Giungono nuove notizie allarmanti dagli Stati Uniti. La sentenza della Corte Suprema, ormai in balia di una maggioranza militante di centro-destra, che abolisce quella precedente Roe v. Wade, di fatto annulla il diritto federale di aborto, vigente da 50 anni, dando via libera ai singoli stati più o meno abolizionisti. Se a questo dato di fatto si aggiunge la difficoltà del Congresso di porre limiti anche esigui alla diffusione delle armi, che continuano a provocare stragi di innocenti, cresce il pericolo di una crisi democratica che rischia di diffondersi nel mondo intero. La democrazia americana è anche nostra. E scrivo americana perché mi riferisco a un intero continente di cui gli Stati Uniti costituiscono una parte, oggi meno egemone che mai.
La democrazia, intesa come sistema di governo fondato sulla sovranità popolare di cittadini elettori, a cui spettano diritti di rappresentanza e di libertà, in primo luogo di espressione, è oggi indebolita ovunque essa è presente, con scarsa consapevolezza dei suoi aventi diritto a causa della reticenza mediatica. Mi spiego con un esempio. I principali media, non soltanto italiani, hanno trascurato una notizia di rilevanza mondiale. Esponenti delle forze armate del Brasile, ove si svolgeranno elezioni presidenziali quest’autunno, hanno appena espresso la convinzione che esse non si svolgeranno regolarmente. Il presidente in carica, Jair Messias Bolsonaro – che nei sondaggi d’opinione risulta indietro di oltre una ventina di punti rispetto al suo sfidante, Luiz Inacio Lula da Silva (già presidente, per anni illegalmente detenuto a seguito di accuse di corruzione rivelatesi false) – ha subito cavalcato questa delegittimazione preventiva di un sistema elettorale a cui deve la poltrona su cui è seduto da quattro anni, ipotizzando un meccanismo di controllo parallelo, gestito dagli stessi militari. Con ogni probabilità si tratta del preannuncio di un tentativo di golpe, nel caso di un esito favorevole allo sfidante, nel paese dal corpo elettorale attivo più numeroso del mondo, dopo quello dell’India e degli Stati Uniti.
In India le elezioni hanno appena avuto luogo in forma regolare, anche se con un esito per altri versi inquietante, in quanto hanno confermato, a grande maggioranza, il governo di Modi, il quale persegue una politica che calpesta i diritti delle minoranze non hindu – in primo luogo, quella musulmana – e, di conseguenza, il compromesso costituzionale su cui si fonda quella democrazia.
Altrettanto, se non più pericoloso, per il potere militare colà detenuto, è lo stato della democrazia negli Stati Uniti d’America. Come noto, è in corso un’indagine della Camera dei Rappresentanti (ove, fino alle elezioni di novembre, i Democratici detengono la maggioranza) su quanto avvenuto in occasione dell’insediamento della presidenza Biden, il 6 gennaio 2021. Da filmati e testimonianze raccolte – non esclusa quella del ministro della giustizia dell’amministrazione Trump – l’assalto violento dei dimostranti, guidati da gruppi parafascisti alla sede del Congresso non è stato soltanto ispirato e, in parte, aizzato dal presidente uscente, ma ha avuto lo scopo di annullare e sovvertire l’esito elettorale che, secondo la procedura costituzionale, era in corso di definizione. L’iniziativa in atto, forse destinata a sfociare nell’incriminazione di Donald Trump, potrebbe essere interpretata come un segno di buona salute istituzionale e democratica, se non fosse accompagnata da una molteplicità di elementi di fatto che ne rendono problematica la conclusione. In primo luogo la grande maggioranza dell’elettorato che ha dato il proprio voto a Trump – secondo risultati ufficiali che gli hanno comunque assicurato oltre il 47% dei voti – continua ad essere convinta che l’esito sia stato taroccato a favore del presidente in carica. In ciò incoraggiati da Fox News, la più seguita emittente televisiva del paese, oltre che, sin dall’inizio – occorre non sottacerlo – da regole e meccanismi elettorali così assurdamente variegati, stato per stato, addirittura contea per contea, da offrire un’aura dì plausibilità anche a rilievi palesemente strumentali. Colpisce altrettanto lo scarsa attenzione che l’altra parte del paese, quella democratica, sembra dedicare alla controversia in atto. Un’opinione pubblica trasversale, da sempre volubile quanto e più della nostra, è oggi maggiormente concentrata su temi quali l’inflazione, la sicurezza pubblica, l’immigrazione, ora anche l’aborto, per gli effetti reali e percepiti sulle condizioni di vita di ciascun cittadino. I sondaggi di gradimento del presidente in carica, intorno al 30%, stanno a indicare il pericolo di una rielezione di un presidente dichiaratamente ostile, quantomeno indifferente, ai valori costituzionali del suo paese. Nel contempo, è sempre più evidente, nella politica estera di Washington, la contraddizione tra i valori professati e il modo in cui vengono esportati manu militari e con effetti negativi, mentre permangono le ferite all’habeas corpus causate dalle amministrazioni precedenti di cui il campo di concentramento di Guantanamo costituisce il monumento. È comunque da registrare in senso positivo lo sviluppo di un’area progressista guidata dal senatore Bernie Sanders, all’interno del partito democratico, che fa dichiaratamente riferimento al socialismo democratico, un tempo innominabile quanto il comunismo.
Ma in quale contesto si colloca la crisi democratica in atto, da cui il nostro continente, il nostro paese, sono tutt’altro che esenti, come dimostra, tra l’altro, la decrescente partecipazione dei cittadini alle scadenze elettorali?
In un’ottica globale sono in gioco due prospettive che la guerra in corso in Ucraina rende evidenti. Da una parte la dinamica e il prolungamento di quella guerra, scatenata dalla Russia e prima innescata, poi alimentata dagli Stati Uniti e dai suoi alleati minori nell’ambito della NATO, costituiscono una sorta di prolungamento militarizzato, su terreno europeo e a spese della popolazione ucraina, della Guerra Fredda, disinnescata dalla caduta del Muro di Berlino. Dall’altra, si profila una lenta e difficile transizione dal bipolarismo, ancora favorito da Washington e da Mosca, a un sistema multipolare non ancora governato. A questo fine non sono sufficienti il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ancora paralizzato da veti incrociati, e il pletorico G20. Costituisce, invece, un interessante antidoto all’assetto precedente, la ricostituzione del BRIC – che, al di là dei regimi vigenti, comprende Brasile, Russia, India e Cina – e il suo allargamento al Sud Africa e, forse, all’Argentina. Restano fondamentali il consolidamento dell’ancora precaria Organizzazione per l’Unità Africana (OUA) e – responsabilità nostra – il rafforzamento politico e strategico dell’Unione Europea, in prospettiva affrancata dai suoi vincoli con gli Stati Uniti. In tale contesto, favorito da scambi commerciali scevri da spinte autarchiche e militariste oggi prevalenti, i sistemi democratici, oggi pericolanti, potrebbero rilanciarsi in una pacifica convivenza con una dittatura in ascesa, che ha realizzato l’affrancamento di una parte cospicua della propria popolazione, ma che non ha superato un’inquietante sovrapposizione di poteri istituzionali, finanziari e militari. Quella della Cina che, anche per la neutralità assunta in sede ONU rispetto allo stato di guerra in atto, pur partecipando alla generale politica di incremento delle armi, non sembra avere abbandonato la tradizionale impostazione multipolare della sua politica internazionale.
Conosco e apprezzo Migone da decenni e le sue lotte per i diritti umani e civili!
Spero di potere continuare a leggere i suoi articoli densi di analisi politiche informate e rappresentative della realtà’ nazionale e internazionale!!!
Mi piacerebbe partecipare ad incontri e dibattiti promossi da lui!!!