Il regista torinese Daniele Gaglianone ha fatto un film strano, dove la malinconia è il guscio che serra molti stati dell’anima. Ha fatto un film sui vecchi e li ha fatti parlare, una storia dietro l’altra che poi intersecano o divergono, vanno avanti e indietro, un labirinto di emozioni. Ricchi, poveri, contadini, aristocratici: le vite incredibili di un mondo che vive qui, ma è lontanissimo. Durante il film uno si domanda, tra le altre cose: ma io avrò questi ricordi da raccontare ai nipoti e ai figli quando sarò vecchio? La risposta è molto probabilmente negativa. Un film che potrebbe essere di finzione, ma non lo è, e questo lo rende prezioso e imperdibile. Il tempo rimasto, questo il titolo, arriva dopo Dove bisogna stare, la storia di quattro donne che spendono la loro vita per i migranti, e Qui, inerente alle vicende della val di Susa e alle lotte che lì sono presenti ormai da due decenni.
Daniele, tu preferisci dire vecchio o anziano?
Vecchio. Secondo me sottolinea meglio la densità della vita, fa pensare a qualcosa che ha una storia.
Perché un film sui vecchi?
Questo progetto nasce da un’idea più ampia, una riflessione sul fatto che quando scompariranno coloro che oggi hanno più di 85 anni andrà via la generazione testimone delle grandi trasformazioni, così forti e drammatiche, che è passata dalla vita come era secoli fa a questo presente. Chi è nato negli anni Venti o Trenta ha visto cambiare il mondo almeno due o tre volte e sta continuando; si ha la sensazione di avere di fronte esseri viventi in arrivo da un altro pianeta, che sono ancora vivi ma sono alieni. Sempre ovviamente restando nel nostro contesto occidentale europeo.
Il film nasce con questa struttura narrativa?
Io non ci avevo nemmeno pensato ma questo film testimonia quanto le nuove generazioni possono entrare in relazione con i protagonisti di infanzie vissute decine di anni fa; la struttura del film crea questa relazione, sebbene sia sotto traccia. Un viaggio dall’alba al tramonto, che segue una cronologia, in cui ci sono bolle improvvise nelle quali non ci si immagina cosa arriverà dopo ogni stacco: una dimensione epica a ogni racconto.
I vecchi hanno tutti una vita da romanzo?
Io penso che al di là delle parabole personali, alcune più o meno dense o picaresche, c’è una questione di fondo: anche le storie meno interessanti hanno il fascino di provenire da un mondo remoto che racconta un tempo precario e durissimo. Infatti venti o trenta anni fa questo film sarebbe stato percepito in un altro modo: un passato da dimenticare. Ho la sensazione che ad ascoltare certe storie ci sia, nelle giovani generazioni, il timore che questo tempo remoto sia anche prossimo, ambasciatore di un possibile mondo che verrà in condizioni differenti. Sono tempi, il passato remoto e il futuro che intravediamo, in cui non c’era e c’è niente di scontato, la mobilità sociale una chimera, la divaricazione tra ricchissimi e poverissimi stridente nella sua visibilità.
Le nostre vite sono noiose, o quelle dei giovani, se rapportate a quelle dei vecchi?
Non userei l’aggettivo noioso: le generazioni boomer hanno vissuto in una bolla illusoria, in cui si davano per scontate e acquisite cose che non lo sono affatto, come la democrazia, che oggettivamente oggi è in crisi. Da molto tempo, almeno venti anni, abbiamo un lento e brusco risveglio che si fa fatica ad accettare. Questo si sta rivelando una illusione pericolosa e perniciosa per chi vive nel resto del mondo, in situazioni dove la precarietà e la violenza sono all’ordine del giorno e premono per cercare di avere quel pezzo di illusione che il nostro mondo ha venduto a tutti ma non riesce a garantire nemmeno a se stesso.
È un film malinconico?
Non so se la malinconia sia un valore: è un film sulla vecchiaia, sopratutto sull’infanzia e sulla giovinezza lontana che riemerge e viene rivissuta come se fosse qui e ora, dove non c’è nostalgia dei bei tempi andati perché non erano bei tempi. È un film sulla forza della vitalità che si confronta con il senso della finitezza senza essere funereo e mortifero: un film sulla vita e quanto essa è preziosa. Torniamo al fatto di vivere in una illusione: l’isteria prodotta dal vivere in questa pandemia è figlia del fatto che non siamo preparati a sostenere qualcosa che mette in crisi la narrazione che il nostro mondo fa di se stesso, edulcorando le contraddizioni e reputandosi invincibile. Una follia.
I tuoi protagonisti maneggiano vecchie fotografie in bianco e nero, cavandone fuori storie ed emozioni.
Le fotografie non restituiscono un istante strappato al tempo molti anni prima ma testimoniano nella loro materialità il tempo che passa, sono degli oggetti su cui il tempo ha lavorato, sbiadite, ingiallite, lise e rovinate. Le persone le tengono in mano e mostrano fisicamente il segno di questa compenetrazione tra diversi presenti. Un presente che si espande, stratificato, che trascende le categorie che siamo soliti usare. Per questo motivo questo è un film sulla solitudine: non sociale, alcune sono circondate dall’amore, bensì la percezione del proprio vivere. Non c’è nessuno con cui condividere questo stato di comprensione e compenetrazione temporale. Lo puoi empatizzare ma quando qualcuno dice «qui ci sono delle persone che non ci sono più», è il segno di una condizione di unicità.
A chi piacerà il tuo film?
È un film che parla molto a tutti, perché tutti siamo sempre più soli. Queste persone nonostante la durezza delle loro vite danno l’idea di essere vissute dentro comunità, condizione che a me pare sempre più labile a chi vive adesso: oggi prevale l’individualismo. Non necessariamente il loro senso di comunità era correlato con la povertà, mentre oggi i tuoi simili sono dei competitor quindi dei potenziali nemici; ha vinto la Tatcher.
Ma un altro film di finzione quando lo fai?
Sono arrivato a un punto in cui posso dire che la differenza tra finzione e documentario è superata, siamo comunque sempre di fronte a storie. Detto questo spero di poter fare presto anche un film di finzione.
Certo ha vinto la Tatcher, non ci sono dubbi. Ma ha vinto facile…
Il film è interessante, gli spicchi di vita emozionano, rivelano altre umanità. Non so che impressione farebbe ad un giovane: temo che certe situazioni di povertà, di deprivazione culturale e scolastica imposta, di vite deviate dagli interessi e dalle passioni possano sembrare, ai giovani, abbastanza lunari.
Comunque un bel film da vedere.