1.
Le urne si approssimano: il 12 giugno si vota per i referendum abrogativi in materia di giustizia. Si arriva all’appuntamento carichi di equivoci informativi, a partire dalle notizie su chi di fatto ha promosso l’iniziativa referendaria. Nonostante l’intensa campagna da parte di Lega e Radicali, i promotori dei referendum sono esclusivamente alcune Regioni nelle persone dei propri delegati dai rispettivi consigli. È un argomento che rende meno attraente lo strumento di democrazia diretta? Certamente no, anche se sarebbe interessante (benché forse impossibile, in assenza di certificazione) verificare l’entità delle firme raccolte e confrontarla con il numero di quelle che hanno sostenuto e promosso le iniziative referendarie su cannabis e fine vita. Non si tratterebbe di puro esercizio computazionale: permetterebbe di meglio valutare il dato dell’affluenza alle urne e, soprattutto, di afferrare la capacità di mobilitazione delle questioni giudiziarie e istituzionali oggetto della consultazione. È sufficiente leggere i testi dei quesiti, infatti, per rendersi conto del profilo ostico di tali questioni, che mal si prestano alla logica binaria tipica dei referendum, una logica, in questa occasione, persino canalizzata in una prospettiva manichea atta a mettere in ombra, anziché rischiarare, il reale momento di buio in cui si trova il sistema-giustizia.
Ben diverso sarebbe stato avere la possibilità di votare sulla legalizzazione della cannabis o sulla disciplina del fine vita, come differente è stato ritirare la scheda su divorzio e aborto: in fondo anche queste sono delicate questioni di diritto e diritti, ma chiamano in causa una giustizia della relazioni umane e uno sfondo filosofico, morale, politico e ideale che, al di là dei necessari aggiustamenti normativi, presuppone una scelta irriducibile, un sì o un no a una visione del mondo. Tutt’altro discorso per i quesiti della tornata elettorale del 12 giugno. Sia chiaro: è ben lontana da ma l’idea che ci si possa avvalere della “complessità” come ostacolo o schermo all’espressione del voto popolare. Il problema, in questo caso, non è tanto una presunta indecifrabilità degli argomenti – ogni complessità si risolve, se sciolta in un dibattito che abbandoni le pedanterie di chierici e iniziati –, ma la loro poliedricità, l’intrinseca natura che li porta a sfuggire a semplificazioni, la loro attitudine produrre nuovi interrogativi ogni volta che si pensa di avere in tasca la risposta; in poche parole, la loro inadattabilità alla inevitabile strettoia di un referendum. Il problema, inoltre, è aggravato dal carattere “onnivoro” di alcuni quesiti.
2.
Prendiamo ad esempio la domanda di abrogazione della cosiddetta legge Severino sulla incandidabilità di persone condannate per reati gravi o gravissimi. La legge, piuttosto articolata, contiene una norma odiosa, scolpita nell’art. 11, che prescrive la sospensione degli eletti nelle amministrazioni locali anche in caso di condanna non definitiva o di misura cautelare. È una disciplina in grave contrasto con il principio di non colpevolezza sancito dalla Costituzione, in base al quale nessuno può essere considerato colpevole fino a che la sentenza non diventi definitiva. Sarebbe giusto abrogarla e tutta la campagna per il ‘sì’ è incentrata sulla abolizione di questa norma. Il fatto è che il quesito referendario riguarda l’abrogazione non solo di quella disposizione, ma di tutta la legge Severino, per intero, comprese le norme relative alla incandidabilità (e impossibilità di assumere incarichi di governo) dei condannati in via definitiva per reati gravissimi. Occorre fare attenzione: personalmente contesto anche quest’aspetto della norma, almeno nella parte in cui non fa i conti con l’altrettanto essenziale principio costituzionale del finalismo rieducativo della pena. Ci si chiede, tuttavia, se problemi così dibattuti e tormentati possano essere risolti attraverso il rasoio del referendum e non debbano, al contrario, essere affrontati dalla politica e dal Parlamento attraverso una disciplina capace di porre “paletti”, tracciare una mediazione, disegnare principi idonei a mettere d’accordo chi non vorrebbe vedere candidarsi alle politiche un condannato definitivo per mafia o terrorismo a poca distanza temporale dai reati, ma accetterebbe di votarlo una volta scontata la pena e dimostrata una qualche forma di riabilitazione civile. Ecco, un elettore di questo tipo che libertà di scelta possiede di fronte a un quesito che gli pone l’alternativa secca del tutto o niente?
Lo stesso può dirsi in relazione al quesito sulla custodia cautelare. È innegabile che la giustizia penale sconti un eccesso di ricorso alla custodia cautelare in carcere, a volte adoperata per “far correre” i processi in tempi di bulimia repressiva (i limiti temporali della custodia costringono a scansioni processuali più rapide), troppo spesso indirizzata verso chi si trova ai margini del perimetro sociale, comunque prigioniera, in non rari casi, di un uso di scopo del diritto penale. Anche su questo tema, tuttavia, pare opportuno chiedersi se la proposta di abrogazione del «pericolo di commissione di reati della stessa specie», quale presupposto per l’emissione di qualsiasi misura cautelare (non solo la custodia in carcere, sia davvero la via maestra per contrastare l’eccesso di cui si è parlato. A venire sul tappeto non pare tanto un problema di tutela della sicurezza delle persone (che pure si pone), quanto una possibile eterogenesi dei fini, peraltro di frequente verificazione nella storia delle riforme penali. Il rischio, detto altrimenti, è che per sopperire alla lacuna si faccia ricorso a criteri che consentano di tenere dentro i recinti delle misure cautelari ipotesi che ne sarebbero fuori, magari ampliando l’estensione e la portata applicativa degli altri presupposti che giustificano l’applicazione di una misura sulla base del pericolo di reiterazione: “armi”, “mezzi di violenza contro la persona”, “ordine costituzionale”. Sì è al cospetto, dunque, di una risposta semplicistica e incompleta (dunque azzardata) a un problema che avrebbe bisogno di ben altro approfondimento. Anche sul quesito inerente alla custodia cautelare la (poca) informazione pubblica – oscillante tra motti che da un lato inneggiano a una “giustizia giusta contro gli abusi della custodia cautelare”, dall’altro profetizzano sciagure pubbliche per l’abrogazione della norma – si affretta a far trangugiare chilometri di slogan che, anziché far venire a galla il cuore del problema, lasciano sul terreno un «sempre più ampio divario tra ciò che si è capito e ciò che si pensa di aver capito […] il buco nero che divide i dati dalla conoscenza» (Richard S. Wurman, così citato da Gaia Benzi, L’epoca del linguaggio assoluto, in Jacobin Italia, n. 14/primavera 2022). È un buco nero di cui si avverte il pericolo proprio nel momento in cui, per altro verso, si deve riconoscere che ciascun quesito referendario tocca snodi nevralgici irrisolti della giustizia e del suo modo di organizzarsi. Se si è arrivati al referendum, tagliola in questa occasione poco praticabile, è soltanto per l’inerzia della politica e per un notevole tasso di incapacità della magistratura di riflettere su sé stessa, sul proprio operato, sulla crisi del “fare giustizia”.
3.
Non mancano argomenti analoghi anche in ordine agli altri quesiti, a partire da quello sulla radicale separazione delle funzioni tra giudici e pubblici ministeri. Troppo spesso il valore capitale dell’unitarietà della magistratura è stato difeso con la ripetizione a iosa del mantra della “comune cultura delle giurisdizione”, senza accorgersi che tale comune cultura sta evaporando per effetto, da un lato, di una separazione che di fatto è in corso da lungo tempo (rari sono i passaggi dalla funzione requirente a quella giudicante e viceversa) e, dall’altro, di una contrapposizione – fittizia e pericolosa, ma troppe volte alimentata nella prassi – tra la magistratura e l’ordine professionale degli avvocati. Non saprei trovare parole più efficaci di quelle di Massimo Donini: «Ci si culla ancora nell’ideale “pubblico, da copertina”, di una giustizia cieca e bendata dove pm e giudici avrebbero “la medesima cultura della giurisdizione” e dunque devono “stare dalla stessa parte” che è quella della suddetta giustizia apolitica, laddove gli avvocati sono loro i “separati” in carriera, perché svolgono un ufficio privato e “stanno dalla stessa parte degli imputati”, che non sono affatto presunti innocenti, se non sulla carta» (Massimo Donini, Crisi della giustizia e ruolo politico della magistratura. Quando si cerca il potere perché non si vuole fare il diritto, in Questione Giustizia, 6. 4. 2021). È a partire dal doveroso ripudio di questa contrapposizione che si dovrebbe ripensare anche il tema della valutazione della professionalità del magistrato da parte degli avvocati e dei professori universitari nei consigli giudiziari, oggetto di altro quesito referendario. Anche in questo caso, una visione corporativa si è impossessata della magistratura – con l’eccezione della presa di posizione di Magistratura democratica – e ha finito per mettere al bando la prospettiva; senza tenere in debito conto che tale opzione sarebbe, oltre che una potente iniezione di trasparenza, un antidoto alle cadute di professionalità e, non da ultimo, allo strapotere dei direttivi nelle valutazioni di professionalità. A quest’ultimo tema, come a quello di una più netta separazione delle funzioni, ha messo mano la riforma Cartabia (criticabilissima per molti aspetti, meno per altri, tra cui quello relativo all’ampliamento delle fonti di valutazione), la cui discussione nell’aula del Senato è stata calendarizzata subito dopo il voto referendario. Non tutti i problemi squadernati dai referendum, tuttavia, sono affrontati, direttamente o indirettamente, da questa riforma. Il peggio che potrebbe capitare è che, passato l’appuntamento referendario, cali il silenzio sulle questioni urticanti cui si è accennato e i problemi vengano rimossi, spostati sotto il tappeto insieme a un po’ di cenere della democrazia diretta.
4.
Un’ultima riflessione la merita proprio l’opposizione democrazia diretta/democrazia rappresentativa. La Costituzione italiana ci ha abituato a una forma di coabitazione, testimoniata tra l’altro anche dall’innesto del referendum abrogativo. Come visto, non sempre lo strumento si presta a offrire risposte adeguate. Allo stesso tempo, tuttavia, si è consapevoli della debolezza di un “affidamento” cieco alle forme e ai tempi di una democrazia rappresentativa che appare sempre più sclerotizzata, illeggibile nei suoi percorsi e nelle sue derive. Senza una rivitalizzazione dal basso della rappresentanza, che in qualsiasi settore della vita la metta in collegamento con i bisogni e le aspettative del Paese e con chi quei bisogni e quelle aspettative li vive, non si faranno passi avanti. Lasciare la palla in mano alla politica, dunque, non deve significare abbandonare il campo, ma presidiarlo ancora di più, reinventando forme e luoghi di discussione, dibattito, partecipazione che scavalchino l’abbandono in cui versano i corpi intermedi tradizionali e lo stato di degradazione in cui è precipitata l’informazione pubblica. Su questo terreno anche la magistratura è chiamata a una sfida: aprirsi di nuovo alla società, provare a spiegarsi, farsi capire.
Non si può non concordare sul fatto che l’applicazione dell’art. 11 della legge Severino, nel caso di condanne in 1° agli amministratori locali, rappresenti un vulnus del dettato costituzionale. Ciò, però, dovrebbe essere corretto con una specifica norma. Abolita la legge, invece, la casta non avrebbe torto nel sostenere che sono gli italiani a voler essere rappresentati – a tutti i livelli – da mafiosi, camorristi, e autori di altri gravi reati. Stessa cosa, direi, è relativa all’abolizione delle misure cautelari per il rischio di “reiterazione del reato”. Non si risolve il problema di alcuni “abusi” abrogando una norma che lascerebbe a piede libero autori di: truffe seriali, concussione, corruzione, furti, scippi, spaccio, etc. Sta alla politica trovare gli strumenti atti ad impedire possibili abusi. Rispetto ai consigli giudiziari, porsi una semplicissima domanda. Perché la professionalità di un magistrato dovrebbe essere valutata da un avvocato e da un docente universitario e non è possibile fare il contrario? Se è autoreferenziale la Magistratura, lo è lo stesso Ordine degli avvocati, così quello dei docenti universitari. Perché, dunque, due pesi e due misure? Sarei particolarmente cauto anche rispetto alla c.d. “Separazione delle funzioni”, considerata la mal celata intenzione, da parte della casta politica, di puntare, soprattutto, alla “Separazione delle carriere”, con un Pm sottoposto, in sostanza, al potere politico.