivo (A. Giorgis, La costituzionalizzazione dei diritti all’uguaglianza sostanziale, Jovene, Napoli 1999, 20 ss.). Si possono fare i seguenti esempi.
Pensiamo, innanzitutto, all’ambito del lavoro e ai diritti dei lavoratori. In quest’ambito è la Costituzione stessa a indicarci secondo quali criteri i beni, di volta in volta rilevanti, dovranno essere distribuiti: una retribuzione dignitosa, il riposo settimanale e le ferie retribuite – ad esempio – solo e soltanto secondo il criterio del bisogno (come prescritto dall’art. 36, commi 1 e 3); le eventuali promozioni o altri benefici accessori, solo e soltanto secondo il criterio del merito (ogni altro criterio che valorizzasse qualche particolare qualità personale sarebbe infatti contrario ai divieti di discriminazione scolpiti nell’art. 3, comma 1).
Pensiamo alla tutela della salute e al connesso diritto alle cure. In questo ambito, l’unico criterio distributivo consentito dalla nostra Costituzione è il criterio del bisogno. Chi ha bisogno di cure deve essere curato, indipendentemente dalle sue condizioni economiche (come prescritto esplicitamente dall’art. 32, comma 1, che garantisce «cure gratuite agli indigenti») e da altre qualità personali slegate dalla necessità di ricevere la cura. Anche il “detenuto” (non importa se in carcere oppure su una nave al largo delle nostre coste) e l’immigrato (non importa se regolare o irregolare) hanno il diritto di ricevere le cure necessaire. Insomma, dinnanzi alle cure non ci sono meriti particolari che possono essere spesi, bensì solamente bisogni che, come tali, devono essere soddisfatti.
Pensiamo ancora all’istruzione e al connesso diritto allo studio. Tutti devono poter accedere all’istruzione obbligatoria, indipendentemente dalla loro condizione economica e da altre qualità personali. L’unico criterio distributivo del bene istruzione è, ancora una volta, il criterio del bisogno. Ogni altro criterio sarebbe inesorabilmente discriminatorio. Nessuno spazio dunque per classi diversificate in ragione della provenienza o peggio ancora dell’appartenenza etnica, religiosa o culturale degli studenti. Il criterio del merito interviene a valle dell’accesso all’istruzione obbligatoria, per valutare il percorso formativo degli studenti, oppure per garantire anche agli indigenti la possibilità di raggiungere i livelli più elevati di studio (come recita esplicitamente l’art. 34, comma 3). In questa prospettiva, il Ministero che avrebbe meglio tollerato una ridenominazione in senso meritocratico era forse quello dell’Università e della ricerca, non certo quello dell’istruzione.
Pensiamo infine alle cariche politiche elettive e al connesso diritto fondamentale di voto. In questo ambito la Costituzione – riconoscendo in termini universalistici il diritto di voto e qualificandolo esplicitamente come libero (art. 48, commi 1 e 2) – ammette, come unico criterio distributivo delle cariche, il criterio del consenso. È pur vero che la Costituzione stessa e la legge, disciplinando l’elettorato attivo e quello passivo, limitano talvolta il diritto di voto e la possibilità di accedere alla carica elettiva. Ma queste particolari limitazioni non hanno nulla a che fare con meriti personali come – ad esempio – la conoscenza di determinate materie oppure il possesso di specifiche competenze. Invocare il merito come panacea di tutti i mali da estendere anche ai politici rappresenta dunque una scorciatoia, che travisa il criterio distributivo indicato della Costituzione e lascia trasparire una concezione elitaria dei diritti politici. Il problema, molto più profondo, riguarda semmai come difendere taluni aspetti essenziali della democrazia rappresentativa: il ruolo (anche nella selezione delle candidature meritevoli) dei partiti politici e la libertà (anche dal bisogno) del diritto di voto. Non certo come limitare, tramite insidiosissime barriere meritocratiche, l’accesso alle cariche elettive. Analogo travisamento produce la scelta di riconoscere il diritto di voto ai cittadini residenti all’estero ma non agli stranieri residenti in Italia. Se il criterio distributivo è il consenso, nessun rilievo dovrebbe assumere il sangue che corre nelle vene delle persone. Una democrazia è tale se tutti possono votare e tutti possono essere votati. Discorso del tutto diverso vale invece per le cariche pubbliche. In questo ambito la Costituzione – sancendo il principio secondo cui agli impieghi pubblici si accede per concorso (art. 97, comma 3) – ritiene applicabile solamente il criterio del merito. È solamente questo l’ambito nel quale la battaglia per il merito andrebbe condotta senza esitazioni.
Venendo infine ai doveri, si può richiamare l’ambito tributario e il connesso dovere inderogabile di contribuzione fiscale. In questo ambito i criteri distributivi del carico fiscale indicati dalla Costituzione sono chiarissimi: la capacità contributiva e la progressività dell’imposizione (come sancito dall’art. 53 Cost.). Nessun rilievo particolare dovrebbe invece assumere il merito. Ecco perché la proposta della cosiddetta flat tax incrementale – volta a premiare, come affermato dalla Presidente del Consiglio Meloni, chi si è rimboccato le maniche in anni difficili – è una proposta contraria all’idea di uguaglianza complessa accolta dalla nostra Costituzione. Anche i criteri distributivi del carico fiscale non ammettono scorciatoie e impongono di chiedere di più (non di meno) a chi ha di più. Ma sul punto – oggi – il consenso sembra davvero ai minimi storici.
Il nodo è dunque sempre lo stesso: dominio oppure emancipazione (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2022/10/31/essere-donna-o-essere-parte-di-una-storia-di-emancipazione/). Al riguardo, la scelta emancipante della nostra Costituzione è stata tanto netta quanto impegnativa. Diamo dunque al merito lo spazio che… si merita, ma non un centimetro in più. Ci sono ambiti nei quali il merito non deve entrare; ambiti nei quali il merito concorre con altri criteri e ambiti dai quali il merito non deve uscire. Se oggi vogliamo proprio difendere dei confini, cominciamo da quelli che separano i diversi ambiti e i criteri distributivi dei beni sociali indispensabili per condurre una vita «libera e dignitosa». Senza farci ammaliare da facili e spesso truffaldine scorciatoie.
Una versione più ampia dell’articolo è comparsa il 9 novembre 2002 in lacostituzione.info con il titolo “Merita il merito?”.