L’impasse del fine vita: l’aiuto a morire tra referendum e legge

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Uno sconfinato retroterra e le scelte odierne

Gli sviluppi della vicenda umana, amministrativa e giudiziaria di “Mario”, il primo malato in Italia ad aver ottenuto il via libera al suicidio medicalmente assistito da parte del Comitato etico della Regione Marche, ripropongono in modo pressante il tema della disciplina del “fine vita” su cui, dopo la sentenza 22 novembre 2019 n. 242 della Corte costituzionale (https://volerelaluna.it/societa/2019/12/09/il-diritto-di-morire-e-la-corte-costituzionale/), è alle porte un possibile referendum (per il quale è stato raccolto oltre un milione di firme) mentre il confronto parlamentare procede senza che si vedano sbocchi a breve termine.
La letteratura filosofica e giuridica sui temi del fine vita è sterminata e abbraccia temi e campi di problemi assai diversi tra di loro. Vi figurano le riflessioni sulla “morte naturale”, che pongono a raffronto l’attuale realtà dell’invecchiamento e della morte con le forme sociali e le percezioni mentali proprie di altre epoche. Ne fanno inoltre parte i molteplici atteggiamenti culturali e giuridici succedutisi nei riguardi del “suicidio”. Atto dapprima contemplato, nelle società pagane, nella chiave stoica di una volontaria e coraggiosa rinuncia a un vita non più amata e non più degna di essere vissuta e poi profondamente coinvolto dapprima nelle vicende del cristianesimo e poi della laicizzazione. Temi che dividono i cittadini e che chiamano in campo anche le possibilità e i limiti della scienza medica tanto nel prolungare artificialmente la vita nei casi nei quali nessuna guarigione è possibile quanto nell’accompagnare e sorreggere le scelte individuali di por fine alla propria esistenza. Vicende che hanno portato a considerare il suicidio di volta in volta come peccato e atto di mancanza di fede, come illecito penale severamente sanzionato, come atto solo tollerato dal diritto, come incomprimibile libertà e diritto della persona.
Fino ad oggi, quando si discute della disponibilità della propria vita, delle condizioni che legittimano l’aiuto al suicidio e della legalizzazione dell’eutanasia. Parliamo delle due iniziative istituzionali oggi in campo sul tema del fine vita: il referendum promosso dai radicali che propone l’abrogazione parziale dell’art. 579 del codice penale (norma incriminatrice dell’omicidio del consenziente) e il disegno di legge all’esame del Parlamento destinato, in caso di approvazione, a dettare la disciplina della morte volontaria medicalmente assistita. Iniziative che ‒ dopo la rapida evoluzione del nostro ordinamento segnata dalla legge sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento e dalle pronunce della Corte costituzionale ‒ si propongono entrambe, sia pure attraverso percorsi diversissimi, di dare forma e regole giuridiche alla scelta di porre fine alla propria esistenza.
A seguito della presentazione del referendum e dell’accelerazione, dopo una lunga fase di stallo, dei lavori in corso in sede parlamentare è giunto il momento delle scelte. Scelte dirette dei cittadini, che saranno possibili “se” sarà dichiarato ammissibile il referendum. Oppure scelte del legislatore, che, a loro volta, potranno essere compiute “prima” dell’iniziativa referendaria, con il possibile effetto di renderla superflua, o “dopo” una eventuale consultazione referendaria per intervenire sulla normativa di risulta derivante da un voto favorevole all’abrogazione.

Il referendum e il solco tra desiderio politico e razionalità sociale e giuridica

Prendiamo le mosse dal referendum promosso dai radicali, che aveva già raccolto un numero rilevante di firme, prima di essere rapidamente sospinto a superare il traguardo del milione di sottoscrizioni dall’innovazione normativa che ha aperto alla firma digitale dei quesiti referendari (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2021/09/29/i-referendum-digitali-e-il-suicidio-del-parlamento/).
Presentato all’opinione pubblica come un referendum in favore dell’eutanasia, il quesito referendario rivela in realtà un nucleo più ampio di una prospettiva eutanasica circondata da limiti, regole e cautele (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2021/10/19/referendum-sulleutanasia-legale-la-via-referendaria-e-la-risposta-giusta/). Nel quesito referendario si propone infatti ai cittadini di abrogare la sanzione penale attualmente prevista per l’omicidio del consenziente (la reclusione da sei a quindici anni) mantenendo in vita l’altra parte dell’art. 579 c.p. che sancisce l’applicabilità delle disposizioni relative all’omicidio «se il fatto è commesso contro una persona minore degli anni diciotto, contro una persona inferma di mente (o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti) o contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno». Un successo del “sì” nella consultazione referendaria comporterebbe dunque la depenalizzazione dell’omicidio del consenziente, da considerare legittimo (salvo che nelle tre ipotesi prima ricordate) sulla base del consenso manifestato dalla persona cui viene tolta la vita.
Con un effetto di rovesciamento della logica della norma dettata dall’art. 579 c.p. che, da norma posta a tutela della vita, si trasformerebbe in disposizione che legittima una forma assoluta di autodeterminazione e, sulla base del consenso, l’intervento di terzi nella attuazione della volontà di porre fine alla propria esistenza. L’abolizione della sanzione penale “minore” per l’omicidio del consenziente verrebbe infatti realizzata tout court, senza essere accompagnata da alcuna previsione delle ipotesi nelle quali la scelta individuale di rinuncia alla vita risulti fondata su gravi ed oggettive ragioni e sia conseguentemente scriminata l’azione del terzo che toglie la vita al consenziente. Del pari mancherebbe una procedura pubblica di verifica della genuinità del consenso reso e della sua revocabilità in qualsiasi momento prima dell’evento.
Un siffatto stato di cose rischia di scavare un solco profondo tra “desiderio politico” e “razionalità giuridica”. Occorre, infatti, riconoscere che l’orgogliosa riaffermazione del principio di piena disponibilità della propria vita e di un diritto a morire non può rispondere da sola alla effettiva aspettativa dei cittadini: ricevere dalle istituzioni un’effettiva e tempestiva assistenza medica che sollevi la libera e consapevole decisione di porre termine all’esistenza da un carico di sofferenze ulteriori rispetto a quelle derivanti da malattie inguaribili.
Ma il legislatore – sostengono i promotori del referendum – sarebbe indotto, se non costretto, ad intervenire da una vittoria dei sì nella consultazione referendaria. Ed è questo il dichiarato auspicio dei proponenti, che rilanciano la ricorrente suggestione del referendum come “pungolo” nei confronti di un legislatore paralizzato e inerte. Sebbene invidiabile sotto l’aspetto psicologico, la rassicurante certezza di un provvido intervento legislativo non è, peraltro, facile da condividere. È qui ed ora, dunque, nella fase che precede il referendum, che il legislatore deve dimostrarsi capace di mettere in campo le sue risorse preziose: conoscenza del fenomeno da regolare, dialogo e mediazione tra posizioni contrapposte, individuazione di soluzioni ragionevoli.

I lavori parlamentari sulla disciplina della «morte volontaria medicalmente assistita»

Come è noto, è oggi all’esame delle competenti Commissioni della Camera dei deputati (Giustizia e Affari sociali) un testo unificato recante «disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita», adottato come testo base a seguito della presentazione di una pluralità di proposte legislative, la prima d’iniziativa popolare e le successive presentate da deputati di diverse forze politiche.
Rilievo centrale nel corpo della normativa in discussione assumono i presupposti e le condizioni della richiesta di morte volontaria. In primo luogo essa deve provenire da una persona maggiorenne, che sia affetta da sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili e risulti in grado di assumere decisioni libere e consapevoli. Inoltre, perché l’istanza di morte volontaria possa essere legittimamente presa in considerazione, il richiedente deve trovarsi nelle seguenti condizioni: a) essere affetto da una patologia irreversibile o a prognosi infausta oppure portatore di una condizione clinica irreversibile; b) essere tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale; c) essere assistito dalla rete di cure palliative o avere espressamente rifiutato tale percorso assistenziale.
Il testo prosegue individuando i requisiti e la forma della “richiesta” che deve essere «informata, consapevole, libera ed esplicita», manifestata per iscritto nelle forme previste per il testamento olografo e revocabile «in qualsiasi momento senza requisiti di forma e con ogni mezzo idoneo a palesarne la volontà». Ove le condizioni del malato non consentano di rispettare questo regime formale la richiesta può essere espressa e documentata con qualunque dispositivo idoneo che consenta al richiedente di comunicare e manifestare inequivocabilmente la propria volontà. Enunciati in questi termini i capisaldi della nuova disciplina viene individuata una procedura di presentazione, valutazione ed eventuale accoglimento della richiesta di morte volontaria.
Sulle modalità di realizzazione della morte volontaria il testo si limita a prevedere la presenza e l’assistenza di un medico – ed eventualmente di uno psicologo – e l’obbligo, da parte del sanitario, procedente di verificare la persistenza della volontà di porre fine alla propria vita e delle condizioni soggettive ed oggettive legittimanti l’intervento eutanasico. Resta invece integralmente rimessa alla scienza medica l’adozione delle tecniche più adeguate a determinare una morte dignitosa e priva di sofferenze ulteriori rispetto a quelle proprie del paziente.

Un Parlamento prigioniero?

Dalla lettura del testo base emergono i due tratti fondamentali dell’iniziativa legislativa.
Sul piano della “procedura” da seguire per la richiesta di morte volontaria medicalmente assistita, il testo unificato, pur muovendosi sulla falsariga delle pronunce del giudice costituzionale, compie un importante passo in avanti, delineando un percorso sufficientemente chiaro e scandito nei tempi per la presentazione, la valutazione, l’accoglimento e l’attuazione della istanza. Percorso che dovrebbe rimuovere le incertezze e i timori dei diversi soggetti coinvolti nel procedimento ed evitare inerzie e ritardi, francamente inammissibili quando si è al cospetto di situazioni estreme come quelle contemplate nel testo normativo.
Ma è sul piano delle “condizioni” della richiesta di morte volontaria e sulle modalità della sua attuazione che il Parlamento sembra muoversi come un prigioniero nel ristretto perimetro tracciato dalla Corte costituzionale. Il riferimento è a due punti cruciali del testo in discussione: l’individuazione dei “trattamenti” che legittimano la richiesta di morte volontaria e l’identificazione dell’“atto” che deve essere posto in essere dalla persona che richiede l’assistenza medica per porre fine alla sua vita.
Replicando l’impostazione adottata dal giudice costituzionale il testo pone tra le condizioni della richiesta di morte volontaria medicalmente assistita «l’essere tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale». La formula adottata ha, peraltro, incerti confini ed è suscettibile di diverse letture, cosa che dovrebbe indurre il legislatore a non limitarsi a riprodurre il dictum della Corte e a definire in termini chiari ed inequivoci i trattamenti sanitari di mera sopravvivenza che legittimano la richiesta di assistenza alla morte volontaria, superando o chiarendo il significato del riferimento ai “trattamenti di sostegno vitale”. La via da imboccare sembra perciò quella di individuare la sfera della richiesta dell’aiuto a morire riferendola alla platea dei casi nei quali la richiesta di morte volontaria medicalmente assistita è formulata: a) per non dover prolungare trattamenti sanitari di diversa natura (dolorosi e non di rado avvilenti e incompatibili con la dignità del malato – ormai finalizzati alla mera sopravvivenza); b) per non dovere subire il peso dell’ulteriore sofferenza propria di una morte che faccia seguito al puro e semplice rifiuto della prosecuzione di tali trattamenti ad una più o meno lunga distanza di tempo dalla loro interruzione.
L’altro aspetto del testo in discussione alla Camera sul quale va richiamata l’attenzione è la definizione di morte volontaria medicalmente assistita identificata nel «decesso cagionato da un atto autonomo con il quale, in esito al percorso disciplinato dalla presente legge, si pone fine alla propria vita in modo volontario, dignitoso e consapevole con il supporto e la supervisione del Servizio Sanitario Nazionale». Al termine del procedimento previsto chi ha chiesto di morire recupera pienamente l’“autonomia” nel porre fine alla propria vita corredata dal diritto a ricevere, nel suo compimento, un’adeguata assistenza medica di natura pubblica. Ma a questo punto, ad evitare ulteriori incertezze, il legislatore dovrebbe chiarire che laddove, in presenza di tutte le altre condizioni di legge, la volontà sia chiara ma il gesto materiale di togliersi la vita sia inattuabile per lo stato in cui versa l’ammalato, questi possa, oltre all’assistenza medica diretta ad evitare la sofferenze, ricevere l’aiuto necessario per il suo compimento. In questo modo verrebbe espunta dalla fattispecie dell’omicidio del consenziente solo quella fattispecie particolarissima e rigorosamente regolata, tale da non generare alcuna possibilità di equivoci o di abusi.
Adottare una disciplina siffatta implica liberarsi degli astratti furori e dallo scontro frontale tra opposte declamazioni. Da un lato l’insistenza sulla sacralità di una vita che il malato ritiene non più degna di essere vissuta perché ridotta a mera, dolorosa sopravvivenza e ormai privata della sua dimensione relazionale. Dall’altro lato, l’affermazione di una assoluta e piena disponibilità della vita che non risolve i problemi connessi all’intervento di terzi e soprattutto non può aspirare a ricevere incondizionatamente e indiscriminatamente un aiuto pubblico a morire evitando ulteriori sofferenze.
Sul terreno della ragionevolezza ‒ che ha ispirato la legislazioni di molti Paesi sull’eutanasia legale e che fonda il desiderio di un grande numero di cittadini favorevoli ad una soluzione positiva del problema del fine vita – sono stati compiuti numerosi passi in avanti. Si tratta di non smarrire la strada a pochi passi dalla meta.

Una versione più ampia dell’articolo, con note e riferimenti bibliografici, può leggersi in Questione giustizia (https://www.questionegiustizia.it/articolo/l-impasse-del-fine-vita-l-aiuto-a-morire-tra-referendum-e-legge).

Gli autori

Nello Rossi

Nello Rossi, già magistrato, è attualmente vicepresidente del Tribunale permanente dei popoli e direttore della rivista "Questione giustizia"

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