In un mondo ideale l’ultimo libro di Corrado Stajano, Sconfitti, il Saggiatore, sarebbe adottato in tutte le scuole superiori italiane. E suggerirei al comitato che sceglie i concorrenti allo Strega di prenderlo in seria considerazione per il prossimo anno: è un saggio, ma con la scrittura e l’impianto di un romanzo (di un’autobiografia) dove la sofferta testimonianza del declino di un paese che non è riuscito a diventare nazione si intreccia con le riflessioni e i commenti dell’autore: quasi un controcanto alla propria narrazione. Il montaggio abilissimo dei tempi, dal presente pandemico al passato postbellico, dal “miracolo” degli anni Sessanta e dalla sconfitta contadina del secondo dopoguerra a quella operaia del 1980 e al “neoterziario bottegaio” di oggi, cattura l’attenzione del lettore che ripercorre quasi cinematograficamente tutta la contemporanea storia italiana. Storia di cui non c’è molto da vantarsi.
L’età (Stajano ha 91 anni), una memoria di ferro, la passione civile, il rigore morale d’altri tempi, una vita spesa a denunciare e documentare (in libri e in un’intensa attività giornalistica, anche televisiva), i soprusi, la corruzione e il degrado di buona parte delle nostre classi dirigenti si fondono qui in un’accorata ma lucida elegia delle occasioni perdute dal nostro paese. Un mood dolente ma non querulo, nemmeno indignato, semmai ferito, attraversa le pagine di un libro che fin dal titolo, Sconfitti, è una dichiarazione di disincanto.
Si parte dalla pandemia, dalla vita quotidiana sospesa nell’ansia, nella solitudine coatta del lockdowne da qui a ritroso: rivivono gli anni della guerra, il padre lontano, prigioniero in Russia, la mancanza di notizie, gli orrori della dittatura fascista alleata col nazismo, l’incubo dei bombardamenti, che devastarono città come Milano, la guerra partigiana, la strage di Boves, i racconti dell’alpino e partigiano Nuto Revelli, “essenziale e severo”, amico carissimo di una vita, che nella seconda feroce battaglia del Don “era riuscito a portar fuori dalla sacca, salvando loro la vita, una settantina di alpini e tre slitte stracariche di feriti e di congelati gravi. Un centinaio di uomini.” Erano partiti 8 ufficiali e 342 alpini.
Della stessa tempra Vittorio Foa, tenuto in carcere dal 1935 al 1943 (“Uomo di Giustizia e libertà, detenuto politico dei fascisti a Regina Coeli, a Roma, e poi a Civitavecchia e a Castelfranco Emilia: non gli sfuggì mai un lamento, un’autocommiserazione”). Personaggi dell’Italia migliore, “l’Italia di Dante Livio Bianco, di Carlo e Alessandro Galante Garrone, di Giorgio Agosti” di Giustizia e Libertà e del Partito d’Azione. Ma nelle città italiane distrutte dai bombardamenti e afflitte da miseria e povertà la speranza di una rinascita morale e civile fu presto delusa.
In capitoli generalmente brevi, tutti anche letterariamente intensi, mescolando politica e costume, stragi e Mina, speranze (sempre meno) e sconfitte (sempre più evidenti), Stajano dipana la storia italiana dagli orrori delle dittature e della guerra alle speranze della Resistenza. Dall’ambiguo e confuso slancio del dopoguerra, col progressivo ma rapido passaggio dalla campagna alla città (c’è in proposito un capitolo da antologia: Albero degli zoccoli, addio, che conferma anche la solida amicizia dell’autore con Ermanno Olmi) e l’emigrazione massiccia dal Sud, arretrato e già controllato dalla mafia, al Nord bisognoso di mano d’opera (ma anche all’estero, in Germania in Sud America in Belgio…). Sino all’illusorio boom degli anni Sessanta, dal 1958 al 1963 precisa Stajano. (Io stesso ricordo una Milano natalizia in festa nel 1960, con il presepe luminoso sulla torredell’Arengario e i portici di piazza Duomo gremiti di folla, i negozi concorrenti di Motta e Alemagna in un tripudio di luci…). La Vespa e la Lambretta, i frigoriferi Ignis, la 600 che aveva sostituito la vecchia Topolino. E i contadini, spesso mezzadri, che abbandonavano le campagne per la sicurezza del lavoro in fabbrica. Sino alla sconfitta operaia alla Fiat nell’ottobre 1980: “La sconfitta contadina del secondo dopoguerra fa da specchio alla sconfitta operaia dell’ottobre 1980 quando, dopo 35 giorni di sciopero dei metalmeccanici, la Fiat organizzò la cosiddetta ‘marcia dei quarantamila’, i fedeli del padronato,i quadri intermedi dell’azienda,gli impiegati.”
Questa sorta di autobiografia italiana per bocca di un testimone partecipe prosegue poi coi misteri irrisolti: la bomba alla Banca dell’Agricoltura di Milano il 12 dicembre 1969:“Entrai senza difficoltà nella grande sala a pianterreno. Una macelleria dell’orrore. Il sangue colorava la polvere dei vetri frantumati e il legno dei mobili ridotti in briciole e continuava a colare. Vidi subito un braccio appiccicato a un muro e una testa rotolare sul pavimento. Brandelli di cadavere spuntavano da ogni parte.” E la morte di Pinelli, sulla quale “Ancora una volta ha vinto l’opaco silenzio della menzogna, il depistaggio, il silenzio dello Stato.”
Ma i silenzi non coprono solo le stragi, tutelano anche la mafia: “Palermo è l’unica città dell’Europa occidentale o forse del mondo – se si escludono certi paesi dell’Africa più nera e dell’America Latina – dove in un decennio, negli anni ottanta del Novecento, sono stati assassinati tutti gli uomini dello Stato, dell’amministrazione, della politica” scrive Stajano introducendo l’uccisione (19 luglio 1982) del generale Carlo Alberto dalla Chiesa e della moglie Emanuela Setti Carraro. Dieci anni dopo dalla Chiesa furono uccisi in un attentato (la strage di Capaci, 23 maggio 1992) anche il giudice Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta. E pochi mesi dopo, 19 luglio 1992, nell’attentato mafioso di via D’Amelio, morì anche il giudice Paolo Borsellino con i cinque agenti della sua scorta.
Sono pagine tacitiane nella loro lucida sobrietà, ma percorse da una sotterranea tensione emotiva, quelle che Stajano, mezzo siciliano per parte di padre, dedica a queste stragi. Poco è cambiato, da quegli anni, semmai la piaga mafiosa si è estesa ulteriormente anche al Nord, nascosta in uffici legali e in abiti di sartoria, o in tute da stalliere, come Vittorio Mangano, raccomandato a Silvio Berlusconi dall’amico bibliofilo Marcello Dell’Utri.
E a Silvio Berlusconi è dedicato uno dei capitoli finali di questo libro dolente e tenace. Il titolo, “Lo statista”, nella sua amara ironia dice tutto. Ed è una sintesi perfetta dell’avventura berlusconiana: sarebbe da volantinare per le strade, ora che, dimentichi della sua biografia, si vocifera addirittura di una possibile candidatura alla Presidenza della Repubblica.
Alla fine, prima del conclusivo ritorno alla pandemia con cui questo racconto amaro e straordinario era iniziato, la domanda che angoscia l’autore e che silenziosamente riecheggia in tutte le pagine: “Che destino potrà avere il Bel Paese che a 160 anni dall’ Unità non sembra possedere ancora un’idea di nazione?”