Cent’anni dopo la marcia su Roma, pensare in retromarcia

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Nel celebre film di Dino Risi (1962) la marcia su Roma del 1922 è descritta come una specie di guasconata, un po’ sgangherata un po’ velleitaria, con Gassman e Tognazzi a impersonare due tipi umani opposti ma uniti dalla camicia nera: un mezzo sbandato e avventuriero arrivato alla marcia quasi per caso (Gassman) e un ingenuo e sprovveduto giovanotto (Tognazzi) succube della famiglia e di un’immutabile cultura di sottomissione. Il film è una satira che mette in luce tic e vizi degli italiani, e anche la farsesca condotta di molti protagonisti di quell’evento, a cominciare dai pavidi e complici “uomini di Stato”, ma non per questo è un film superficiale. Ci ricorda, anzi, quanto gli eventi storici siano spesso frutto di molteplici circostanze: la marcia su Roma dei fascisti non fu né travolgente né inarrestabile ‒ tutt’altro ‒ ma servì a portare a compimento una concretissima marcia sul potere condotta negli anni precedenti a forza di aggressioni, vandalismi, soprusi, intimidazioni e decine e decine di omicidi politici, in un’ondata di violenza squadrista compiuta ‒ con la complicità di esercito e polizie ‒ in nome della patria e dell’ordine, dell’odio per le sinistre e del desiderio di imprimere una svolta autoritaria all’incerto percorso dell’Italia liberale.

Passati cent’anni, oltre che studiare, ricordare e tenere a mente qual è la vera storia d’Italia, segnata profondamente dallo sfacelo del regime mussoliniano, è utile guardare dentro di noi, fare un po’ di autocritica e provare magari a capire se quei tipi umani stilizzati da Risi ‒ italiani arruffoni, opportunisti e piuttosto servili ‒ siano ancora attuali. Può essere un esercizio doloroso, perché ci troviamo a compierlo in condizioni molto difficili: nel pieno di una guerra europea della quale non si vede una fine e che potrebbe diventare (forse lo è già) una nuova guerra mondiale; e con le istituzioni elettive nazionali conquistate da forze politiche di destra capeggiate dagli eredi del fascismo, sia pure ripuliti e modernizzati ‒ ma nemmeno poi tanto ‒ dalla svolta di Fiuggi e dall’avvento di nuove generazioni di militanti.

Siccome camminare, cioè mettersi in marcia, è un bel modo di concedersi il tempo per meditare e riflettere, sarò fra quelli che cent’anni dopo le camicie nere si muoveranno in… retromarcia, non verso Roma, ma dalla capitale in direzione di Assisi: è il gruppo messo insieme da Andrea Satta e Paolo Piacentini con felice intuizione. È una retromarcia dai molti possibili significati: un rammarico storico, per non avere impedito ‒ chi allora poteva farlo ‒ l’ascesa dei fascisti, e non solo nelle giornate attorno al 28 ottobre; un rifiuto morale e politico del fascismo e di tutto ciò che rappresenta come visione della vita e del mondo, puntando non casualmente verso la città simbolo della pace e della convivenza; un’occasione per riprendere le ragioni dell’antifascismo nel pieno della sua crisi culturale e politica, al culmine del successo elettorale (e non solo) delle destre italiane, che sono riuscite a far digerire le proprie funeste radici e a far accettare le proprie radicali prospettive, dichiarate nei progetti annunciati (uno per tutti, il presidenzialismo, frutto di una visione gerarchica e proprietaria delle istituzioni democratiche) e nelle amicizie internazionali (le destre tradizionaliste, autoritarie e illiberali di tutta Europa), e come tali approvate da milioni di elettori, nonché sottovalutate (o forse accettate?) anche dai rivali politici e dal sistema mediatico che bene o male influenza l’opinione pubblica.

Il tutto avviene nei giorni in cui la destra si allinea con disinvoltura alla retorica ufficiale su una ricorrenza cardine della memoria civile antifascista, quella del 16 ottobre, giorno dei rastrellamenti nel 1943 degli ebrei romani, preludio al loro invio nei campi di sterminio. Qualcuno ha subito parlato di “svolta” e plaudito al passo aventi compiuto dalle destre eredi del neofascismo, intravedendo d’ora in poi la possibilità di costruire una “memoria condivisa” sulle tragedie del ‘900. Altri sono più prudenti, fanno notare che non è così difficile e impegnativo ripudiare un gesto tanto ignobile, e ricordano che già Gianfranco Fini parlò ormai molti anni fa del fascismo come “male assoluto”, un’espressione molto netta, ma che non chiuse affatto un capitolo di storia nella destra italiana, come le ultime elezioni hanno dimostrato.

Qual è allora il punto? Il punto ‒ o almeno uno dei punti ‒ è che dobbiamo intenderci e sgombrare il campo dagli equivoci quando parliamo di fascismo e di antifascismo. Il fascismo è solo un duce che guida un paese con retorica patriottica e spirito guerriero, annientando le opposizioni e circondandosi di fedeli e sottomessi gerarchi? E l’antifascismo è solo dichiarare e ricordare il proprio ripudio del fascismo e delle sue sciagurate azioni? Nel discorso corrente, sembra che sia così. Gli storici tendono a guardare con sufficienza i militanti antifascisti, sostenendo che il fascismo storico è irripetibile e consegnato alla storia; le forze politiche eredi dell’antifascismo, dal canto loro, hanno da tempo smesso di considerare centrale e seminale l’insegnamento della dissidenza politica durante il regime e quello della resistenza, limitandosi ormai a stanche evocazioni e rituali partecipazioni a ricorrenze; quanto alle destre, hanno buon gioco a mostrarsi moderne e al passo coi tempi con semplici dichiarazioni come quelle sul 16 ottobre.

Alla fine, fascismo e antifascismo, intesi in questo modo, diventano formule retoriche, affermazioni non impegnative, posizionamenti di circostanza. Si rischia così di perdere il senso profondo del segno che hanno lasciato nella storia e anche la rilevanza delle rispettive eredità giunte fino a noi. È forse vero che il fascismo è un fenomeno storico che appartiene al nostro passato, ma che dire del nazionalismo, delle pulsioni illiberali e identitarie, del rifiuto delle diversità religiose, linguistiche, culturali, della pretesa di controllare il corpo delle donne, della visione competitiva e gerarchica delle relazioni sociali? Non sembrano affatto reliquie di un passato da consegnare agli archivi, bensì l’ecosistema presente degli eredi diretti della tradizione fascista e neofascista, un ecosistema che rischia di diventare dominante. E venendo al campo antifascista, all’opposto, che resta dello spirito rivoluzionario, della capacità di ribellione alle oppressioni del presente, della tensione verso una società dell’uguaglianza e della giustizia sociale? che resta della forza di immaginare un mondo nuovo, dello sforzo morale, civile, politico e istituzionale per prevenire le guerre, identificate come uno strumento da ripudiare?

Fra le tante definizioni che potremmo dare dell’antifascismo, da persone del XXI secolo quali siamo, ne scelgo una: l’antifascismo è una ricerca; una ricerca che si avvale di un patrimonio di idee, di storie e di esperienze che non smette di ispirare il pensiero e l’azione. Viviamo un’epoca di emergenze radicali ‒ ecologica, bellica, umanitaria, ma potremmo dire in sintesi un’emergenza di specie ‒ e abbiamo bisogno di prospettive di cambiamento altrettanto radicali. Non c’è spazio, in questa fase storica, per posizionamenti mediani e attendisti: occorre trasformare il quadro d’insieme, farsi dal basso classe dirigente e mettere in discussione un intero modello di sviluppo (l’ideologia e la prassi neoliberiste), con tutto ciò che ne consegue in termini di mutamenti nelle produzioni e nei consumi (che devono ridursi, almeno nel Nord del mondo), quindi nel lavoro e nell’organizzazione sociale, infine nella stessa posizione della specie umana rispetto al resto dei viventi, dismettendo una millenaria tradizione di dominio che si è rivelata distruttiva e autodistruttiva. È molto, ma non è troppo: è semplicemente necessario. Ed è ciò che pensano, dicono, sperimentano filosofi e attivisti nostri contemporanei, per esempio chi già vive la dimensione della giustizia climatica, chi professa la “intersezionalità” delle lotte (femminismo, ecologia sociale, antispecismo…), chi fa politica con un orizzonte generazionale e non pensando al tornaconto da raccogliere alla scadenza elettorale più vicina.

L’antifascismo e la resistenza sono un precedente e uno strumento di ricerca. A partire da cento anni fa, ci fu chi non si adeguò, ci furono italiani che non somigliavano ai Gassman e ai Tognazzi del film di Dino Risi e anzi contrastarono come poterono, con tenacia e intelligenza, la dittatura e le sirene dell’adattamento passivo, male atavico del popolo italiano. Poi venne la resistenza, con la lotta armata dei partigiani e quella civile e disarmata di migliaia e migliaia di cittadini, capaci nella lotta di prefigurare un “dopo”, di sognare una nuova società da ricostruire e ripensare sulle macerie causate dal ventennio di soggezione al duce. Infine sbocciarono, a guerra finita, ma non per caso, la nostra avanzatissima Costituzione e un pur fragile castello di istituzioni internazionali, a cominciare dall’Onu, passando per quella che si è poi chiamata Unione europea, un castello concepito per contrastare lo spirito nazionalista e bellicista che trasformò l’Europa, nel ‘900, in un grande campo di battaglia e in uno sterminato cimitero di vittime innocenti.

Oggi quello spirito sinistro torna ad aleggiare sul continente, teatro di una guerra sciagurata che rischia di diventare mondiale e che nessuno pare voler fermare; le classi dirigenti europee (e non solo) somigliano a quei sonnambuli che si aggirano di luogo in luogo senza vedere né percepire ciò che davvero li circonda, le minacce più gravi che incombono. Abbiamo bisogno di mobilitazioni forti, di una scossa che salga dal basso e cambi il corso degli eventi, prima che sia troppo tardi, prima che la guerra e le emergenze ambientali, umanitarie e sanitarie ci travolgano. Abbiamo bisogno, come al tempo della resistenza, di pensieri nuovi, di ispirazioni utopiche; abbiamo urgenza di immaginare, e cominciare a costruire, nelle lotte e nei comportamenti quotidiani, una società del tutto alternativa al modello ideologico, politico e sociale oggi dominante; una società capace di futuro.

Camminare è un modo per riflettere, per meditare, per costruire con calma, al ritmo lento del viandante, nell’esercizio del pensiero e nel dialogo coi luoghi e con le persone, le proprie persuasioni. È una maniera di mettere in atto la propria ricerca, allontanandosi con la mente, attraverso il corpo, dal povero non-dibattito politico in corso, ridotto a una messa in scena che non affronta mai ‒ mai ‒ gli snodi cruciali del nostro tempo. Sarà una retromarcia coi piedi piantati nel futuro.

Retromarcia su Roma (iniziativa Tetes de bois) – Cammino Roma-Assisi: 22-30 ottobre (coordinato da Paolo Piacentini). Lunedì 24 ottobre ore 18.30 a Gallese (Viterbo) – Museo Sacchi, presentazione del libro di Lorenzo Guadagnucci Camminare l’antifascismo. La memoria come ribellione all’ordine delle cose (Edizioni Gruppo Abele).

Gli autori

Lorenzo Guadagnucci

Lorenzo Guadagnucci, giornalista e blogger, lavora al “Quotidiano nazionale” (Resto del Carlino - La Nazione - Il Giorno). Durante il G8 di Genova del luglio 2001 fu tra i giovani percossi e arrestati nella suola Diaz. Fondatore e animatore del Comitato verità e giustizia per Genova ha scritto, con Vittorio Agnoletto, “L’eclisse della democrazia. Le verità nascoste sul G8 di Genova” (2011).

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One Comment on “Cent’anni dopo la marcia su Roma, pensare in retromarcia”

  1. Grazie Lorenzo per questa profonda e lucida riflessione , specialmente sul significato dell’antifascismo attuale.

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