I rave party, i benpensanti, la riduzione del danno

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Nelle prossime righe cercherò di parlarvi dei free party (i famigerati “rave”) e dei diversi approcci al fenomeno. Ben sapendo che questo rischia di essere un tema delicato e divisivo, cercherò di guardare agli eventi di aggregazione e festa non autorizzata con uno sguardo diverso, originale: quello degli operatori della prevenzione e riduzione del danno, che nelle feste vanno e lavorano.

Quando ci si affaccia su questo mondo, i nasi spesso si arricciano. I più intransigenti sono categorici nella condanna: viene posto un netto rifiuto nei confronti della dimensione anarcoide, invasiva e trasgressiva che tutto ciò rappresenta, con un’immediata equazione tra partecipazione ai party e totale adesione a uno stile di vita selvaggio e deviante, un uso massiccio di sostanze e una brutale disinibizione. Come se non bastassero i singoli personali giudizi negativi, i mass media spesso li descrivono con tonalità degne di una narrazione da invasioni barbariche, come luoghi di dissoluzione, sballo e violenza. Cominciamo con qualche dato di realtà. A Valentano, rave del Viterbese che ha conquistato la ribalta mediatica nella scorsa estate, c’erano prima di tutto oltre settanta operatori sociali attivi, in un’inedita e riuscita collaborazione tra équipe educative e di prevenzione provenienti da 12 regioni diverse del territorio nazionale: tutti sono stati impegnati ed efficaci (in quelle giornate che purtroppo hanno anche visto la morte per annegamento di un ragazzo), ma nessuno di loro ha visto i cani lasciati morire nella polvere, i bovini braccati e le ragazze violentate che tanta stampa allarmistica ha prepotentemente sbandierato. C’è però da dire che anche le opinioni più sensibilizzate non guardano di buon occhio ai rave, per la loro natura anarcoide e sfacciata, l’apparente irrazionalità e la dimensione tribale che trasuda dalle musiche e dalle ambientazioni scelte.

Gli operatori della riduzione del danno cercano di uscire da questa necessità di posizionamento, tendenzialmente non si schierano tra i favorevoli e i contrari (dico tendenzialmente, perché molti di loro sono operatori pari, arrivano cioè da quel mondo e di quella scena sono naturali ambasciatori). Nelle feste ci stanno perché è giusto esserci, è importante essere presenti con un intervento di prevenzione e sensibilizzazione dei rischi. Il loro senso è nella presenza e nella cura; ci sono per occuparsi di persone che stanno patendo i ritmi della festa e di un uso di sostanze che non sono riusciti a controllare, rischiando così complicazioni e intossicazioni. Ci sono per prendersi cura dei problemi sanitari che normalmente accompagnano una massa di giovani festanti e in movimento in ambienti dalla sicurezza precaria (una radura, un capannone in disuso). Ci sono anche solo per ricordare ai partecipanti di bere periodicamente acqua, essendo frequenti gli episodi di crisi per disidratazione in un contesto di movimento prolungato e di scarsa lucidità. Predispongono zone di chill out, spazi e tempi di sosta e di riposo dai ritmi frenetici del divertimento, per aiutare a modulare energia e attivazione personale. Offrono un servizio di drug checking, un’analisi della sostanza che, spesso legata a un intervento di counseling, rappresenta un valido intervento di prevenzione verso un uso più consapevole e critico e un antidoto al rischio di intossicazioni.

Il senso ultimo è esserci, perché è giusto stare dove le persone che usano le sostanze stanno e domandarsi come possiamo essere di aiuto, sospendendo il giudizio. Chiunque abbia partecipato a queste intense giornate sa che non si tratta solo di una mera prestazione: nell’essere vicino al momento di crisi di un ragazzo, nella bottiglia di acqua passata e al di là dell’attesa dell’esito dell’analisi c’è un incontro, uno scambio, un incrocio di sguardi, un contatto umanizzante che ha in sé il suo valore intrinseco.

È chiaro, qui siamo pienamente nel campo della riduzione del danno. Una lettura superficiale e distorta vede in ciò un attacco alle proposte terapeutiche ed educative votate all’astensione dalla sostanza, come se queste due prospettive fossero in competizione. In realtà si integrano pienamente, andando incontro al variegato universo delle persone che usano sostanze, portatrici di storie e bisogni diversi, dalla ferma e decisa volontà di chiudere con questi comportamenti (motivazione che va accolta e sostenuta) alla vasta area di ambivalenza di chi non può, non riesce o non vuole smettere, e che per questo non deve essere condannato, biasimato e lasciato solo. Tanto più che i servizi attivi da decenni incontrano sempre la stessa fascia di età media (22-24 anni), il che conferma un costante turnover dei partecipanti e una pratica di uso legata a specifici passaggi esistenziali. Per molti l’uso di sostanze è strettamente correlato alla dimensione ricreazionale e ad alcuni anni di vita, configurando pratiche di consumo in gran parte transitorie e comunque compatibili. Per intenderci: non c’è in queste storie una dipendenza patologica. Passati quegli anni il consumo si riduce o si interrompe completamente, nella stragrande maggioranza dei casi spontaneamente. Il tema è dunque come ridurre i rischi nel qui e ora del consumo attivo, piuttosto che predisporre percorsi prolungati di trattamento e “cura”.

Se piena dignità hanno i percorsi rielaborativi di chi fa i conti con se stesso e i propri demoni per superare questa sofferta fase, pari dignità devono avere le azioni di cura rivolte alle persone consumatrici di sostanze, affinché le loro condotte non siano doppiamente nocive. Non possiamo pensare che l’uso di una droga sia in sé e per sé una condanna al peggio, «tu sei un drogato e di conseguenza ti meriti di soffrire sempre»: siamo chiamati ad assumere uno sguardo laico, che cerchi di tenere al centro sempre la persona rispettandola e sostenendola, senza incastrarsi in automatismi e richieste magari in quel momento inaccettabili e insostenibili («o smetti o non ti aiuto»).

Lo sguardo della riduzione del danno permette di attraversare i rave senza un’esigenza definitoria e una missione a cambiare anche ciò che in quel momento non è a questo disposto: restituisce così la ricchezza di un mondo in cui a slatentizzazioni di situazioni di disagio, ad abusi di sostanze, a gesti rischiosi si alternano fluidamente dinamiche di mutualità e di supporto, strategie personali e collettive di autoregolazione, momenti di condivisione e di gruppalità. Ed è anche in questa rinnovata socialità che sta uno dei cuori dei messaggi dei frequentatori dei party, al di là di alcune enfasi idealistiche e ambiguità di fondo: ben al di là di una generica “cultura dello sballo”, nella idea delle TAZ, le “Zone Temporaneamente Autonome” c’è la volontà militante, condivisibile o meno, di riappropriarsi di spazi di socialità e di contatto, di occupare e sospendere temporaneamente il controllo sociale per sperimentare nuove forme di convivenza. Le tinte fosche delle cronache superficiali lasciano il passo a narrazioni più articolate e per questo più realistiche.

Punire e proibire non serve a soffocare il desiderio di queste feste, e nemmeno pensarle come spericolate congreghe di pericolosi “drogati” (i dati osservativi che ci riportano gli operatori presenti registrano un’esigua percentuale di persone realmente dipendenti e con una spiccata antisocialità nei contesti di festa, e una maggioranza – costituita da insospettabili studenti universitari, lavoratori e professionisti – che si concede un’attivante parentesi ricreativa). Una responsabilità pubblica di cura dovrebbe prevedere – e in Italia lo sta facendo ancora a singhiozzo – una costante presenza di servizi di prevenzione e riduzione del danno: in ogni contesto in cui ciò avviene, i risvolti in termini sanitari e di governo delle possibili problematiche collettive sono unanimemente giudicati come positivi (con un gratitudine che parte dagli operatori sanitari e dalle forze dell’ordine impegnate).

È quindi giusto esserci, e non ci sembra poco.

Gli autori

Ezio Farinetti

Ezio Farinetti è psicologo e psicoterapeuta. Lavora presso l’Università della strada del Gruppo Abele.

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One Comment on “I rave party, i benpensanti, la riduzione del danno”

  1. Concordo con questo taglio e ringrazio l’autore che evidentemente è un operatore speciale e chiedo all’informazione un pò meno scandalismo e un pò meno sensazionalismo.

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