La guerra seguita all’invasione russa dell’Ucraina è giunta al settantanovesimo giorno. Del suo dipanarsi, del susseguirsi degli eventi, delle trasformazioni, delle strumentalizzazioni e degli effetti del conflitto abbiamo dato conto in questi mesi con decine di articoli. Ne proponiamo ora, ai fini di uno sguardo d’insieme, una selezione, ordinata in sequenza temporale. A futura memoria e per prepararci a una fase che sarà complessa e difficile. Qui l’introduzione di Livio Pepino. (la redazione)
Il 28 gennaio di quest’anno, quasi un mese prima dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, Domenico Gallo scriveva su questo sito: «Nell’ultima settimana si è ulteriormente accresciuta la tensione fra i due blocchi politico militari che si fronteggiano intorno alla crisi dell’Ucraina. La NATO ha incrementato ulteriormente la pressione militare. Gli Stati Uniti hanno preannunciato l’invio di un contingente di 8.500 soldati nei paesi baltici, la NATO ha annunciato che gli alleati stanno inviando ulteriori assetti navali nel mar Baltico ed aerei da combattimento per rinforzare il dispositivo militare ai confini della Russia, mentre USA e Regno Unito hanno rimpatriato una parte del proprio personale e stanno rifornendo l’Ucraina con tonnellate di materiale bellico. A sua volta la Russia ha intrapreso manovre militari in Crimea che interagiscono con quelle già in corso in Bielorussia e ai confini nord orientali dell’Ucraina. In questo contesto Biden e Putin si sono scambiati minacce e avvertimenti con toni sempre più esacerbati. […] I due blocchi militari si fronteggiano e mostrano le armi, cercando ognuno di piegare l’avversario, senza riuscirci. Lo stallo è evidente, le crisi politiche non si risolvono schierando i carri armati ma con la politica. Insistere sul confronto militare porta la tensione a livelli insostenibili. Una provocazione può arrivare da qualunque parte sul terreno e fare da detonatore a un conflitto armato che provocherebbe una catastrofe umanitaria e una crisi energetica ed economica di enormi e incontrollabili proporzioni». E ancora: «Occorre condurre con serietà una trattativa per arrivare a condizioni che garantiscano la Russia dalla preoccupazione di un accerchiamento e consentano all’Ucraina di arrivare a una condizione di tutela della sua autonomia nazionale, partendo dall’attuazione dell’accordo di Minsk. La sicurezza collettiva comporta che ciascuna parte si faccia carico della sicurezza dell’altra. […] È importante mandare un segnale distensivo e farlo subito. Prima che sia troppo tardi» (https://volerelaluna.it/mondo/2022/01/28/impedire-il-ritorno-della-guerra/).
Gli auspicati segnali distensivi non ci sono stati e si è arrivati alla guerra con le conseguenze tragiche che vediamo ogni giorno. Una cosa, peraltro, è certa: l’invasione russa e la conseguente guerra non sono state un fatto inatteso. Sono state l’esito previsto ed evitabile di una crisi risalente e ben nota. Di fronte a quella crisi e agli inviti pressanti ad intervenire sul piano diplomatico per evitare il peggio, chi oggi pontifica sulla necessità di far parlare le armi come unica strada per arrivare alla pace non ha mosso un dito né pronunciato parola. Ciò la dice lunga sui suoi reali obiettivi e interessi.
La guerra è stata determinata (o, quantomeno, favorita) della colpevole inerzia dei più. La criminale forzatura di Putin e l’invasione dell’Ucraina sono state l’anello finale di una catena di fatti e omissioni che non possono essere ignorati o rimossi. Ciò non attenua la gravità dell’invasione e non diminuisce le responsabilità del governo russo ma va tenuto presente se si vuole, seppur tardivamente, operare per un cessate il fuoco immediato e, poi, per una pace solida e duratura.
Gli effetti di due mesi e mezzo di guerra sono sotto gli occhi di tutti: morti, distruzioni, violenze, stupri, milioni di profughi, fame, sete, orrore… Ancora una volta, un’inutile strage. Come se le lezioni del secolo breve non avessero insegnato nulla. Intanto le possibilità di avviare una trattativa tra le parti per arrestare la guerra si sono allontanate e si allontanano ogni giorno di più. Il confitto ha da tempo superato l’iniziale (apparente) dimensione locale per trasformarsi in guerra a tutto campo con la partecipazione indiretta (e talora diretta) anche della NATO e degli Stati Uniti d’America. La posta in gioco non è più (solo) la sorte dell’Ucraina – abbandonata al ruolo di vittima sacrificale – ma la ridefinizione dei rapporti tra le grandi potenze e della loro sfera di influenza (come dimostra anche la divisione nel voto nell’assemblea delle Nazioni Unite sulla condanna dell’invasione russa). Il termine pace è ormai usato dai più in modo solo strumentale: quello che tutte le forze in campo si pongono come obiettivo non è la pace ma “la vittoria”, a qualunque costo (ovviamente per la popolazione dell’Ucraina). La sola voce istituzionale ferma e coerente contro la guerra è quella del papa di Roma, non a caso silenziata, ignorata, talora derisa.
La situazione internazionale non è stata senza conseguenze sul nostro Paese, che ha subito – e sta subendo – un’ulteriore involuzione autoritaria e nazionalista. L’Italia è entrata in guerra, in aperto contrasto con l’art. 11 della Carta fondamentale, ché non altro significa, al di là degli artifici verbali, fornire armi a uno degli stati belligeranti. E, a seguire, ci sono stati il totale appiattimento del governo e delle massime istituzioni sulle posizioni della NATO e degli Stati Uniti con rinuncia ad ogni, ancorché minima, iniziativa autonoma (al pari dei peggiori governi degli anni Cinquanta); la definitiva emarginazione del Parlamento, che ha votato quasi all’unanimità l’invio delle armi al governo ucraino (e, dunque, la partecipazione alla guerra) senza neppur conoscerne la natura e le caratteristiche; lo scivolamento dell’informazione (istituzionale e dei grandi giornali scritti e parlati) in comunicazione embedded o di regime, con punte talora grottesche; la criminalizzazione delle voci dissenzienti o anche solo dubbiose, bollate come “intelligenza con il nemico” (ed invitate nei talk show televisivi sol per essere dileggiate dalla maggioranza dei presenti); una rilettura della storia nazionale, a cominciare dalla Resistenza, con forzature inaudite in chiave nazionalista e bellicista (accantonando il senso profondo e autentico dell’antifascismo); il definitivo distacco del Partito democratico dalle sue radici culturali (quelle marxiste e quelle del cattolicesimo sociale) e la fine della sua – da tempo evanescente – collocazione a sinistra; il venir meno delle differenze, sulle grandi questioni, tra destra e sinistra parlamentare (accomunate nel sostegno al governo sul tema della guerra con qualche distinguo solo da parte della destra, non certo per autentica vocazione pacifista ma per risalenti e inconfessabili rapporti con la Russia e il suo governo); la divisione, sulla questione delle armi, anche di quel che resta della sinistra radicale, sia a livello personale che di organizzazioni.
A ciò dedichiamo ora un’apposita TALPA a cui se ne affiancherà, nel giro di pochi giorni, un’altra dedicata a “Ucraina. Ci sono alternative all’escalation della guerra?”.