Un viaggio all’interno della Fiat, per conoscere la vita, le case, le fabbriche di una classe che non c’è più. È il sottotitolo di “Operai”, scritto da Gad Lerner, per i tipi di Feltrinelli, nel 1988. Un libro estremamente attuale, come confermano le numerose ristampe. Ad esso – alla sua genesi e al suo senso, in generale e nella vicenda politica dell’autore – sono dedicate alcune appassionate pagine del libro intervista di Gad Lerner con Elena Ciccarello che esce oggi per le Edizioni Gruppo Abele con il titolo Giornalisti da marciapiede. Per gentile concessione dell’editore le pubblichiamo di seguito. (la redazione)
Come è nato il tuo primo libro, Operai?
Chissà, forse dovrei risponderti che è nato dall’imbarazzo e dal senso di colpa per essere diventato un giornalista borghese. Dal bisogno di dimostrare a me stesso che anche se ero a L’Espresso e per la prima volta mi pagavano uno stipendio vero, io non ero cambiato: ancora pensavo che il giornalismo dovesse essere quella cosa in cui ero nato. Una missione che richiedeva di immergersi pienamente nell’ambiente proletario, fino a viverlo, e di continuare ad assumere come obiettivo prioritario il riscatto del lavoro manuale sotto padrone. Ma tutto questo ha un sapore troppo intimista. Diciamo che nel 1987 la fabbrica, la questione operaia, erano talmente dimenticate – una non notizia – da rappresentare proprio per questo ai miei occhi una notizia clamorosa.
Erano passati sette anni dall’autunno 1980, quando avevo seguito per Il Lavoro di Genova i 35 giorni di Mirafiori, la vertenza degli operai Fiat impegnati nel disperato tentativo di scongiurare una ristrutturazione aziendale che comportava per ventiquattromila di loro la cassa integrazione, anticamera dell’espulsione dalla fabbrica. L’epilogo, come è noto, fu la cosiddetta “marcia dei quarantamila” quadri (in verità furono quattro volte di meno) celebrata come suggello della rivincita padronale in una Torino che da allora in poi avrebbe cambiato volto. Ne seguirono, infatti, anni di lacerazione sociale, durante i quali decine di migliaia di lavoratori sono stati allontanati dallo stabilimento e si sono verificati diversi suicidi tra i cassaintegrati. Dilagava un clima di unilaterale esaltazione del successo padronale della Fiat. Intanto che io facevo la mia inchiesta, l’amministratore delegato Cesare Romiti rilasciava un’intervista dai toni apologetici all’allora vicedirettore di Repubblica, Giampaolo Pansa, in cui dichiarava la fine della lotta di classe e l’inutilità del sindacato. Il loro libro venne pubblicato nel 1988 da Rizzoli con il titolo Questi anni alla Fiat, e ovviamente fu un best seller, a differenza del mio che gli faceva il controcanto. Ma il tempo è galantuomo e il mio racconto delle condizioni di vita operaia dentro e fuori dalle fabbriche, dopo il divorzio fra sinistra e classe operaia, viene ancora ristampato. Quel panegirico, invece, oggi non sarebbe presentabile.
Lo scrivi nella premessa al libro: la cosiddetta marcia dei quarantamila aveva sancito la «definitiva cancellazione del logos attorno a cui s’era costituita l’identità della sinistra lungo tutto il dopoguerra: la centralità operaia».
E mi sbagliavo. Perché la sinistra politica era fin dagli albori del movimento operaio, non solo nel dopoguerra, concepita quale naturale portatrice degli interessi degli sfruttati. Per giustificare il divorzio, la fine della centralità operaia, alcuni sostenevano che quella classe sociale non esistesse più… i risultati li misuriamo ancora oggi. La sinistra italiana rinunciò a rappresentare la classe operaia. Non solo ripudiò il credo messianico di Karl Marx secondo cui gli operai, liberando se stessi, avrebbero liberato l’umanità intera, ma operò una recisione di legami addirittura più drastica rispetto ai socialdemocratici tedeschi e ai laburisti inglesi. Si cominciò a dire che Enrico Berlinguer si era sbagliato quando andò davanti ai cancelli per dire che era pronto ad appoggiare l’occupazione della fabbrica. E che la linea sindacale di resistenza era qualcosa di retrogrado. Per scrivere il libro ho girato in lungo e in largo la galassia degli stabilimenti Fiat, visitando gli impianti e poi raccogliendo, nelle case e nei paesi d’origine, molte testimonianze e storie di vita di una classe oramai abbandonata e invisibile. Non so quanto l’ufficio stampa Fiat avesse compreso le mie reali intenzioni – in fondo ero pur sempre un redattore de L’Espresso, giornale in buoni rapporti con gli Agnelli – fatto sta che mi diedero libero accesso quasi ovunque, accompagnato da Franco Sodano, un loro gentile funzionario. Spero non abbia passato dei guai in seguito, quando il capo ufficio stampa, Alberto Nicolello, trasecolò leggendo il libro. Ricordo la sua telefonata: «Ma hai scritto un libro contro di noi! E pensare che, visto l’interesse che mostravi, stavamo pensando di proporti di venire a lavorare qui».
Il libro ti è servito a superare il senso di colpa di cui parlavi?
Diciamo che mi ha rassicurato. Venne preso sul serio nel mondo sindacale e della sinistra, rinfrescò le mie vecchie consuetudini. Ancor oggi considero quel mondo una parte essenziale di me. Da ragazzino ho avuto la grande fortuna di frequentare figure affascinanti di lavoratori manuali autodidatti, divenuti intellettuali di valore. Non ho fatto l’università, quel legame con il mondo operaio-sindacale è stato la mia scuola. E così, negli anni seguenti, quando ho avuto modo di conoscere anche i padroni e i top manager – cioè la controparte –, li ho incontrati ricordandomi sempre da dove venivo, e confrontandoli con il mondo che avevo conosciuto bene. Questo mi ha consentito di saziare la mia curiosità quando instauravo amicizie con quelli che Bruno Manghi – per sfottermi – chiama sempre “i ricconi”. Il piacere di conoscerli senza appartenergli.
Hai ancora dimestichezza con gli ambienti operai?
Non mi è facile risponderti. Certo, conservo la dimestichezza dei linguaggi, non provo alcun imbarazzo nel frequentare persone rimaste a combattere con una busta paga esigua, mi appassionano le relazioni sindacali e l’organizzazione del lavoro, provo speciale rispetto per chi svolge mansioni manuali che implicano fatica fisica. E però… il cambiamento delle condizioni materiali di vita conta, eccome. Oggi sono un benestante. Potrei dirti che, sì, adesso vivo in questa bella casa a Milano, ma ringrazio il cielo di aver sperimentato l’abitare in case modestissime. È il compiacimento del parvenu, di quello che ce l’ha fatta? Al contrario, ripeto sempre a me stesso che bisogna tenersi pronti alla retrocessione, che può venire improvvisa così come l’ascesa sociale toccatami in sorte. Forse sono riflessioni che hanno poco a che fare col giornalismo. Ma è pur vero che quando scrivevo il libro Operai stavo in una soffitta di Torino prestatami da Goffredo Fofi, con il cesso sul ballatoio, e questo probabilmente aiutava il lavoro. Poi c’è il ricordo della prima casa di ringhiera in cui andai a vivere a Lambrate con alcuni amici, seguita da anni di indigenza e situazioni disagevoli. Insomma, so di poter vivere le due dimensioni. Mi piace il benessere, quando ho avuto i soldi sono stato spendaccione, mi sono tolto degli sfizi, ma conosco quell’altra vita.
In passato, il sindacalista che ho ammirato di più, credo anche il più libero nel rapporto con i padroni, è stato il segretario della Cisl di quegli anni, Pierre Carniti. Nel mondo cattolico legato alla fabbrica ho trovato persone più libere dall’ideologia. Un’altra persona che a Torino mi è stata maestra è stato il sociologo Bruno Manghi – quello dello sfottò sui ricconi – che ha rinunciato a una brillante carriera accademica per fare le scuole sindacali della Cisl, in un rapporto di coabitazione con l’esperienza operaia. Oggi, invece, ho maggior confidenza con i dirigenti della Cgil, a cominciare da Sergio Cofferati, Susanna Camusso e Maurizio Landini. Con loro sono di casa anche se sanno benissimo che sono diventato un borghese e che vado in barca con Carlo De Benedetti.
C’è ancora qualcuno che racconta quel mondo?
Direi di no. Non fa ascolti in tv e predomina una rappresentazione vittimistico-lagnosa che è sbagliatissima: la moglie dell’operaio che piange in cucina mostrando le bollette che non riesce a pagare. Bisognerebbe concentrarsi di più sul lavoro sfruttato, sulle normative ingiuste, sulla dignità negata a chi svolge mansioni subalterne. Invece pare che “sfruttamento” sia diventata una parolaccia indicibile. E guai a usare parole come “padroni”, guai a parlare di “cottimo” o tanto meno di “lotta di classe”. Un vocabolario considerato antico che invece sarebbe più che mai necessario nel racconto giornalistico contemporaneo del lavoro.
Chi sono gli operai di oggi?
Nonostante tutta l’innovazione tecnologica, l’automazione, la digitalizzazione e l’intelligenza artificiale, restano sempre almeno cinque milioni di persone in Italia adibite a svolgere lavori manuali del più vario genere sotto padrone. Aggiungetevi le loro famiglie, e fate il conto. Si tratta di un vasto proletariato – altra parola desueta ma necessaria – che quasi sempre coincide con redditi al limite o sotto la soglia di povertà. Oggi la composizione sociale di questo proletariato è una babele, il che rende difficile che fra loro si crei solidarietà, una volta avremmo detto “coscienza di classe”. Nel 2017 ho ripreso il titolo Operai per un’inchiesta televisiva in sei puntate per Rai3. Faceva impressione constatare quante lingue diverse si parlano dentro ai Cantieri navali di Monfalcone, dove operano a fisarmonica centinaia di ditte in appalto e in subappalto. Oppure, visitando di notte l’Ospedale civico di Palermo, scoprire che tra gli operatori sanitari e gli infermieri, che in quel momento svolgevano lo stesso identico lavoro, ce n’erano assunti a tempo indeterminato, col contratto a termine, con la partita Iva. Naturalmente con forti differenze retributive, alcuni garantiti quanto a ferie e malattia, altri no. Potrei continuare all’infinito, nel tempo della precarizzazione del lavoro generalizzata. Ritrovare un’identità comune, ovvero un senso di comunità incentrato sulla dignità del lavoro, è l’impresa difficile che ha di fronte chi ancora vuole battersi per la giustizia sociale.