Le contraddizioni della guerra e le vie della pace

image_pdfimage_print

Siamo alla quarta settimana di guerra. La Russia è un Paese invasore e l’Ucraina è un Paese invaso. Gli ucraini hanno il diritto alla resistenza: a loro la scelta di quale tipo. Ma alla comunità internazionale spetta l’imprescindibile compito di cercare una soluzione politica per evitare l’escalation del conflitto. Dialogo e mediazione degli interessi è ciò che chiamiamo “politica” ed è quella di cui abbiamo bisogno se vogliamo risparmiare altre vittime innocenti. Perché la vera notizia sono le migliaia di vittime civili. Se li vogliamo aiutare dobbiamo fare di tutto per fermare la guerra e non lo possiamo fare se partecipiamo al conflitto, perché il passo successo è la terza guerra mondiale. Non significa non condannare l’oligarca Putin e il disegno imperialista che ne muove gli istinti più profondi. Dobbiamo lavorare tutti per rafforzare la voce della richiesta di tregua e trattare, con l’obiettivo di fermare la guerra che in questo momento colpisce soprattutto la popolazione ucraina. Non possiamo accettare che l’umanità sia incapace di ragionare e di comprendere che non ci potranno mai essere vincitori in un conflitto globale di tipo atomico. 

Purtroppo, invece, l’Italia e l’Europa hanno preferito la soluzione militare (nonostante la stragrande maggioranza della nostra popolazione sia contraria, anche se sottoposta quotidianamente a una costante campagna di arruolamento attraverso i media). Inviando aiuti militari abbiamo perso la possibilità di essere al centro della via diplomatica. Ma soprattutto allunghiamo l’agonia della popolazione ucraina che non potrà vincere la guerra contro la Russia. Un altro gigantesco quesito va affrontato: se è giusto inviare armi all’Ucraina, allora sarà corretto fornire armi a ogni popolo aggredito, cominciando ad esempio dai curdi e dai palestinesi? La lista rischia di essere lunga e di svelare profonde ipocrisie. Il voto non unanime all’assemblea delle Nazioni unite di condanna all’invasione russa ci dice tra l’altro che la Russia non è isolata sul piano internazionale. Tra coloro che hanno votato contro e si sono astenuti (5 e 34) si sono, ad esempio, paesi come la Cina e l’India. L’escalation del conflitto è dietro l’angolo. 

L’Europa non è stata capace di affrontare le cause della crisi. Per questo è condannata ad affrontarne le conseguenze. Un’Europa senza visione e senza memoria ha finito per essere dominata in politica estera dagli interessi di tre oligarchie: il complesso militare-industriale; il complesso del gas, del petrolio e delle miniere; e il complesso bancario-immobiliare. Le conseguenze sono sotto i nostri occhi.

Corre un brivido lungo la schiena nel leggere le posizioni e i commenti di molte firme dei nostri principali quotidiani. Servono davvero la retorica dei buoni e dei cattivi, la polarizzazione e l’isterismo per affrontare la complessità della situazione che abbiamo davanti, con il suo grumo di interessi e il suo carico di rischi per tutta l’umanità? Se nel nostro Paese chi manifesta per la pace, la giustizia sociale e la giustizia ecologica è considerato “putiniano” e descritto come tale dai media, allora il declino della nostra democrazia, messa in crisi da disuguaglianze, povertà, corruzione, mafie, pandemia e assenza di partecipazione, sarà inevitabile. Da quando è scoppiato il conflitto è cominciata una campagna di mobilitazione bellica organizzata dalla comunicazione che, inneggiando all’acquisto di armi e massacrando chiunque dissenta, ha lo scopo di semplificare in buoni e cattivi il contesto dinanzi a noi. In realtà siamo parte di quel contesto e dividere il mondo in buoni e cattivi, oltre che sbagliato e non vero, ci porta dritti dritti verso l’escalation del conflitto che ha un inevitabile esito viste, le forze in campo: la guerra mondiale. Stupisce, spaventa ed è profondamente sbagliato il linguaggio politico usato in queste settimane nel nostro Paese. Se la maggioranza del Parlamento usa il linguaggio della guerra, contribuendo a dividere l’umanità in due, da una parte il male e dall’altra il bene, mentre il dissenso non è tollerato perché “giova al nemico”, allora siamo in serio pericolo perché gli spazi del pensiero e della complessità sono finiti e con esso finisce la democrazia.

Intanto la spesa mondiale per l’acquisto di armi è, da anni, in continuo e costante aumento. Secondo i dati dell’Istituto di studi sulla pace di Stoccolma (Sipri) sono duemila i miliardi di dollari spesi. Gli Stati Uniti sono il paese più armato, con 766 miliardi di dollari “investiti”. A seguire Cina, con quasi 245 miliardi, India con 73, Russia con oltre 66 miliardi, Regno Unito con più di 58 miliardi, Arabia Saudita con 55 miliardi, e così via. In Europa dal 2019 la spesa è cresciuta del 4 per cento, nonostante la pandemia. Anche nell’Europa orientale è aumentata del 3,4 per cento. Dal rapporto di Sipri apprendiamo che i paesi membri della Nato sono tra i maggiori acquirenti di armi con più di 1103 miliardi, circa il 56 per cento della spesa globale. L’Italia, che ripudia la guerra in Costituzione, è al quinto posto in Europa per spesa in armi e all’undicesimo a livello globale. Anche quest’anno, più che in passato, cresce l’investimento nel comparto militare. Il 9 marzo scorso la Camera ha approvato un ordine del giorno al decreto-legge Ucraina che prevede l’incremento delle spese militari al 2 per cento del Pil, impegnando il governo italiano a inviare armi a Kiev. Siamo passati da 25 a 38 miliardi: 104 milioni di euro al giorno.

A niente sono servite le mobilitazioni e gli appelli della Global campaign on military spending che circa un anno fa aveva lanciato le Giornate globali di azione sulle spese militari, riprese in Italia dalla Rete pace e disarmo, per chiedere una riduzione drastica delle spese militari. L’obiettivo era ed è quello di investire la parte dei fondi tagliati alle armi in risorse per i vaccini, per l’istruzione, per la lotta alle disuguaglianze, per il collasso climatico, i rifugiati ambientali. Investimenti per la vita e non per strumenti di morte. Perché la difesa e la sicurezza dipendono innanzitutto dalla qualità della democrazia, dall’effettivo esercizio dei propri diritti, dalla partecipazione dei cittadini, dall’accesso alle risorse, dagli investimenti nella ricerca, nella cultura, nella sanità pubblica e nella prevenzione. Senza equità sociale e sostenibilità ambientale non c’è futuro per gli umani. Riconvertire le nostre attività produttive e la nostra filiera energetica, riducendo i consumi per rientrare nei limiti e nelle capacità di autorigenerazione e autorganizzazione della Terra, è l’unica strada per rimettere insieme il diritto al lavoro con il diritto alla salute. Sono le priorità della società che definiscono il percorso della sicurezza e della difesa, non gli interessi delle lobby. Ma la pace e la democrazia non sono un affare per il comparto militare-industriale né per coloro che sostenendolo ne traggano un personale vantaggio.

In Italia il richiamo della guerra e le necessità del complesso militare-industriale stanno cancellando qualsiasi speranza di utilizzare davvero i soldi del Piano nazionale di ripresa e resilienza  (PNRR) per equità sociale e sostenibilità ambientale. Lo stato di emergenza dichiarato dal governo Draghi stabilisce, in nome della guerra e della sicurezza, che è necessario aumentare le estrazioni nazionali di gas, insistere sull’uso del carbone, investire in nuovi rigassificatori e così via. Addio neutralità climatica, multilateralismo e salute pubblica. A poco serve la retorica secondo la quale avremo bisogno di scaldarci d’inverno e che quindi la giustizia climatica può aspettare. Se chi siede al governo avesse continuato a investire in impianti di energie rinnovabili come nel triennio 2010-2013 l’Italia disporrebbe oggi di 60GW di rinnovabili in più, che significano 18 miliardi di metri cubi di gas in meno (circa due terzi di quello che importiamo dalla Russia). Di chi sono le responsabilità? Se si vuole costruire la pace parlamento e governo dovrebbero puntare su un nuovo programma di politiche energetiche, investendo su rinnovabili, idrogeno verde ed eco-sufficienza, coinvolgendo la cittadinanza in questa sfida per il lavoro, la salute e la giustizia ecologica.

Qualche giorno fa il segretario generale delle Nazioni unite, Antonio Guterres, commentando l’ultimo rapporto del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc), ha denunciato come il ricorso alle fonti fossili e l’attuale mix energetico sia fallimentare, esponendoci al rischio di shock geopolitici. Ha aggiunto: «La rinuncia degli Stati a una leadership climatica è criminale. Ogni ulteriore ritardo significa morte. I più grandi inquinatori del mondo sono colpevoli di aver incendiato la nostra unica casa. Ovunque c’è gente ansiosa e arrabbiata. Lo sono anch’io. Ora è il momento di trasformare la rabbia in azione. Ogni frazione di grado conta, ogni voce può fare la differenza. E ogni secondo conta» (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2022/03/17/clima-ogni-ulteriore-ritardo-significa-morte/).

Bisogna dare forza e gambe alla stragrande maggioranza – a cui non viene data voce – che in Italia, in Europa e nel mondo non vuole la guerra e rappresenta l’unica opzione possibile che abbiamo per sopravvivere e convivere come specie vivente su questo pianeta: pace con giustizia sociale, ambientale ed ecologica. Abbiamo urgente bisogno di rappresentare questo punto di vista e non quello di chi, in maniera irresponsabile, soffia sul fuoco della catastrofe. Per ego, interessi o stupidaggine non cambia.

Gli autori

Giuseppe De Marzo

Giuseppe De Marzo, attivista, economista, giornalista e scrittore, lavora da anni nelle reti sociali, nei movimenti italiani e in America Latina. È attualmente responsabile nazionale delle politiche sociali di Libera e coordinatore nazionale della Rete dei Numeri pari.

Guarda gli altri post di:

2 Comments on “Le contraddizioni della guerra e le vie della pace”

  1. Tutto giustissimo ma mi piacerebbe che alla fine di questi articoli ci fosse anche una proposta fattiva, una indicazione di cosa fare….possibilmente che non sia il solito “aprire un tavolo, manifestare con le bandierine , ecc ecc”. Servono proposte pratiche, applicabili da subito e una di queste è senz’altro la disobbedienza civile. Grazie.

    1. esiste la possibilita – prevista dal regolamento dell ONU – di aprire un tavolo di sicurezza per l emergenza Ucraina e tenerlo aperto fin quando non si trova una soluzione (l ho letto in inglese non ricordo i termini esatti, sorry)

      di questo, nei media, nemmeno l ombra. del resto gli usa hanno sin dall inizio escluso qualsiasi accordo di pace:
      i principi democratici devono vincere, non esistono compromessi su questo. del resto non dai del “macellaio”se hai intenzione di trovare un intesa diplomatica.

      tradotto:detronizzare putin, mettere all angolo la russia, “staccare” l UE dalla dipendenza dal gas russo
      (sono anni che gli usa si battono contro il nordstream 2).

      l ucraina temo sia solo una pedina tra questa partita tra giganti.

      il confine tra il massiccio aiuto militare, di intelligence, di finanziamenti e l entrata in guerra della nato é piuttosto labile.

      soprende, non solo gli addetti ai lavori, che un paese molto povero come l ucraina sia in grado di resistere all esercito russo. salvo credere alla favola delle persone civili, impaurite e inesperte, che difendono la “democrazia” con improvvisate bottiglie di molotov e sacchi di sabbia contro carri armati contro un esercito tra i piu forti al mondo.

      nella narrazione ci si é spinti troppo in lá. le immagini di distruzione e morte (che ci sono in tutte le guerre ma che vediamo solo in questa) fanno effetto. non si puo tornare indietro… .

Comments are closed.