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28/10/2022 di: Monica Quirico
Ho avuto la (s)ventura di seguire due campagne elettorali ravvicinate, quella svedese e quella italiana; entrambe reazionarie e con un risultato che, proprio perché comune, è ancora più preoccupante: l’affermazione dell’estrema destra. È vero, i Democratici di Svezia non sono entrati nel governo ‒ e il loro leader, Jimmie Åkesson, continua a essere escluso dalla cerimonia dei premi Nobel, unico, tra i capi di partito, a non essere invitato: le sue radici (neonaziste) ma anche la sua condotta attuale sono ritenute impresentabili. Tuttavia, in cambio della scaltra rinuncia a rivendicare posti ministeriali l’estrema destra svedese ha ottenuto incarichi importanti in parlamento e in comitati nazionali e transnazionali; quel che è peggio, ha imposto la sua agenda, prima in campagna elettorale e ora nel programma del nuovo governo: lotta senza quartiere all’immigrazione e alla criminalità, vista, la prima, come incubatrice della seconda.
Un cambio di paradigma, nella politica svedese, non improvviso ma comunque doloroso, che potrebbe sollevare qualche interrogativo anche sull’effettivo impatto del politically correct e del linguaggio inclusivo. In un paese dove non si può pronunciare “la parola con la p”, né quella con la “t” ed è stato coniato un nuovo pronome per superare il binarismo “lui-lei”, il vincitore de facto delle elezioni è un partito che riconduce i problemi delle donne (svedesi) al rischio di essere stuprate o uccise dagli immigrati. E dire che gli “uomini che odiano le donne” del compianto Stig Larsson (l’autore della trilogia Millennium) sono svedesissimi. Ciò nonostante, neanche l’inqualificabile Åkesson si sognerebbe mai di adottare parole o gesti degradanti per le donne, e, pur con qualche ambiguità, non mette in discussione le politiche sociali (asili, congedo parentale ecc.), che fanno della Svezia uno dei paesi UE con il più alto tasso di occupazione femminile (quasi l’80%, contro poco più del 50% italiano). Dunque quella che a Concita De Gregorio (la Repubblica del 26 ottobre) appare come «l’oppressione cupa del politicamente corretto» riflette, sic et simpliciter, i rapporti di forza (e il grado di maturità civile) esistenti in una nazione: quando le donne conquistano potere, è inevitabile che anche il linguaggio, e i modi, le abitudini, le rappresentazioni culturali, cambino, accelerando a loro volta, in un circolo virtuoso, la trasformazione. Che molti uomini, anche di sinistra, arroccati sul finto universalismo del genere maschile, rifiutino di riconoscere l’osmosi tra linguaggio e potere rientra in una prevedibile (ma non scusabile) difesa dei loro privilegi. Che di tale nesso non siano consapevoli donne che si presumono illuminate e di sinistra dà la misura di quanto la lotta sia ancora lunga.
Eppure a spazzare via definitivamente qualsivoglia dubbio sul rapporto tra linguaggio e potere ci ha pensato Giorgia Meloni: che immediatamente ha cambiato il nome di diversi ministeri (introducendo quella categoria di “natalità” cara a Mussolini ma, mi fa notare un’amica russa sgomenta, anche a Stalin) e ha annunciato poco dopo di voler essere chiamata “il” presidente del consiglio. Aggiustamenti lessicali che prefigurano un’ulteriore riconfigurazione al ribasso (per le classi popolari e in particolare, come sempre, per donne e migranti) dei rapporti di forza.
Il problema non è lei, scrive De Gregorio (anzi, è così brava!), ma i mostri di cui si circonda e da cui è usata per ingentilire – lei donna, madre, italiana e cristiana ‒ l’immagine di una destra che è al contrario alquanto becera e aggressiva. Capisco che vedere la minuta Meloni quasi risucchiata, in occasione di comizi o altri eventi pubblici, dal traboccante testosterone dei suoi due compari, Berlusconi e Salvini, potesse strappare a molte un moto di empatia: perché tutte immaginavamo gli sguardi, le allusioni, le battutacce, la condiscendenza di cui la sua carriera politica deve essere stata costellata – e che tutte le donne attive in contesti tradizionalmente maschili (anche di sinistra) ben conoscono. Ma, ancora una volta, Meloni stessa ha sgombrato il campo dagli equivoci: quando, nel giorno in teoria consacrato al silenzio elettorale, ha postato un video in cui, ammiccando, esibiva due meloni. Un gesto che non è semplicemente l’ennesima riprova di quanto la volgarità paghi, nella politica italiana (Berlusconi docet); piuttosto, segnala come “Giorgia” abbia totalmente introiettato il machismo dei due mostri (e dei suoi compagni di partito), adattando una comunicazione incentrata sul riferimento ossessivo agli attributi maschili e all’anatomia femminile. Mostro tra i mostri, dunque; non vaso di cristallo, ma più realista del re.
Che Enrico Letta, leader al tramonto di un partito finito da tempo, si rallegri perché finalmente l’Italia ha un primo ministro donna rientra nella mediocrità del personaggio. Che donne, anche “progressiste”, la considerino una conquista lascia sbigottite. “Giorgia” non è una di noi per il semplice motivo che l’idea di una sorellanza trascendente gli steccati ideologici, culturali e soprattutto socioeconomici riflette un’aberrante concezione dell’intersezionalità (l’intreccio fra sfruttamento economico e altre forme di oppressione, a partire da quelle di genere e di etnia): le identità infatti non sono qui intese come risultanti di una costruzione sociale che è funzionale alla perpetuazione del capitalismo, bensì come brand totalizzanti da sventolare, in una competizione del tutto avulsa dalla complessità delle esistenze individuali e dei processi collettivi. Io donna, punto. Tu migrante. E così via. Dovremmo forse rallegrarci perché per la prima volta nella sua storia il Regno Unito ha un premier di origine indiana, sorvolando sul fatto che è un conservatore miliardario?
Lungi dall’essere una vittoria delle donne, la nomina di Meloni a primo ministro (giusto per rispettare le sue preferenze linguistiche) dovrebbe spingerci a mettere in dubbio la penetrabilità e plasmabilità delle istituzioni da parte di istanze che rifiutino la logica patriarcale e coloniale. E invece, anziché chiedere a Meloni come pensa di affrontare il problema della disoccupazione femminile e di servizi sociosanitari sempre più scadenti, che riconfinano le donne in ruoli di cura non certo scelti per sottrarre spazi alla logica del mercato, ma semplicemente imposti dalle diseguaglianze sociali, si gongola perché “una di noi” ce l’ha fatta e ha gli attributi. Io non ci sto: Giorgia non mi rappresenta, perché l’unica cosa che abbiamo in comune è la biologia, a cui però io, a differenza di lei, rifiuto di essere inchiodata. Io non sono Giorgia perché non ho mai voluto essere madre e non per questo mi sento incompleta; per l’anagrafe sono italiana ma mi sento cittadina del mondo; e non sono cristiana. Sono, piuttosto, antifascista. E questo nessuno me lo potrà togliere.