«Gli apparati di guerra sono un mostro di autoritarismo, e strumento di imperialismo esterno e di repressione interna; e le guerre, fatte in nome della libertà, approdano alla sponda opposta del progressivo aumento dell’accentramento statale e del totalitarismo nel mondo. Le guerre servono i ricchi ed i potenti»
Pietro Pinna, Lettera inviata al Comandante del Distretto militare di Ferrara, 1971
La guerra continua, le notizie sulle bombe nucleari, tattiche o sporche che siano, si rincorrono, la minaccia di un olocausto nucleare cresce. Negli ultimi giorni, la cronaca ci informa dell’arrivo di nuove bombe nucleari in Europa (un ammodernamento) e del fatto che gli Stati Uniti non escludono il ricorso anche “per primi” ad armi nucleari (dal canto suo, la Federazione russa ne prevede l’impiego in caso di “minaccia” all’integrità territoriale): nella vacuità del “per primi” a fronte di ordigni suicidi e delle infinite menzogne delle quali si nutrono le campagne belliche, avanza la normalizzazione della «morte universale» (Manifesto Russel-Einstein, 9 luglio 1955).
La guerra, la guerra “vicino a casa” (la guerra globale, combattuta su differenti scenari e sotto svariati nomi, è tragica realtà da molti anni), entra sempre più nell’orizzonte del quotidiano, con una progressiva narcotizzazione delle coscienze che ondeggia fra acquiescenza, arruolamento, indifferenza. Accettiamo. Accettiamo che gli ucraini continuino a morire sotto le bombe, che le città siano devastate, che da ambedue le parti i soldati muoiano, che gli effetti economici del conflitto rendano viepiù insostenibili condizioni economiche e sociali già profondamente diseguali, che siano rimandate misure improcrastinabili per fermare un riscaldamento climatico i cui effetti viviamo tutti i giorni, che non vi sia altro scenario che una competitività globale aggressiva e violenta, che l’estinzione umana sia parte di un futuro prossimo.
E invece no, non accettiamo! Non accettiamo e guardiamo dietro e oltre, per comprendere e cambiare.
Guardiamo dietro. Non cadiamo nella visione semplicistica della favoletta della guerra per la democrazia o per i valori occidentali (con il suo bagaglio di colonialismo culturale) o dell’interesse per la sorte del popolo ucraino: è una guerra fra imperialismi, che coniuga volontà di potenza e predazione economica in uno scontro per il dominio. La maschera dell’intervento umanitario si è svelata con la sua prima concretizzazione, in Kosovo nel 1999: in Kosovo, non altrove. Del resto, per limitarsi a un esempio, come può essere paladino dei diritti, chi stringe accordi con i peggiori autocratici per esternalizzare le frontiere ovvero delocalizzare la tortura e condurre un vero e proprio genocidio dei migranti? La democrazia è compagna della pace, non della guerra. è la pace l’orizzonte nel quale si può esprimere il conflitto sociale, non la logica identitaria amico-nemico; è la pace il terreno nel quale i diritti vengono garantiti e si possono costruire emancipazione, giustizia sociale e ambientale. La guerra mistifica e distrae dal conflitto sociale e dal contrasto alla devastazione ambientale, compatta artificialmente occultando la radice delle diseguaglianze, veicola sopraffazione e violenza, esprime una logica di dominio. “Pace e giustizia” sono scritte insieme nell’art. 11 della Costituzione. La pace è giusta, non la guerra (https://volerelaluna.it/commenti/2022/10/17/linganno-della-pace-giusta/). La guerra, ancora, ci abitua alla militarizzazione: alla violenza, al controllo, a una propaganda omologante. Si affacciano alla mente le distopie dove pochi privilegiati si chiudono in cittadelle fortificate mentre intorno, in un mondo devastato da disastri climatici, un controllo feroce presidia la disuguaglianza. «Totalitarismo e dittatura all’interno significano inesorabilmente nazionalismo e guerra all’esterno» (Calamandrei), e viceversa, si può aggiungere; tanto più oggi, con un governo che all’aggressiva competitività del neoliberismo, al bellicismo atlantista, aggiunge un escludente nazionalismo identitario sotto l’egida della triade “Dio, patria, famiglia”, proiettando sul futuro le ombre del passato.
Guardiamo oltre. Le coscienze sono ormai così anestetizzate, così assoldate nel pensiero unico? È difficile mettere in discussione l’unica soluzione pervasivamente propugnata come possibile: “più guerra”, ripetuta, spesso anche “in buona fede”, come un mantra. Ma occorre continuare a farlo: per chi è vittima della guerra, in primo luogo, ma anche per la democrazia, del presente e del futuro, se non per la stessa possibilità di futuro. Manteniamo la capacità di immaginare e di lottare. Diciamo no alla guerra e chiediamo la pace: il cessate il fuoco e una conferenza internazionale per la pace. E poi il disarmo… E, aggiungo, anche l’“intoccabile”: il rifiuto di un’alleanza (la NATO), che dal 1999 prevede «operazioni d’intervento in caso di crisi non previste dall’art. 5» (difesa) e in «tutte le possibili evenienze», con una metamorfosi che si estrinseca nella guerra al terrorismo (Afghanistan 2001) e nella guerra preventiva (Iraq 2003), non rispettando i parametri della guerra di legittima difesa (l’unica ammessa dalla nostra Costituzione). È questa la via per una comunità internazionale fondata su pace e giustizia (art. 11 Costituzione), per la costruzione di democrazie. Utopia? Senza speranza la storia si immobilizza nella riproduzione di un eterno presente ed è proprio la storia, con la sua dialettica, che invece ci mostra come il cambiamento sia possibile, possa farsi realtà. I «discordi» oggi sono disposti «in un pulviscolo individuale e disorganico» e una sola forza, controllando gli «organi dell’opinione pubblica: giornali, partiti, parlamento», modella «l’opinione e quindi la volontà politica nazionale» (Gramsci). È vero, ma il pulviscolo può unirsi, può farsi forza organizzata per dire no alla guerra, con gli stessi toni energici con cui nella Costituzione si è scelto di ripudiare la guerra: ripudiarla, non condannarla o rinunciare ad essa, perché ripudio è un termine più energico, ha più forza.
Esigiamo la pace: come nel fine-settimana del 21-23 ottobre con le tante piazze sparse per tutto il Paese (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2022/10/21/di-nuovo-in-piazza-il-popolo-della-pace/), è ora – il 5 novembre 2022 a Roma – di far sentire, forte, la voce del movimento pacifista. D’accordo, non sarà come nel 2003, quando centodieci milioni di persone in tutto il mondo, tre a Roma, hanno reso il movimento pacifista “seconda potenza mondiale”, ma è ora di costruire una pressione dal basso. La pace non è una resa. La resa è pensare che non vi sia alternativa all’escalation, al combattimento … sino all’ultimo ucraino; resa è non usare la ragione per comprendere chi si giova di questa guerra. Esistono altre vie per costruire una pace che non sia quella dei cimiteri, edificata sugli orrori della guerra, per fermare la corsa folle all’utilizzo di armi nucleari. Chiedere con una grande manifestazione dal basso il cessate il fuoco e una conferenza internazionale di pace è il primo passo. Un passo per la pace, un passo di democrazia, un passo per invertire la rotta e per andare verso un altro futuro.