Ricevo da un’amica impegnata nell’esame di maturità il resoconto di un suo collega, che con tratto vuoi sarcastico, vuoi ironico, vuoi dolente spiega come si approdi a definire “secondo giustizia e numero” l’elaborato d’Italiano. I passaggi sono parecchi. La partenza è quella consueta: si assegna mentalmente un voto in decimi. In seguito si compila una griglia con nove o dieci indicatori; ad ogni indicatore un punteggio, voto massimo 100. La somma finale, per singolo allievo deve essere uguale al voto in decimi, moltiplicato per dieci. E sin qui, immaginiamo qualche pasticcio contabile nella compilazione della griglia, ma sempre su base 10 stiamo ragionando. Poi viene il meglio: il voto va trasformato in quindicesimi (novità dell’anno), passando attraverso una metamorfosi in ventesimi (moda delle stagioni precedenti). L’acrobazia finale prevede la consultazione di una tabella di conversione del voto in ventesimi in voto in quindicesimi. Nella scuola della mia amica il voto si assegna così. Il caso vuole che mi arrivi un altro messaggio, di un altro commissario d’esame sull’orlo della crisi di nervi: la commissaria d’Italiano ha corretto due temi in due ore e mezza!
Ancora il caso vuole che legga, poco dopo, un tema su Leopardi scritto nel 1911 da Antonio Gramsci. L’enunciato consta di poche parole: «Conosciuto, ancor che tristo, ha suoi diletti il vero». La citazione è tratta dall’Epistola Al conte Carlo Pepoli, componimento del 1826 ritenuto d’occasione da critici autorevoli ma, in realtà, testo denso e profondo, come peraltro tutto ciò che è stato scritto da Giacomo, il quale, per citare una frase di Cesare Garboli, è di quelli «che hanno ragione anche quando hanno torto». Bene, il tema del giovane Gramsci è bello, toccante: il ragazzo ha colto sia la radicalità del pensiero leopardiano, sia la necessità della ricerca del vero («Maggiormente sono da ammirarsi quelli, che, pur sapendo che questa loro ricerca è come un arme a doppio taglio che li ferirà profondamente, si sacrificano e si dilaniano le carni, ma nel tempo stesso sentono innalzarsi la propria coscienza») sia, infine, il messaggio di profonda giustizia sociale che anima il poeta, convinto che la via da seguire sia una sola, quella di operare affinché gli esseri umani siano «tutti fra sé confederati» e pronti ad offrirsi amorevole aiuto «negli alterni perigli e nelle angosce / della guerra comune».
Il Fatto riporta anche il voto e il commento dell’insegnante di Gramsci, il professor Arullani: «Questo ultimo concetto è un po’ oscuro: ma il lavoro è meditato e sentito, pregevole di pensiero e di forma. Il tema è bene inteso, e bene svolto. [Voto] 7-8/10». Anche se l’ultimo periodo a me non è apparso oscuro, il professor Arullani ha detto, in poche parole, quel che c’era da dire. Non solo il lavoro è «pregevole di pensiero e di forma» ma è «meditato e sentito». Due aggettivi quanto mai adeguati e che colgono la profonda partecipazione del giovane al pensiero di Leopardi. Per dirla con Carlo Michelstaedter, nel tema di Gramsci non c’è alcuna retorica ma persuasione e passione. Appunto, un tema «meditato e sentito». E il voto, senz’altro severo, è legato al fatto che assai difficilmente uno studente possa approdare al “10”, quasi a dire che non ha più alcun passo in avanti da fare. Quanta differenza tra questo giudizio sintetico e l’aridità di griglie che vivisezionano un elaborato! Quasi si riuscisse ad approdare al giudizio perfetto, al voto incontestabile, alla misura indiscutibile.
Non vogliamo paragonare la scuola di più di un secolo fa a quella di oggi, né fare confronti indebiti tra i nostri studenti e un allievo d’eccezione. Ma, senza dubbio, la scuola degli ultimi decenni, presa dal delirio valutativo, portata alla misurazione “scientifica” di ciò che si apprende, ingabbiata in una burocrazia oppressiva, si è dimenticata della sua funzione prima, che è quella di insegnare. E, cosa a mio giudizio molto grave, ha buttato a mare la nostra migliore tradizione, che è quella umanistica, forse per volontà di privilegiare le cosiddette materie STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics) che, però, non sono affatto in contrapposizione con le materie umanistiche, forse perché, negli ultimi trent’anni, insieme con il desiderio di maggior giustizia sociale, si è perso anche il senso della scuola, ridotta, da tecnocrati, politici, opinionisti ad essere assoggettata alla produzione, ad essere valutata come si valuterebbe una fabbrica qualsiasi, ad essere svalutata richiedendole di svolgere un’azione di supplenza a 360 gradi. Ad essere, addirittura, accusata di produrre disoccupazione, che è una scempiaggine grossa come una casa ma che viene continuamente ripetuta.
Tutto può cambiare, purché si abbia il coraggio di guardare alla realtà dei fatti, purché il ceto docente acquisti coscienza ed esca da quel costante stato di subalternità che lo caratterizza da troppi anni. E purché non si voglia edulcorare la realtà: «Quando si farà chiara la concezione che il vero, anche brutale, è preferibile alla illusione che intorpida i sensi, un gran passo si sarà fatto nell’evoluzione, e gli uomini saranno anche meno sofferenti di quello che sono ora». Lo scriveva, nel 1911, un giovane di venti anni.
Dissento. Educatamente, rispettosamente, affettuosamente persino, ma dissento. Il compito primo della scuola, checché se ne dica, non è istruire. La sua funzione primaria è educare. All’obbedienza, però, si intende. Eh si, bisogna dirlo, a onor del vero! Certo qualcosa, non lo si può negare, essa insegna anche (meno che a leggere e a scrivere, pare). Ma non è quello il contributo prezioso, insostituibile, che essa è chiamata a dare alla riproduzione delle formazione sociali, alla trasmissione, da una generazione all’altra, delle strutture simboliche del dominio. (Se mi assicurate che Bourdieu non l’avete buttato alle ortiche, vi risparmio in proposito ogni citazione. Me lo assicurate? Bene! Son contento). Quanto al ceto docente non si può certo escludere che, istruito com’è, un giorno o l’altro riesca a prendere coscienza di quale sia la funzione a cui è preposto e disciplinatamente sottoposto. E’ vero, la stragrande maggioranza di quel ceto – 99 % secondo le mie attendibilissime stime – non sembra averne oggi alcun sospetto. Ma domani? Chi lo sa! Non bisogna disperare. Dopotutto, anche un cammello, con un po’ di fortuna e molto coraggio, potrebbe passare dalla cruna di un ago. Un caro saluto.