1.
Le definizioni di destra e di sinistra per indicare due schieramenti politici contrapposti, sono state utilizzate per la prima volta nella fase iniziale della Rivoluzione francese, durante la Convenzione Nazionale, l’assemblea incaricata di redigere la costituzione nel 1792. Da allora rappresentano la concretizzazione storica assunta da due orientamenti che caratterizzano da sempre i rapporti sociali: quello di chi ritiene che le diseguaglianze tra gli esseri umani siano un dato naturale non modificabile (la destra), e quello di chi ritiene che abbiano un’origine sociale e, quindi, possano essere rimosse, o quanto meno attenuate (la sinistra). Nel libro Destra e sinistra, pubblicato nel 1984, Norberto Bobbio ha scritto: «Gli uomini sono tra loro tanto uguali, quanto diseguali. Sono uguali per certi aspetti, diseguali per altri […] sono eguali se si considerano come genus e li si confronta come genus a un genus diverso come quello degli altri animali […] sono diseguali tra loro, se li si considera uti singuli, cioè prendendoli uno per uno. […] si possono chiamare correttamente egualitari coloro che, pur non ignorando che gli uomini sono tanto eguali che diseguali, danno maggiore importanza, per giudicarli e per attribuir loro diritti e doveri, a ciò che li rende uguali piuttosto che a ciò che li rende diseguali; inegualitari, coloro che, partendo dalla stessa constatazione, danno maggiore importanza, per lo stesso scopo, a ciò che li rende diseguali piuttosto che a ciò che li rende eguali […]. Ma è proprio il contrasto tra queste scelte ultime che serve molto bene, a mio parere, a contrassegnare i due opposti schieramenti che siamo abituati ormai per lunga tradizione a chiamare sinistra e destra, da un lato il popolo di chi ritiene che gli uomini siano più eguali che diseguali, dall’altro il popolo di chi ritiene che siano più diseguali che uguali. A questo contrasto di scelte ultime si accompagna anche una diversa valutazione del rapporto tra eguaglianza-diseguaglianza naturale e eguaglianza-diseguaglianza sociale. L’egualitario parte dalla convinzione che la maggior parte delle diseguaglianze che lo indignano, e vorrebbe far sparire, sono sociali e, in quanto tali, eliminabili; l’inegualitario, invece, parte dalla convinzione opposta, che siano naturali e, in quanto tali, ineliminabili» (N. Bobbio, Destra e sinistra, Donzelli, ed. 1994, pp. 74-75).
Negli anni in cui la contrapposizione tra egualitari e inegualitari assumeva la connotazione storica della contrapposizione tra sinistra e destra, nei Paesi dell’Europa nord-occidentale e negli Stati Uniti si andava affermando il modo di produzione industriale, che è stato valutato come un progresso epocale sia dalla destra, sia dalla sinistra, perché, grazie ai progressi scientifici e tecnologici, ha accresciuto in maniera straordinaria la produzione di merci, anche se i contadini espulsi dalle campagne e diventati operai nelle fabbriche e nelle miniere non ne hanno tratto beneficio e, anzi, le loro condizioni di vita sono peggiorate (si vedano, almeno, F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, 1845 e G Orwell, La strada di Wigan Pier, 1937). A partire da questa comune valutazione positiva della crescita economica e, quindi, della finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci, lo scontro tra i due schieramenti politici si è incentrato fondamentalmente su quale fosse il modello di società più adeguato a far crescere l’economia: una società che promuove l’eguaglianza suddividendo equamente i profitti della crescita tra le classi sociali, o una società che lascia al mercato il compito di suddividerli, favorendo in questo modo i più ricchi e accentuando le diseguaglianze sociali? La scelta più equa amplia la quota dei profitti destinata ai consumi a scapito della quota destinata agli investimenti. La scelta più iniqua riduce la quota dei profitti destinata ai consumi e consente di accrescere la quota destinabile agli investimenti. Se il sistema dei valori che accomuna la destra e la sinistra è l’identificazione del benessere col possesso di cose, per cui più se ne producono e meglio si sta, l’economia che suddivide iniquamente i profitti può investire di più e far crescere la produzione più dell’economia che li suddivide equamente e può investire di meno. Condividendo con la destra la finalizzazione dell’economia alla crescita, la sinistra era destinata a perdere. E ha perso. La sua sconfitta è stata sancita dell’abbattimento del muro di Berlino, il 9 novembre 1989, e dalle file interminabili di Trabant su cui il giorno successivo i tedeschi dell’est sono andati ad appiccicare i nasi sulle vetrine dei negozi della Germania occidentale, stracarichi di merci tecnologicamente evolute introvabili nei negozi della Germania orientale.
Tuttavia la sconfitta della sinistra non è stata la sconfitta degli ideali di uguaglianza di cui si è fatta interprete per appena due secoli e mezzo, ma del modo in cui li ha interpretati. Anche se il modello di società che ha realizzato a partire dalla rivoluzione bolscevica del 1917 è stato presentato come alternativa radicale alla società capitalista, in realtà era un modo diverso, politicamente e socialmente, di gestire lo stesso sistema economico e produttivo. Nel 1920 Lenin definì così il comunismo: «Il potere sovietico più l’elettrificazione di tutto il Paese». E più volte espresse la sua ammirazione per il taylorismo, l’organizzazione scientifica della produzione industriale che nelle officine automobilistiche della Ford aveva incrementato straordinariamente la produttività (R. Linhart, Lenin i contadini e Taylor, Coines, 1970). Il socialismo reale instaurato in Unione Sovietica presumeva di poter realizzare con maggiore efficienza gli stessi obbiettivi del capitalismo, affidando allo Stato e alla programmazione centralizzata il ruolo che nella società capitalista era affidato al mercato e sostituendo il pluralismo politico della democrazia parlamentare con il partito unico e i soviet.
La sconfitta di questo progetto ha frammentato la sinistra. La parte maggioritaria ha maturato la convinzione che la democrazia liberale e il mercato costituiscano il contesto politico ideale per finalizzare l’economia alla crescita della produzione di merci e si è limitata a proporre, seppure con scarso successo, di attenuare le conseguenze negative che ne derivano sui lavoratori: licenziamenti, riduzione delle retribuzioni e dei diritti sindacali. La parte minoritaria, non avendo il consenso necessario a incidere sulle scelte politiche, non ha potuto far di meglio che denunciare questa involuzione sociale favorita dall’oggettivo spostamento a destra della parte maggioritaria della sinistra. Intanto la crescita economica, pur rallentando i suoi tassi d’incremento, ha continuato a superare in misura sempre maggiore i limiti della sostenibilità ambientale, ad accrescere le diseguaglianze tra le classi sociali e tra i popoli, ad acutizzare le tensioni internazionali per il controllo delle risorse materiali ed energetiche di cui ha bisogno.
2.
Il progetto politico della decrescita è culturalmente alternativo sia alla destra sia alla sinistra, perché sono due varianti dello stesso sistema economico e produttivo che finalizza l’economia alla crescita della produzione di merci e misura il benessere col prodotto interno lordo. Un indicatore che, risultando dalla somma dei prezzi delle merci a uso finale vendute nel corso di un anno, include sia le merci utili, sia le merci inutili e quelle dannose, ma non può prendere in considerazione i beni autoprodotti e i servizi autogestiti, o scambiati sotto forma di dono reciproco del tempo, anche se migliorano il benessere consolidando i legami sociali e riducendo la dipendenza assoluta dal mercato, perché non comportano trasferimenti di denaro. A differenza della destra e della sinistra, la decrescita, oltre a sottolineare l’inconsistenza di questo parametro come indicatore di benessere, propone che la politica economica e industriale non venga più finalizzata alla crescita della produzione di merci, ma a rientrare nei limiti della sostenibilità ambientale, riducendo selettivamente gli sprechi (di energia, di cibo, di acqua, di materiali riutilizzabili contenuti negli oggetti dismessi), eliminando la produzione di merci dannose (fonti fossili di energia, armi, sostanze di sintesi chimica non biodegradabili: plastica e sostanze tossiche), sospendendo l’impermeabilizzazione dei suoli e avviando ampi processi di rinaturalizzazione e riforestazione, abolendo gli allevamenti industriali, riducendo gli orari di lavoro, incentivando l’autoproduzione e gli scambi non mercantili fondati sul dono reciproco del tempo. La decrescita selettiva e governata della produzione di merci non è soltanto la strada obbligata per rientrare nei limiti della sostenibilità ambientale, ma implica una profonda rivoluzione culturale basata sulla consapevolezza scientifica dei legami di reciproca interdipendenza che uniscono tutte le specie viventi tra loro e con i fattori abiotici dei luoghi in cui vivono. Questa consapevolezza consente di capire la potenzialità autolesionistica insita nella violenza, legittimata dall’antropocentrismo, che la specie umana esercita nei confronti delle altre specie viventi e degli ecosistemi. Come con un’incredibile preveggenza aveva avvertito due secoli fa Giacomo Leopardi nell’operetta morale intitolata Dialogo di un folletto e di uno gnomo. E come la specie umana ha iniziato a verificare in questi anni con la pandemia del Covid 19.
Il passaggio della finalizzazione dell’economia dalla crescita della produzione di merci al rientro nei limiti della sostenibilità ambientale attraverso la decrescita, non è soltanto una scelta di politica economica, ma ha una valenza etica, che corrisponde al secondo imperativo categorico della morale indicato da Kant nel libro Fondazione della metafisica dei costumi (1785): «Agisci in modo da trattare sempre l’umanità, così nella tua persona come nella persona di ogni altro, sempre come un fine, e mai come un mezzo». Nell’economia che valuta le sue prestazioni con la crescita del prodotto interno lordo, gli esseri umani sono il mezzo utilizzato per raggiungere quel fine. La vita degli esseri umani è stata subordinata a quel fine, come dimostra la storia del modo di produzione industriale: dallo sfruttamento del lavoro dei bambini, allo schiavismo, alle migrazioni forzate, alle repressioni coloniali, ai morti sul lavoro. Nella scelta di armonizzare le attività produttive con la sostenibilità ambientale, il fine del lavoro è la conciliazione del benessere degli esseri umani con il rispetto della vita delle altre specie viventi, in base alla consapevolezza che ogni atto di sopraffazione esercitato dalla specie umana sulle altre, o dei forti sui deboli all’interno della specie umana, può fornire vantaggi temporanei, ma comporta una rottura degli equilibri tra tutte le forme di vita che, in appena due secoli e mezzo, è arrivata a minacciare la sua stessa sopravvivenza.
Anche se non può essere considerata una componente della sinistra, la decrescita si inserisce nel sistema dei valori che la sinistra ha interpretato, in maniera perdente, negli ultimi 250 anni della storia. Per riportare le parole di Norberto Bobbio, si colloca dalla parte «di chi ritiene che gli uomini siano più eguali che diseguali» e «parte dalla convinzione che la maggior parte delle diseguaglianze che lo indignano, e vorrebbe far sparire, sono sociali e, in quanto tali, eliminabili». La condivisione di questi valori, integrati dal riconoscimento del valore in sé della vita di tutte le specie viventi e dal rispetto della loro autonomia, la rende radicalmente alternativa non solo alla destra, come si è configurata storicamente a partire dalla rivoluzione industriale, ma anche alla sua matrice filosofica: «al popolo di coloro che, pur non ignorando che gli uomini sono tanto eguali che diseguali, danno maggiore importanza, per giudicarli e per attribuir loro diritti e doveri […] a ciò che li rende diseguali piuttosto che a ciò che li rende eguali», a partire dalla convinzione che la maggior parte delle diseguaglianze «siano naturali e, in quanto tali, ineliminabili».
La decrescita è la concretizzazione storica dell’egualitarismo dopo la sconfitta dell’interpretazione che ne ha dato la sinistra. Non è una proposta di gestire in una maniera meno devastante ecologicamente un sistema economico e produttivo che ha già superato la sostenibilità ambientale e non può non peggiorare progressivamente la situazione. È la prefigurazione di una società alternativa: sostenibile, equa e solidale. Non ha niente in comune con la destra e non è una corrente della sinistra. Il fatto che non si riconosca né con la destra, né con la sinistra, non significa che sia equidistante tra le due varianti assunte dall’ideologia della crescita. Vuol dire che si colloca in una dimensione culturale e politica diversa dalla loro. Se si vogliono indicare precedenti storici di riferimento, si possono probabilmente individuare nel socialismo utopistico, nelle società di mutuo soccorso, nel socialismo liberale, nella visione imprenditoriale e politica di Adriano Olivetti. Tutte esperienze sconfitte che, in periodi storici successivi, hanno perseguito e per brevi periodi realizzato modalità di rapporti sociali alternativi a quelli vincenti del modo di produzione industriale. Oggi, che questo sistema economico e produttivo ha raggiunto il suo capolinea, possono offrire delle indicazioni a chi vuole evitare, contro ogni ragionevole previsione, che la sua fine coincida con la fine della storia.
Scrisse Murray Bookchin: “Non è possibile ‘convincere’ il capitalismo a limitare la crescita esattamente come non è possibile ‘persuadere’ un essere umano a smettere di respirare.”
Se Bookchin aveva ragione, la società della decrescita non può’ essere capitalista; quindi viene da chiedersi qual è il modello socio economico coerente con la decrescita? O almeno quali sarebbero le caratteristiche della società di transizione che avvii la decrescita?