Nei film western, “quando un uomo con la pistola incontra un uomo con il fucile, quello con la pistola è un uomo morto”. Metafora minacciosa, ma è più o meno ciò che è accaduto al dibattito pubblico sulle elezioni del Consiglio Superiore della Magistratura, le prime generali dopo la “vicenda Palamara” e le conseguenti riforme dell’ordinamento giudiziario: quando le elezioni del Csm sono prossime alle elezioni politiche – quelle dei magistrati si sono svolte il 18 e il 19 settembre, appena una settimana prima di quelle per il rinnovo di Camera e Senato – l’attenzione sulle prime è destinata a evaporare.
A dire il vero, la coincidenza temporale che si è creata quest’anno è rara, quasi unica, dunque anche utile per qualche spunto di riflessione.
Si può partire da un curioso dato di ingegneria istituzionale. La riforma Cartabia, nell’intento di ridurre il peso delle correnti nel Consiglio, ha aumentato il numero dei consiglieri da eleggere: dalle recenti elezioni in avanti saranno venti magistrati e dieci laici, in luogo dei precedenti sedici e otto. Su di un piano diametralmente opposto si è collocata la scelta per Camera e Senato, dove la lotta alle oligarchie politiche è passata attraverso la discutibile riforma costituzionale sulla diminuzione del numero dei parlamentari. Certo, non si tratta di organi elettivi e di corpi elettorali comparabili (nonostante la ripetuta immagine giornalistica del Csm come “parlamentino” dei giudici); tuttavia, questo aggiungere su un versante e togliere dall’altro offre la misura di quanto, a volte anche in maniera schizofrenica, la politica continui a cedere alla vana illusione di risolvere “la questione democratica” con formule elettorali o alchimie istituzionali.
Una cosa, comunque, è certa: il Csm è parte essenziale della “questione democratica”, gravando su di esso il decisivo compito (spesso tradito, ma non per questo meno doveroso) di promuovere l’indipendenza esterna e interna della magistratura. La centralità del tema è ribadita dalla recente risoluzione con la quale il Parlamento europeo (324/2022) ha dichiarato che l’Ungheria non possa più essere «considerata pienamente una democrazia». Tra i motivi di questa decisione spicca il tentativo del governo ungherese di mettere le mani sulla magistratura attraverso la sottrazione di prerogative al Consiglio Nazionale della Magistratura (il Csm ungherese) in favore di un organo di derivazione politica come l’Ufficio Giudiziario Nazionale. Tenere i riflettori accesi sulle vicende che riguardano il Csm, anche se spesso poco avvincenti, è necessario.
Ecco, dunque, la fatidica domanda: cosa è accaduto nelle recenti elezioni?
In primo luogo è successo che, oltre a cambiare il numero dei consiglieri da eleggere, è cambiato il sistema elettorale (sempre la triste passione per le formule!), con l’introduzione di un sistema binominale maggioritario che vede i concorrenti in gara su collegi più piccoli (salvo quello per eleggere i due giudici di Cassazione) rispetto a quello unico nazionale. In sostanza, vincono il primo e il secondo eletto di ogni collegio territoriale, con un recupero proporzionale che opera per i giudici di merito e un piccolo correttivo per la categoria dei pubblici ministeri. Il risultato del meccanismo maggioritario binominale è stato scontato: una sovra rappresentanza, rispetto al numero di voti, degli attuali due gruppi più grandi della magistratura, Magistratura Indipendente e Area Democratica per la Giustizia – grosso modo corrispondenti la prima alla rappresentanza della magistratura conservatrice o moderata, la seconda a quella della magistratura progressista –, che hanno incassato tredici consiglieri su venti (rispettivamente sette e sei consiglieri). In termini di voti, va detto che il risultato di Magistratura Indipendente – che ha continuato a coltivare in campagna elettorale il mito dell’apoliticità (meglio: del tecnicismo avaloriale) della giurisdizione quale baluardo dell’indipendenza – è stato un vero successo: la normalizzazione burocratica costituisce ancora una prospettiva rassicurante per la corporazione. I grandi numeri dei due gruppi maggiori non sono stati una sorpresa. Del resto, entrambe le correnti, quando si è trattato di confrontarsi con la politica sulla riforma elettorale, non avevano certo espresso una radicale critica (al di là di formule di stile o del pensiero di qualche esponente individuale) a un meccanismo che, era evidente, avrebbe costretto la magistratura a un bipolarismo riproduttivo delle logiche della politica nazionale. L’opportunità di massimizzare il bottino, all’epoca, ha fatto premio su tutto, comportando la sottovalutazione di due rischi: lasciare il Csm in balia di logiche di “governo” che dovrebbero essergli estranee e ridurre o azzerare il tasso di pluralismo culturale all’interno dell’istituzione.
Per fortuna, verrebbe da dire, le idee e le pratiche politiche oppongono resistenza alla cogenza dei meccanismi elettorali e alla fine in Consiglio sederanno anche rappresentanti esterni ai due gruppi maggiori. La storia personale di chi scrive, in proposito, non può che salutare una novità di queste elezioni: il ritorno nella competizione elettorale di Magistratura democratica quale gruppo autonomo, non più inglobato in Area. Un nuovo inizio incoraggiante, premiato dall’elezione di una consigliera e di un candidato indipendente ma vicino e, soprattutto, da una percentuale non irrisoria di voti: circa il 13%. Lo “strano animale” (Pietro Ingrao docet) riprende il suo cammino, senza rinunciare alla sua stranezza e al suo anticonformismo. Semmai, rafforzandoli: una forte vocazione assembleare unita alla scelta di fare delle differenze interne una ricchezza; l’opzione anticorporativa vissuta nei fatti (unico gruppo a guardare con favore l’apertura all’avvocatura nelle valutazioni dei magistrati: arriverà il momento in cui si capirà che si tratta anche di un baluardo dell’indipendenza interna, oltre che di uno strumento per ricostruire la fiducia nella giustizia); la rivendicazione del carattere valoriale della giurisdizione (da abbinare alle armi del giudice democratico: indipendenza, professionalità, comprensibilità dei percorsi motivazionali dei provvedimenti) e la pratica della critica dei provvedimenti giudiziari quale momento di crescita dell’intera magistratura; l’apertura al confronto con tutte le componenti della magistratura, senza cedimenti aprioristici al mito evanescente dell’unità della magistratura progressista; l’attenzione costante alle garanzie, sostanziali e processuali.
Fuori del perimetro del bipolarismo, tuttavia, non c’è solo Md. Quattro consiglieri vengono eletti da Unità per la Costituzione (Unicost), il gruppo una volta di Luca Palamara. Attenzione, però: il magistrato più votato in assoluto nelle categorie di merito, un pubblico ministero di Catania militante di Unicost, è anche quello costituito parte civile a Perugia nei processi contro lo stesso Luca Palamara. Un segnale importante per tutta la magistratura: il rinnovamento non è una chimera. C’è posto, tra gli eletti, anche per un magistrato “indipendente”, ingaggiato nella competizione elettorale dal sorteggio previsto dalla legge Cartabia quale ennesimo bilanciamento al peso delle correnti. Ironia della sorte, a essere estratto è lo stesso magistrato che da anni si batte per il sorteggio quale meccanismo di scelta dei componenti del Csm e per una radicale rivisitazione del metodo di scelta dei direttivi, anche qui guardando con favore a criteri di rotazione automatica. Le sue posizioni si possono criticare, ma certo si tratta di analisi con le quali occorre fare i conti. Alle proposte a volte davvero qualunquistiche di altri candidati indipendenti, viceversa, il corpo elettorale dei magistrati pare aver voltato le spalle.
È il momento, ora, di tornare alla riflessione iniziale. Le simultanee elezioni politiche hanno favorito la vittoria di una destra che ha mostrato di voler mettere mano a riforme istituzionali e costituzionali di non poco momento. Con la dichiarata scelta del modello presidenzialista pare essere in gioco anche la forma di governo parlamentare della Repubblica. È una prospettiva “caporalista”, per dirla in termini gramsciani, che inciderà anche sul Csm e, a cascata, sull’ordinamento giudiziario, di per sé già oggetto di annunciate attenzioni. Quale sarà l’atteggiamento dei magistrati eletti al Csm? Ciascuna sponda della magistratura, progressista o moderata, si avvicinerà ai laici di riferimento o vi sarà, come ai tempi dei governi Berlusconi, un ricompattamento di tutte le componenti della magistratura? Ciascuna strada ha pregi e difetti. C’è da augurarsi, comunque, che le differenze culturali e politiche non si annacquino: è questo, in ultima analisi, il vero mantice del Consiglio.