Il “caso L’Espresso” e la compravendita dell’informazione

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La vendita da parte del gruppo Gedi del settimanale L’Espresso ci racconta diverse verità. Sullo sfondo si staglia la fragilità italiana, dove di editori puri – con prevalente investimenti nel settore – sono un’eccezione, non la regola. La stessa transizione dal vecchio gruppo della famiglia De Benedetti alla Exor di John Elkann nel dicembre del 2019 fu una conferma di un’antica tendenza.

Almeno un paio di verità sembrano buone. Lo sciopero indetto dal comitato di redazione (ora in trattativa con il management) è stato rilevante e non scontato. Come forte e coraggiosa è apparsa la scelta dell’ex direttore del periodico Marco Damilano di rimettere il suo mandato con una lettera di commiato rivolta alle lettrici e ai lettori.

Sul nuovo patron Danilo Iervolino, editore di una società specializzata in informazione finanziaria (Bfc media: da Cosmo a Forbes ) e fondatore a suo tempo dell’università telematica Pegaso ceduta al fondo Cvc, il giudizio non va precipitato. Non fa notizia ormai il giro tra varie caselle politiche, perché così purtroppo fan tutti. Attendiamo i fatti. Tanto più che vi è la promessa di non toccare l’organico, ipotesi resa piuttosto vaga dall’annunciato spostamento – se confermato – della sede da Roma a Milano.

Poi cominciano i guai. E un pessimo episodio già fornisce un brutto indizio. A dicembre scorso, infatti, l’ottava sezione del Tribunale civile di Napoli ha rigettato (in primo grado) la domanda risarcitoria pari a 38 milioni di euro avanzata dal citato imprenditore contro i giornalisti Nello Trocchia e Corrado Zunino proprio del gruppo Espresso per un’inchiesta su Pegaso. Insomma, il vizio del ricorso alle querele temerarie, contestate peraltro dall’Europa, già sporca il quadro.

Inquadriamo brevemente, però, una vicenda così emblematica in un contesto storico. L’Espresso non è solo una testata, bensì un vero e proprio simbolo. Un ipertesto. Nato nel 1955 e caratterizzato per anni dai suoi fogli-lenzuolo densi di novità e di primizie coraggiose, il settimanale fondato da Arrigo Benedetti ed Eugenio Scalfari cui si aggiunse Carlo Caracciolo aprì una nuova era della cultura mediale italiana. Divenne un emblema, un riferimento di un giornalismo innovativo, meno paludato, laico, moderno. Accompagnò, infatti, la crescita della coscienza e del senso comune di un paese chiuso in un moralismo farisaico e in una contrapposizione politica che rendeva separate pure le fonti informative. I telegiornali della Rai e l’Unità o Paese Sera erano mondi separati. Il cosiddetto fattore K imperava. Insomma, nacquero uno stile e un metodo di inchiesta che assunsero il ruolo di capiscuola. Senza quella ventata, molto di ciò che accadde negli anni successivi non sarebbe forse successo.

Le indagini sul potere e contro il potere lasciarono segni persino clamorosi, aprendo ante litteram la stagione di mani pulite (capitale corrotta, nazione infetta: chi potrebbe dimenticare), fino alle dimissioni di un presidente della repubblica. Quante lotte promanavano dalle pagine del giornale disegnato con un formato più classico, anche negli anni 80 e 90 del secolo scorso: l’antiproibizionismo, la richiesta di legalizzare le droghe leggere, il pluralismo dell’informazione, le tematiche ambientali ancora neglette, la critica ferma delle esternazioni di Francesco Cossiga, il disvelamento di Gladio. E non solo. Non sempre si è stati d’accordo. Anzi, da lì venne una spinta notevole al superamento anzitempo del nome comunista. Ma senza dubbio si è trattato di una meta-testata, termometro e fotografia delle vicende italiane.

La vendita, di cui si sussurrava da settimane e per un po’ negata dalla proprietà, è arrivata con glaciale annuncio social. Al di là dell’esito prossimo venturo, siamo di fronte a una sorta di colpo d’inizio dell’ultima sequenza della carta stampata per come l’abbiamo conosciuta. C’è sempre un avvenimento che rappresenta un sintomo di qualcosa in incubazione: immanente e imminente.

La crisi dei giornali, che tocchiamo con le mani con un irraggiungibile potenziale cognitivo, sta arrivando alle tappe conclusive della parabola. Gli studiosi stimano attorno al 2030 l’ora del trapasso. Tra l’altro, nel 2032 si concluderà pure l’avventura delle frequenze digitali terrestri, di cui si sente il chiasso mercantile del cambio dei televisori e dei decoder. Chissà. Non sottovalutiamo i presagi. Dopo impererà l’on line, relegando le versioni scritte a pamphlet sofisticati e costosi per un pubblico dotato di capacità di spesa. La televisione si trasformerà. Insomma, un profondo cambio di paradigma. Via via la società dell’informazione si dividerà in due: una parte per le élite, il resto per un popolo considerato area di mero consumo.

Le cifre sono crude. Siamo arrivati a 1.240.000 di copie vendute al giorno. Poco meno di un quinto di due lustri or sono. E pensare che per decenni la quantità oscillava sempre attorno a 6 milioni, con un’impennata del comparto sportivo dopo la vittoria italiana ai mondiali di calcio del 1982 e il rilancio delle testate locali. Queste ultime furono una intuizione del gruppo, sotto l’impulso di Carlo Caracciolo e di Mario Lenzi. Si superarono i 7 milioni. Tuttavia, proprio dal settore locale cominciò la frana, con le dismissioni de Il Tirreno, nonché delle Gazzette di Mantova, Modena e Reggio Emilia.

Incombe una tempesta, buia e gravida di conseguenze. La cessione de L’Espresso è il tuono che anticipa un temporale lungo e non rassicurante. Si è espressa con preoccupazione la Federazione nazionale della stampa. Commenti preoccupati si susseguono, avvolti – però – dal senso dell’ineluttabile.

Certamente, la tremenda guerra in corso in Ucraina dopo l’aggressione della Russia sposta l’attenzione. Ma, senza buona e indipendente informazione, è tutto peggio e resistere è il nostro motto. Torna attuale un progetto che fu lanciato negli anni ’70 dal comitato di redazione de il Corriere della sera in lotta allora contro svendite e logge segrete: la rivendicazione di un autonomo “Statuto dell’impresa giornalistica”, valido pur nel mutare delle proprietà. Un corpo di garanzie per chi opera e lavora.

Ripartiamo con una grande vertenza sulla libertà di informazione, che oggi è troppe volte considerata un lusso. Il nobile quarto (o quinto) potere è travolto dagli altri. Non si sa e non si deve sapere. Le inchieste serie sono sottoposte alla censura, a cominciare da quella “bianca” del mercato.

 

Gli autori

Vincenzo Vita

Vincenzo Vita, giornalista, già parlamentare, scrive per “il manifesto”. È stato docente all’Università di Sassari nel corso di laurea in Scienza della comunicazione e giornalismo. È presidente della Fondazione Archivio audiovisivo del Movimento operaio e democratico.

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