La guerra in Ucraina continua in un crescendo senza sosta. Com’era prevedibile. La domanda d’obbligo è: ci sono alternative praticabili? Ci sono, seppur difficili, e il pacifismo non è né un’illusione di anime belle né un cedimento alla prepotenza di alcuno (in questo caso della Russia di Putin).
Certamente siamo in (colpevole) ritardo. La pace, infatti, si costruisce prima che la guerra scoppi. Alla domanda che spesso si sente quando si sollevano venti di guerra su cosa fanno i pacifisti, Bertha von Suttner aveva così risposto già nel 1908: «I loro sforzi vanno nel senso di dare un altro fondamento all’intero sistema di rapporti tra i popoli. Il mondo civilizzato ha bisogno di un edificio più sicuro contro gli incendi. Ma finché esso persevera nel fare tetti di paglia e nel versare, per di più, petrolio sugli impianti di legno, esso sarà per forza preda delle fiamme: quando poi le fiamme divampano è troppo tardi». Per questo i movimenti nonviolenti e per la pace sono impegnati nella denuncia della produzione e del traffico di armi, nella vigilanza sul rispetto delle leggi nazionali e internazionali in materia (come in Italia la legge 185 del 1990 che vieta di vendere armi a Paesi in conflitto o che non rispettano i diritti umani) e hanno elaborato politiche di difesa che non si affidano solo alle armi, ma che si basano sulla capacità dei cittadini di proteggere le proprie istituzioni dai rischi di aggressioni interne o esterne attraverso modalità di difesa civile, non armata e nonviolenta. In Italia attende di essere discussa in Parlamento la legge di iniziativa popolare «Un’altra difesa è possibile», presentata dai movimenti nonviolenti che fanno parte della Rete Italiana Pace e Disarmo. È quando c’è la pace che si devono costruire gli strumenti per scongiurare la guerra. Ciò, anche nel conflitto che sta distruggendo l’Ucraina, inchioda gli Stati e i movimenti politici alle loro responsabilità: per quanto hanno fatto e per quanto hanno omesso di fare. E, in ogni caso, costituisce un insegnamento per il futuro.
Ma, ora che la guerra è scoppiata, cosa possiamo fare? C’è, al riguardo, una necessaria premessa: nelle drammatiche vicende ucraine è evidente che ci sono un aggressore e un aggredito. La Russia di Putin ha la responsabilità di aver scatenato la guerra. È necessario però capire come si è giunti a questo punto, qual è il contesto che ha favorito o innescato i processi sfociati nell’evento bellico. Comprendere non significa giustificare, ma è necessario per assumere punti di vista consapevoli della complessità dei processi storici e delle dinamiche a fondamento degli stessi e, soprattutto, per compiere le scelte necessarie a costruire percorsi di vera pace.
C’è, per noi, un punto fermo: «I popoli e le legittime istituzioni ucraine che, in questo momento, combattono contro l’invasore hanno il diritto di difendersi anche in armi, esercitando quel diritto naturale di autotutela individuale o collettiva previsto dall’articolo 51 della Carta ONU. Ai popoli e agli Stati non in guerra spetta un altro compito; quello di far cessare le ostilità, porre fine al conflitto, non invece alimentarlo. […] Non voltarsi dall’altra parte oggi vuol dire dichiararsi pronti a mediare, reclamare a gran voce ‒ l’intera comunità internazionale ‒ una conferenza internazionale per affrontare la questione ucraina, disposti a riconsiderare i rapporti geopolitici che ci hanno condotto sulla soglia della distruzione dell’intera umanità» (così G. Azzariti, La Costituzione rimossa, costituzionalismo.it). Una conferenza internazionale, dunque. Ma come favorirla e prepararla? Anzitutto contenendo l’escalation della violenza, a partire dal linguaggio (che esprime una cultura e una scelta politica). Se si sostiene che Putin è un «macellaio» è chiaro che non si può trattare con lui, lo si deve solo eliminare. L’obiettivo, in questo caso, non è fermare la guerra, ma sconfiggere la Russia, a costo di un ulteriore inasprimento della guerra fino al rischio atomico. È, al di là delle apparenze e delle parole altisonanti, un drammatico errore. L’obiettivo deve essere, invece, fermare la guerra. E, per farlo, bisogna aprire canali di contatto e negoziazione.
È il problema di sempre. C’è un bel manifesto dei quaccheri pubblicato al tempo della prima guerra mondiale che rappresenta chiaramente le due vie: quella della legittimazione della guerra, che comporta la corsa al riarmo e l’insicurezza fino alla distruzione dell’umanità, e quella della pace, fondata sulle trattative, sul disarmo e sulla risoluzione delle controversie con mezzi pacifici. Il modo in cui ci si pone nell’affrontare un conflitto ne condiziona lo sviluppo e le dinamiche. C’è un caso emblematico recente: quello del Kosovo. Lì c’erano tutte le premesse per affrontare il conflitto serbo-albanese con strumenti diversi dalla guerra: c’era, nel Kosovo, una forte resistenza nonviolenta guidata da un leader riconosciuto come Rugova e sostenuta a livello internazionale dai movimenti per la pace (fu creata anche a Pristina, da Alberto L’Abate, un’Ambasciata di Pace). La comunità internazionale avrebbe potuto e dovuto intervenire appoggiando queste forze. La scelta della NATO fu invece quella di bombardare Belgrado, con un intervento in violazione del diritto internazionale. Risultato: indipendenza del Kosovo, umiliazione della Serbia, tensione persistente in tutta l’area balcanica e vittoria di un nazionalista serbo alle ultime elezioni… Perché fu fatta quella scelta, che non era l’unica possibile? La risposta va cercata in ragioni di tipo geo-politico e di potenza, anche su pressione di quel complesso militare-industriale nei confronti del quale aveva messo in guardia lo stesso presidente degli Stati Uniti Dwight Eisenhower nel suo discorso di fine mandato, nel 1961.
L’esperienza del Kosovo dovrebbe aver insegnato qualcosa. Anche oggi dovrebbe essere chiaro a chi giova la guerra e a chi giova la pace. E soprattutto dovremmo aver imparato che una vittoria punitiva pone solo le premesse per la prossima guerra e non è nell’interesse di nessun popolo. Nell’era atomica non è più nemmeno nell’interesse dei potenti.
A costruire una prospettiva coerente con queste indicazioni sono finalizzati i contributi pubblicati in questa TALPA, finalizzati a indicare strade alternative alla guerra e a dare visibilità anche alle opzioni di resistenza civile e di obiezione di coscienza presenti sia in Ucraina che in Russia.
D’accordo! L’esempio attuale che non ammette obbiezioni da parte di nessuno è il grano che si deteriora nei depositi, appesta i vicini con gas velenosi e non riesce nemmeno a trasformarsi in denaro figuriamoci se viene portato a salvare vite umane che abbiamo tanto contribuito ad affamare speculando in tutti modi che sappiamo sui loro territori. Avevano i porti che avrebbero dovuto rendersi disponibili per le modalità attuali della nostra società pur votata alla massimo convenienza! Ma i più potenti hanno i propri diritti di Forza e chi possiede non vuole cooperare perché ha paura di essere battuto nella concorrenza. Viva la guerra? Mi sembra il gioco stupido che si faceva da RAGAZZI; qualcuno gettava un sasso per aria e gridava: ci s’acchia, s’acchia! chi si trova, si trova! Solo che allora i ragazzi erano in pochi e difficilmente qualcuno si faceva male! ora c’è una folla e moltissimi buttano i sassi. Poveri Noi