L’ Espresso nacque il 2 ottobre 1955 in un’Italia fortemente democristiana e impregnata di quel centrismo asfittico che, non potendo più contare sulla rettitudine morale di De Gasperi, avrebbe condotto, in pochi anni, alla tragedia dell’estate del ’60. Governo Tambroni, città protagonista Genova, una sorta di luogo del destino nella storia del nostro Paese. La scelta del suddetto esecutivo di concedere al Movimento Sociale Italiano una citta medaglia d’oro della Resistenza per celebrare il proprio congresso provocò, infatti, la reazione indignata della popolazione, ancora memore della lotta partigiana e di cosa avesse significato il nazi-fascismo per l’Italia, dunque pronta a manifestare in maniera determinatissima contro una decisione oggettivamente scellerata. Fu l’estate dei “dieci poveri inutili morti”, come li definì Enzo Biagi in un editoriale apparso su “Epoca” il 17 luglio : un fondo talmente duro sui fatti di Genova e Reggio Emilia che gli costò il posto da direttore del settimanale che aveva contribuito a rilanciare e rendere grande. Fu l’estate in cui si temette seriamente un colpo di Stato, fortunatamente scongiurato dalla lungimiranza della classe dirigente dell’epoca che, alla fine, costrinse Tambroni alla resa e avviò una fase di transizione che avrebbe condotto nel ’63 alla nascita del primo centro-sinistra targato Moro-Nenni, consacrazione della fase di decantazione e progresso avviata da Amintore Fanfani e perfezionata dall’intermezzo “balneare” di Giovanni Leone.
“L’Espresso” c’era, al pari di altre grandi riviste come “Nord e Sud” di Francesco Compagna. C’era e ci sarebbe stato, soprattutto, nei decenni successivi, svelando ad esempio il “tintinnar di sciabole” dell’estate del ’64, il famigerato Piano Solo che avrebbe dovuto rovesciare, attraverso un golpe, l’esperienza del centro-sinistra, e battendosi successivamente contro tutte le storture di un Paese mai davvero autonomo e in grado di camminare con le proprie gambe. C’era nei giorni bui di piazza Fontana e del tentato golpe Borghese, nel decennio delle stragi rosse e nere, dei depistaggi e delle bombe che sventravano le piazze e le stazioni. C’era durante la triste presidenza di Giovanni Leone e nei giorni bui del rapimento Moro. E c’era, più che mai, quando si trattò di compiere dei decisivi passi avanti sul versante dei diritti sociali e civili: il divorzio, l’aborto, l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, la legge Basaglia e molte altre svolte decisive verso una società più giusta e inclusiva. La sua cifra è sempre stata, dunque, l’avversione nei confronti di ogni potere, che si trattasse di Craxi o del berlusconismo arrembante, increspando le acque quando c’era il rischio che prevalesse la “bonaccia delle Antille” di calviniana memoria e facendo della coscienza critica la propria ragione di esistere. Tutto questo è durato fino ad alcuni anni fa, quando la crisi dell’editoria e la restrizione degli spazi economici e di libertà ha cominciato a farsi sentire anche da quelle parti. La deriva è iniziata sul finire degli anni Zero e non si è più arrestata. “L’Espresso” ha difeso, come ha potuto, la propria storia e la propria tradizione, la propria autonomia e la qualità straordinaria dei propri giornalisti, ma il mito non esisteva più, la leggenda era ormai perduta, il sogno di Scalfari e Arrigo Benedetti, supportati dal principe Caracciolo, se n’era andato con la morte di quest’ultimo e la resistenza oggi sembra essere giunta al termine.
Marco Damilano, l’ultimo direttore in ordine cronologico, è stato una sorta di timoniere della disperazione. Ha fatto ciò che ha potuto nelle condizioni date, avvalendosi di due vice di grandissimo valore come Alessandro Gilioli, tornato a Radio Popolare dopo l’avvento della famiglia Agnelli-Elkann alla guida della società editrice, e Lirio Abbate, da sempre in prima linea nella lotta contro tutte le mafie e ogni forma di malaffare. Ha combattuto strenuamente contro il degrado incivile e razzista del Paese, contro il salvinismo che strizzava più di un occhio alla Russia di Putin, contro il populismo dilagante ovunque, in difesa dell’indipendenza del giornalismo e dalla parte dell'”Italia migliore”, come la chiamava Claudio Rinaldi, storico direttore del settimanale, citato proprio da Damilano nel suo editoriale d’esordio al timone della rivista che è stata la sua vita.
Ricordo bene che andai a trovarlo per un’intervista per AREL nell’ottobre del 2018. La crisi mordeva già e si parlava di tagli spaventosi agli stipendi dei redattori, il clima era infuocato, la nostra intervista dovette essere rinviata di qualche giorno, i corridoi redazionali erano vuoti e silenziosi, la paura regnava dappertutto e la stanza del direttore era presa d’assedio. Si avvertiva già allora il senso della fine. Eppure, va riconosciuto a Marco di aver combattuto fino all’ultimo, garantendo un giornalismo di qualità, seguendo con attenzione le novità che si sono affacciate sulla scena politica americana, contrastando strenuamente il trumpismo e schierandosi spesso dalla parte degli studenti e delle studentesse in lotta per un’altra idea di scuola e di domani. Si è battuto al fianco di Greta, per l’ambiente, per il DDL Zan e contro ogni barbarie. L’estate scorsa, e qui mi sento autorizzato a pensar male, ha addirittura osato dedicare ben tre numeri al ventennale dei fatti del G8 di Genova, sostenendo che Carlo Giuliani avrebbe meritato un processo che non si è mai svolto, che la Diaz sia stata una spedizione punitiva e una mattanza e che Bolzaneto costituisca il buco nero della nostra democrazia. Ha detto tante verità, forse troppe, ricostruendo bene ciò che è avvenuto e non facendo sconti a nessuno, meno che mai a uno Stato che da allora non si è più ripreso, in cui la ferocia è diventata inarrestabile e l’orrore è divenuto quotidiano, fino a condurre all’esaurimento della politica, al riflusso della società civile, alla sconfitta collettiva di molteplici categorie e alla mancanza di rappresentanza, oltre che di rappresentazione mediatica, di interi mondi ormai abbandonati a se stessi. Forse è stata una delle gocce che hanno fatto traboccare il vaso, considerando che i fastidi e le rimostranze sono stati molteplici, direttamente proporzionali, nella redazione, alla gratitudine e all’affetto dei lettori.
Sospendiamo il giudizio su Danilo Iervolino, nuovo proprietario della testata, inventore dell’università telematica Pegaso, a capo di un gruppo editoriale specializzato, per lo più, in riviste di carattere finanziario e patron della Salernitana. Non abbiamo elementi sufficienti per dire come si comporterà e cosa ne sarà di questo patrimonio ineguagliabile dell’informazione che, dopo sessantasette anni di onorato servizio, cambia per sempre. La nostra impressione è che nulla sara più come prima. E l’altra, amarissima impressione è che nel padronato italiano, come si sarebbe definito un tempo, ci sia un crescente astio nei confronti di tutte le voci libere e non assoggettabili al pensiero unico dominante. Marco Damilano paga questo: lo spirito di via Po, la meravigliosa e assoluta libertà del tempo che fu, quando su quelle pagine si andava formando il nostro immaginario e la nostra idea di società e di futuro. Oggi tutto questo non esiste più, le nuove generazioni sono orfane e la sensazione è che stia nascendo un’Italia ancora più conformista, senza politica, con governi uguali a se stessi che si succedono nel tempo e difendono sempre i medesimi interessi. Insomma, il vuoto, che conduce al logoramento di un potere destinato ad affondare con lo sfascio del Paese, di un’informazione in cui, come ha scritto proprio Damilano, citando Moro nel suo editoriale di addio, non esistono più né notizie né opinioni, di una collettività slabbrata e di una comunità non più solidale. Di citazione in citazione, a me viene in mente il Gramsci che ci ammoniva, un secolo fa, alla vigilia del fascismo, sul fatto che fra un mondo ormai concluso e un nuovo mondo che non riesce a sbocciare, fra il non più e il non ancora, si generano i mostri. Oggi, probabilmente, non marciano su Roma e non incendiano nemmeno il Parlamento. Al massimo, decidono in una notte fra la guerra e la pace o comunicano un licenziamento via WhastsApp, dopo aver stabilito in una riunione fra pochi intimi chi debba governare, cosa si debba sapere e cosa no. L’Italia era stata immaginata dai padri costituenti come “una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Quello alla prima parte della Costituzione, con ogni probabilità, sarà il prossimo e definitivo assalto.
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Roberto Bertoni (Roma, 24 marzo 1990). Giornalista e scrittore, collabora da anni con numerose testate, cartacee e on-line. Tra queste, ricordiamo: Articolo 21, AREL, Confronti, Ytali e Focus on Africa. Ha pubblicato saggi, romanzi e due raccolte di poesie, oltre ai libri-intervista con Fassina e Mineo e ai dialoghi fra monsignor Pennisi ed Ermete Realacci e fra la professoressa Lorenza Carlassare e Silvia Chimienti (tutti realizzati insieme ad Andrea Costi). Da diversi anni, conduce on-line la trasmissione L'Emiciclo, per cui ha realizzato una lunga inchiesta sui fatti del G8 di Genova.
One Comment on ““L’ Espresso” e l’Italia che verrà”
Una ricostruzione edulcorata del ruolo degli ultimi anni dell’Espresso a direzione damilano spesso prona ai governi di turno, conclamata con una lettura tutta di palazzo alla pandemia e alla sua gestione.
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