Distorsioni di un GIP: sindacati e associazioni a delinquere

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1.

I fatti sono noti (https://volerelaluna.it/lavoro/2022/08/02/contro-la-repressione-del-sindacalismo-di-base-un-appello/). Con ordinanza 12 luglio 2022 (poi annullata il 5 agosto dal Tribunale del riesame di Bologna) la GIP del Tribunale di Piacenza Sonia Caravelli ha applicato la misura cautelare degli arresti domiciliari a sei sindacalisti (coordinatori nazionali e provinciali dei sindacati SI COBAS e USB) ritenuti gravemente indiziati di due distinti delitti di associazione per delinquere, posti in essere, nell’ipotesi accusatoria, da due distinti e simmetrici «gruppi di potere» alla guida dei sindacati anzidetti. Le imputazioni, infatti, divergono soltanto con riferimento alla sigla sindacale cui aderiscono gli indagati.

La sussistenza delle due associazioni per delinquere è desunta anzitutto, nel capo di imputazione, dal fine di «commettere più delitti di violenza privata (articolo 610 codice penale), di resistenza a pubblico ufficiale (articoli 336 e 337), di interruzione di pubblico servizio (articolo 340), di sabotaggio (articolo 508) ed altri».

Viene poi enumerata una serie di elementi riconducibili esclusivamente all’attività sindacale: il piccolo sindacato SI COBAS era attivo da anni nel settore della logistica di Piacenza; in tale settore era successivamente comparso il sindacato USB, rivelatosi attivo nel «tentare di fare proseliti tra i lavoratori di diverse aziende», quali ad esempio Leroy Merlin, TNT/Fedex, GLS, Traconf ed altre; tra il SI COBAS e la sigla USB era quindi insorto un conflitto per la conquista dei consensi tra i lavoratori e per «cercare di allontanarli dai diversi magazzini»; il terreno di scontro tra i due sindacati locali era rappresentato dagli stabilimenti delle multinazionali della logistica, che avevano un elevato numero di dipendenti, «perlopiù di origine straniera»; i lavoratori erano considerati dai sindacati vero e proprio terreno di conquista, poiché l’adesioni all’una o all’altra sigla consentiva a ciascun sindacato di lucrare gli introiti derivanti dal tesseramento e dalle conciliazioni con la parte datoriale e permetteva ai sindacalisti indagati di garantire assunzioni su base «clientelare», stabilizzazioni e «ricche» buonuscite in caso di cambio degli appalti; i sindacalisti, quindi, fomentavano i conflitti all’interno dei magazzini (hub delle multinazionali) provocando scontri con la parte datoriale, con la cooperativa che appaltava la manodopera ovvero con il sindacato avverso, e ottenendo in tal modo ulteriori «affiliazioni» (o meglio, adesioni) dei lavoratori all’una o all’altra sigla, così da assicurarsi i proventi di tessere e conciliazioni.

I capi di imputazione proseguono, quindi, affermando che gli indagati:
– «creavano ad arte o alimentavano situazioni di conflitto con la parte datoriale, prendendo a pretesto ogni normale e banale problematica di lavoro risolvibile tramite fisiologici rapporti datore di lavoro/lavoratori, avviando attività di picchettaggio illegale all’esterno degli stabilimenti interessati impedendo ai mezzi di entrare e uscire, anche occasionando scontri con le forze dell’ordine, occupando la sede stradale anche con oggetti oltre che con le persone dei lavoratori istigati allo scopo, ponendo in essere continue azioni di sabotaggio (ad esempio azionando l’interruttore di emergenza per interrompere l’azione dei macchinari utilizzati per la movimentazione dei pacchi), istigando i lavoratori a forme di lotta sindacale illecite, compreso il rallentamento pretestuoso o strumentale dell’attività lavorativa o l’uso dell’astensione per malattia anche in assenza di problematiche sanitarie»;
– «costringevano la parte datoriale – piegata dall’illegale blocco dei mezzi e delle merci, con il rischio di vedersi bloccata tutta la filiera logistica del “supplì chain” e in definitiva di perdere l’appalto con il committente (fortemente danneggiato non solo dalle mancate consegne ma dal blocco o rallentamento di tutta la filiera) – a continue concessioni, anche indebite contrattualmente, e alla fine costringendola ad addivenire a procedure conciliative garantendo ai lavoratori ricche buonuscite e agli indagati di incassare il contributo previsto per sigle che avevano perorato le ragioni dei lavoratori interessati»;
– «alimentavano attorno alla loro persona, tramite tale sistema, reti clientelari di lavoratori interessati alla stabilizzazione, anche e soprattutto a scapito dei lavoratori iscritti a sigle contrapposte, o comunque a lucrare ricche buonuscite, nonché ad approfittare della forza ricattatoria del sindacato di appartenenza per sottrarsi alla propria obbligazione lavorativa (ricorrendo a scioperi bianchi, rallentamenti, uso distorto ed illegale della malattia)»;
– «una volta ottenuto e consolidato il potere di ricattare la parte datoriale minacciando continui dannosissimi blocchi, al fine di consolidare la propria presenza all’interno del magazzino, con le stesse modalità iniziavano a favorire “i propri lavoratori”, affinché ottenessero di svolgere le mansioni più gradite a scapito degli altri, ottenendo pretestuosi privilegi e ciò per accreditarsi davanti agli “altri” come l’organizzazione più efficace e in grado di fare ottenere loro condizioni migliori, sebbene ingiuste, in una logica di proselitismo autoalimentato»;
– «cominciavano ad imporsi alla proprietà anche per le scelte squisitamente a questa riservate, come appunto l’organizzazione del lavoro ovvero l’assunzione di singoli lavoratori a scapito di altri, imponendo il proprio volere minacciando in qualsiasi momento arresti alla produzione pretestuosi, non annunciati e dannosissimi; di qui le onerose conciliazioni, con incasso di ingenti somme da parte della sigla»;
– «e così, per le finalità sopra indicate, si associavano per commettere un numero indeterminato di delitti della specie sopra indicata” ossia violenza privata, resistenza a pubblico ufficiale, interruzione di pubblico servizio e sabotaggio».

Queste, in sintesi, le contestazioni.

2.

Una prima osservazione: i reati elencati nell’asserito programma criminoso delle due associazioni (cioè i delitti di resistenza a pubblico ufficiale, di violenza privata e di interruzione di pubblico servizio) sono costituti – ove sussistenti – da condotte che, nelle manifestazioni sindacali, intervengono per definizione in modo occasionale, e sono commesse per effetto dell’insorgenza di fattori del tutto estemporanei. Ma, nel delitto associativo, i singoli reati-fine devono essere espressione di un programma criminoso previamente concordato. Qualora, come nel caso di specie, non sia ipotizzabile l’esistenza di un programma siffatto che leghi le condotte qualificate come reati satellite al delitto di partecipazione al sodalizio criminoso, tutto cade e il dedotto programma criminoso dell’associazione scolora fino a confondersi con le precipue finalità del sindacato, di lotta per ottenere migliori condizioni di lavoro. Né può tenersi conto del generico riferimento, contenuto nell’imputazione, ad altri reati non specificati, poiché si tratta di un richiamo a condotte assolutamente indeterminate, e per tale motivo incompatibili con la configurazione del delitto di associazione per delinquere che presuppone un programma criminoso ben determinato quantomeno nella tipologia dei delitti che i partecipanti dovranno commettere per raggiungere il fine comune al sodalizio.

Ciò posto, è agevole osservare che:
– non è chiaro cosa sia un’assunzione «clientelare» favorita da un sindacalista;
– le imputazioni peccano di indeterminatezza, poiché non si chiarisce in quali casi, e per quali importi di denaro, una conciliazione sarebbe così sproporzionata da potersi qualificare come «ricca» (essendo comunque nell’ambito di accordi negoziali aventi ad oggetto diritti disponibili, specie da parte datoriale, e non si comprende come una conciliazione tra datore di lavoro e lavoratore, ancorché molto favorevole per quest’ultimo, possa costituire elemento caratterizzante il delitto associativo, posto che si versa in tema di attività lecite, e che in caso di eccessiva sproporzione tra le posizioni contrattuali sono previsti  specifici rimedi di tipo civilistico);
– gli introiti provenienti dal tesseramento e dalle attività di mediazione e conciliazione dei sindacalisti sono del tutto leciti, in quanto costituiscono il corrispettivo dell’attività svolta dal rappresentante sindacale in virtù del mandato conferitogli dai lavoratori con l’adesione al sindacato (e soltanto qualora il sindacalista tenesse per sé il denaro frutto di tessere o conciliazioni, invece di versarlo nelle casse del sindacato, si potrebbe pensare ad un’appropriazione indebita);
– il picchettaggio è ormai da tempo considerato attività lecita, sempre che non vengano compiute vere e proprie azioni di violenza contro persone o cose per impedire ai lavoratori di entrare in azienda in occasione di scioperi o manifestazioni (la giurisprudenza penale in materia di picchettaggio risale agli anni settanta; non si registrano successive pronunce della Suprema Corte, che nella sentenza n. 7595/1975 ha affermato il principio secondo cui l’esercizio del diritto di sciopero comporta la legittimità di praticare liberamente quelle azioni sussidiarie che sono ritenute necessarie per la riuscita dell’astensione, quale il lancio di manifesti, la ripetizione di slogans, la formazione di blocchi volanti propagandistici, o dei cosiddetti picchettaggi di persuasione e altre consimili attività dirette a svolgere opera di convincimento nei confronti di coloro che dimostrano assenteismo o dissenso);
– eventuali forme di lotta sindacale che si pongano al di fuori del perimetro del diritto allo sciopero, come scioperi “bianchi” o atipici, possono costituire condotte disciplinarmente rilevanti, ma non si vede come possano rappresentare elementi costitutivi di un’associazione per delinquere;
– la falsa astensione per malattia del lavoratore che in realtà non ha alcuna patologia si qualifica come truffa ai danni del datore di lavoro e concorso nel falso ideologico commesso dal medico che redige il certificato di malattia ma, a tacer d’altro, nessun reato siffatto è contestato nelle 140 imputazioni o ricompreso nel programma criminoso dell’associazione).

Si aggiunga che, una volta ammessa la possibilità di deroghe in peius alla contrattazione collettiva nazionale mediante la sottoscrizione di accordi aziendali e finanche di contratti individuali, si è aperto un terreno di conflittualità potenzialmente sconfinato: mentre i sindacati “storici” possono avere linee di interlocuzione più “morbide” con le parti datoriali, piccole sigle sindacali come quelle qui in esame ben possono attestarsi su posizioni più rigorose, tenuto conto che i lavoratori non hanno alternative se vogliono ottenere risultati concreti e indurre le parti datoriali ad accettare tutte o parte delle loro richieste. Sotto tale aspetto, non vi è nulla di strano se il sindacato prende posizione in favore dei propri iscritti, e non di altri lavoratori: è proprio questo il compito del sindacato, quello di tutelare i propri iscritti, ed è ciò che accade normalmente in caso di riconoscimento di corrispettivi per l’estromissione dall’azienda (esodi incentivati, e quelle che vengono chiamate buonuscite), o in caso di stabilizzazione di lavoratori a tempo determinato.

3.

Alla stregua di quanto precede, nelle descritte imputazioni relative ai reati associativi si registra una sorta di strabismo inquisitorio: si confonde la condotta tipica di alcuni reati con una finalità del sindacato e si perde di vista il reale scopo delle condotte (lecite e illecite) di costringere le parti datoriali a venire a patti con il gruppo sindacale che persegue obiettivi di tutela della collettività dei lavoratori aderenti. In altre parole, la distorsione operata dal PM e dalla GIP sta nell’aver obliterato il reale scopo della lotta sindacale, costruendo l’esistenza di un programma criminoso su azioni o condotte meramente eventuali, non programmate né programmabili al momento della nascita dell’associazione, il cui unico elemento unificante è rappresentato dal perseguimento di uno scopo del tutto lecito e costituzionalmente garantito. A nulla vale enunciare in premessa che le condotte degli indagati esulano dal perimetro dell’attività sindacale, poiché all’affermazione astratta deve seguire la rigorosa dimostrazione della riconducibilità dei concreti comportamenti all’ipotesi criminosa delineata nella norma di cui all’art. 416 codice penale e, se tale dimostrazione è tecnicamente impossibile, le singole condotte contestate come reati-fine rimangono azioni non unificabili da un programma criminoso. Ed è appena il caso di aggiungere che la forte conflittualità tra datori di lavoro e lavoratori, quale emerge dalla lettura dell’ordinanza, non può essere fronteggiata ipotizzando delitti di cui mancano gli elementi costitutivi.

In conclusione, prescindendo dal comprensibile clamore mediatico che ha suscitato l’ordinanza di custodia cautelare in commento, le vicende oggetto di disamina appaiono riconducibili, dal punto di vista tecnico-giuridico, a una fisiologica ancorché aspra lotta sindacale per l’affermazione di diritti connessi alle posizioni di lavoratori iscritti ai due sindacati; anche la “guerra” tra le due sigle sindacali non è nuova nel panorama nazionale, e non sembra che in precedenza siano stati ipotizzati reati di associazione per delinquere. Eventuali condotte di violenza o di sabotaggio a beni o cose delle imprese datrici di lavoro sono ascrivibili ai singoli lavoratori che le hanno commesse, poiché il programma e lo scopo del sindacato non sono quelli di commettere reati, bensì di ottenere migliori condizioni di lavoro. Sotto tale profilo colpisce l’affermazione contenuta nell’ordinanza, secondo cui i fatti oggetto del procedimento fuoriescono dal perimetro della libertà sindacale e dei diritti a questa connessi: prescindendo dal sapore di excusatio non petita, le condotte descritte nel capo di imputazione dimostrano il contrario, dal momento che siamo di fronte ad attività sindacali, anche molto forti, ma pur sempre riconducibili alla sfera della libertà di rivendicare modalità e condizioni di lavoro più favorevoli nei confronti di aziende che svolgono attività analoghe, e applicano analoghe condizioni e tariffe salariali. Non stupisce, quindi, che i lavoratori di imprese diverse si siano associati per combattere insieme, persino trasferendosi a bordo di automezzi da uno stabilimento all’altro per portare avanti le loro rivendicazioni. Nessuno contesta che singole, specifiche azioni possano costituire fatti penalmente rilevanti; ma da qui ad ipotizzare un’associazione per delinquere operante sin dal 2014, e a ritenere sussistenti gravi indizi di colpevolezza a carico degli indagati, intercorre uno spazio siderale.

Una più ampia versione dell’articolo, con link al testo dell’ordinanza del GIP di Piacenza, può leggersi in Questione Giustizia online (https://www.questionegiustizia.it/articolo/il-caso-piacenza-sindacati-o-associazioni-a-delinquere)

Gli autori

Linda D’Ancona

Linda D’Ancona è giudice al Tribunale di Napoli

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