1. Il Piano di ripresa e resilienza e la giustizia penale
Nel “vasto programma” politico, organizzativo e gestionale racchiuso nel Piano nazionale di ripresa e resilienza ( PNRR) Next Generation Italia, la riforma della giustizia è qualificata, al pari della riforma della pubblica amministrazione, come una riforma “orizzontale” destinata a investire una pluralità di gangli del sistema-Paese per migliorarne in termini complessivi la qualità e l’efficienza. La premessa da cui sono partiti gli estensori del Piano è che «il sistema della giustizia italiana» è «caratterizzato da solide garanzie di autonomia e di indipendenza e da un alto profilo di professionalità dei magistrati» ma soffre del fondamentale problema della eccessiva durata dei tempi della celebrazione dei processi. Questo dato, prosegue il Piano «incide negativamente sulla percezione della qualità della giustizia resa nelle aule giudiziarie e ne offusca indebitamente il valore, secondo la nota massima per cui “giustizia ritardata è giustizia denegata”». Di qui la centralità del “fattore tempo” nel dibattito politico del Paese, nell’attenzione dell’Unione Europea e nel Piano che mira a «riportare il processo italiano a un modello di efficienza e competitività».
Abbandonando (finalmente! ) l’illusione di interventi riformatori a costo zero, il Piano individua tre ambiti di intervento e su ciascuno di questi terreni formula proposte. Il primo ambito di azione riguarda l’organizzazione del giudiziario. Il secondo è riferito agli interventi riformatori sui processi e sull’ordinamento della magistratura (riforma del processo civile e Alternative Dispute Resolution (ADR); riforma della giustizia tributaria; riforma del processo penale; riforma dell’ordinamento giudiziario). Il terzo concerne la diffusione e la valorizzazione delle best practice, cioè delle pratiche più efficienti e virtuose adottate negli uffici giudiziari.
Prima di affrontare, in termini necessariamente sintetici, la progettata riforma del processo penale (che è il tema attualmente maggiormente discusso), è necessario un cenno alla posizione della magistratura di fronte allo sforzo di riformare il sistema processuale penale. In magistratura c’è, oggi, un susseguirsi di consensi e dissensi, di aperture di credito e di preclusioni, di indicazioni correttive o alternative sulle proposte messe in campo dal governo Draghi. I magistrati “sanno” che vi è un assoluto bisogno di interventi riformatori del processo che restituiscano alla giustizia penale un accettabile grado di efficienza, efficacia e celerità. Oltre al suo valore intrinseco, il raggiungimento di questi obiettivi è uno dei presupposti indispensabili perché risulti credibile agli occhi della collettività il parallelo lavoro di risanamento etico faticosamente intrapreso in questi anni. Se la giustizia rimane lenta, farraginosa, inefficace, una migliore “amministrazione della giurisdizione” che corregga errori e cattive prassi nel governo autonomo della magistratura non basterà, da sola, a ripristinare la fiducia dei cittadini. Al tempo stesso la magistratura teme il ripetersi di un copione già visto. Il timore è che la politica si ritenga paga di consegnare a pubblici ministeri e giudici riforme mal calibrate e inadeguate, presentandole all’opinione pubblica come interventi risolutivi; con l’effetto oggettivo di caricare sulle spalle degli operatori della giustizia il peso dei possibili fallimenti
2. Il processo, il fattore tempo e la retromarcia della politica
All’origine delle difficoltà della riforma sta il mediocre compromesso politico realizzato sul nodo cruciale dell’intervento riformatore: il fattore tempo. Scorrendo l’ideale quadro sinottico a tre colonne che vede allineati il disegno di legge delega del Ministro Bonafede (Atto Camera 2435), l’articolato normativo proposto dalla Commissione Lattanzi (incaricata dal guardasigilli di studiare gli interventi opportuni) e il complesso degli emendamenti della Ministra Cartabia si colgono le notevoli differenze di impostazione tra i tre testi e in particolare si nota la diversa attenzione riservata alle misure in grado di garantire una ragionevole durata dei processi. Nella relazione e nell’articolato normativo ad essa allegato, la Commissione ministeriale presieduta da Giorgio Lattanzi si era mostrata consapevole che la riduzione dei tempi dei processi penali non si proclama né si realizza per decreto ma può scaturire solo da una pluralità di interventi innovativi e coraggiosi, destinati da incidere su diversi aspetti della giurisdizione penale e su diverse fasi del processo. Naturalmente una politica della ragionevole durata del processo non si esaurisce neppure nella disciplina processuale giacché ha bisogno – come peraltro il PNRR prevede ‒ di investimenti in strutture, dotazioni tecnologiche, personale di supporto oltre che di una ragionevole intensità di lavoro dei magistrati e di tutti gli operatori della giustizia. Ma ogni politica è destinata a sicuro insuccesso se il processo si rivela un pozzo senza fondo per effetto di meccanismi processuali che determinano la vuota dispersione di energie e non favoriscono un uso oculato della risorsa scarsa e costosa del processo penale. Di qui la scelta della Commissione di formulare un insieme di proposte operative miranti a realizzare quattro grandi obiettivi: incisiva deflazione del carico giudiziario, più ampio accesso alle alternative al processo, filtri più rigorosi dei processi destinati al dibattimento, significativa riduzione delle impugnazioni.
Su almeno tre di questi versanti gli emendamenti presentati dalla Ministra della Giustizia al disegno di legge delega del Ministro Bonafede rappresentano un passo indietro:
a) in primo luogo appaiono ridotti e depotenziati gli strumenti miranti alla deflazione dell’insostenibile carico penale immaginati dalla Commissione. Negli emendamenti ministeriali non vi è infatti più traccia dell’istituto dell’archiviazione meritata che la Commissione Lattanzi aveva proposto di innestare nel nostro ordinamento in considerazione della buona prova offerta in numerosi altri Paesi. Si è così rinunciato a un istituto che avrebbe permesso «di non esercitare l’azione penale (o di estinguere l’imputazione in un momento successivo alla sua formulazione), laddove questa appaia oggettivamente superflua, perché l’indagato (o, a seconda dei casi, anche l’imputato) ha posto in essere condotte positive nei confronti della collettività e/o della vittima di reato, idonee a compensare l’interesse pubblico e privato leso». Più circoscritti gli scostamenti tra Commissione e Ministero riguardanti altri due fondamentali meccanismi deflattivi: la non punibilità per tenuità del fatto e la sospensione del processo per messa alla prova. Meccanismi che la Commissione aveva proposto di ampliare più generosamente e la cui portata il Ministero ha inteso ridurre, dando l’impressione che in sede di mediazione politica la linea del rigorismo abbia cercato e ottenuto piccole vittorie rispetto alla più radicale e coraggiosa impostazione dell’organismo consultivo;
b) anche sui procedimenti speciali e segnatamente sul patteggiamento la proposta del Ministero si attesta su scelte estremamente più caute e restrittive (e perciò meno intensamente deflattive) rispetto a quelle prospettate dalla Commissione. Quest’ultima si era spinta a ritenere opportuna una «riduzione per il rito fino alla metà della pena in concreto» e a suggerire l’eliminazione delle preclusioni oggettive e soggettive al patteggiamento previste dal comma 1 bis dell’art. 444 codice di procedura penale mentre il testo del Ministero si limita a ribadire che «quando la pena detentiva da applicare supera due anni, l’accordo tra imputato e pubblico ministero possa estendersi alle pene accessorie e alla loro durata», con il corollario che «in tutti i casi di applicazione della pena su richiesta, l’accordo tra imputato e pubblico ministero possa estendersi alla confisca facoltativa e alla determinazione del suo oggetto e ammontare»;
c) del tutto abbandonata, infine, appare la prospettiva di una incisiva riduzione dei giudizi di appello, da realizzare attraverso le numerose ipotesi inappellabilità suggerite dalla Commissione ministeriale: inappellabilità delle sentenze di condanna e di proscioglimento da parte del pubblico ministero; inappellabilità per l’imputato delle sentenze di proscioglimento relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa; inappellabilità delle sentenze di proscioglimento e dei capi civili delle sentenze di condanna ad opera della parte civile in sede penale. Il nascente dibattito sulle ragioni ispiratrici e sulla legittimità dell’esclusione dell’appello del pubblico ministero (e correlativamente dei molto più numerosi appelli delle parti civili) è dunque superato dalla scelta del Ministero, che si limita a riproporre le limitate ipotesi di inappellabilità già contemplate nel disegno di legge Bonafede riguardanti le sentenze di proscioglimento e di non luogo a procedere relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa e la sentenza di condanna sostituita con il lavoro di pubblica utilità.
Non è facile comprendere le ragioni della repentina rinuncia da parte del Ministro in carica a così tanti punti, numerosi e qualificanti, del progetto innovatore frutto della Commissione da lei stessa incaricata. Registriamo però che la combinazione di minore deflazione, meno agevole accesso alle alternative al processo e rinuncia al ridimensionamento delle impugnazioni allontana il raggiungimento, attraverso percorsi fisiologici, dell’obiettivo della ragionevole durata del processo e drammatizza ulteriormente il nodo, da sempre aggrovigliato, della prescrizione. Così che la vistosa retromarcia innestata dal Governo rischia di sostituire alla razionalità processuale un comando politico astratto e velleitario sui tempi da rispettare nelle fasi di giudizio successive al primo grado.
3. Una terza via sulla prescrizione?
L’inadeguatezza dell’approccio prescelto si rivela appieno a fronte del difficile compito di individuare soluzioni accettabili all’annosa questione della prescrizione. Su questo terreno il Ministro ha scelto una terza via rispetto alle alternative che si erano delineate nel corso degli anni e che erano state ben descritte e sistematizzate dalla Commissione Lattanzi. Da un lato c’era la prospettiva, più aderente al regime tradizionale della nostra prescrizione, di mantenere in vita i termini di prescrizione sostanziale dei reati, sospendendoli e facendoli rivivere in caso di sforamento dei termini temporali previsti per i giudizi di appello e di cassazione. Sull’altro versante si profilava la possibilità di mutare sistema, optando per la cessazione della prescrizione in coincidenza con l’esercizio dell’azione penale e per l’ingresso del processo in un nuovo regime di “prescrizione processuale” concernente i tre gradi del giudizio penale.
Il tertium genus oggi proposto nasce da una meccanica operazione di addizione. Al vigente regime della prescrizione adottato dalla maggioranza Cinque Stelle-Lega su impulso del Ministro Bonafede (regime evidentemente ritenuto intoccabile per salvaguardare gli equilibri politici della maggioranza) si intende sommare un successivo dispositivo processuale che sanziona con l’improcedibilità i giudizi di appello e di cassazione non celebrati entro i tempi previsti dal legislatore. Si è dinanzi a un sistema ibrido, in grado di produrre non pochi effetti paradossali, tempestivamente messi in luce nel dibattito che si è immediatamente sviluppato su molteplici media: non solo la stampa quotidiana e le riviste ma anche le mailing list e le chat che raccolgono le obiezioni, le reazioni e le preoccupazioni dei magistrati .
Ci saranno processi rapidamente definiti in primo grado che si estingueranno per il mancato rispetto dei termini per la celebrazione del giudizio di appello quando sarà ancora lontano il termine di prescrizione previsto dalla preesistente normativa. Così come ci saranno processi che si concludono a ridosso della scadenza del previgente termine di prescrizione e che verranno prolungati dall’entrata in funzione degli ulteriori termini procedurali introdotti per appello e cassazione. Ne verrà sconvolta tutta la logica che collega la prescrizione al decorso di un determinato lasso di tempo dalla commissione del reato in ragione dell’oblio prodotto dal tempo e del venir meno dell’interesse pubblico alla repressione di fatti criminosi molto risalenti nel tempo.
Ma al di là di questi effetti (che potrebbero essere minimizzati perché ritenuti occasionali, marginali e non decisivi) conteranno le già dichiarate inadeguatezze di importanti Corti di appello a rispettare i termini biennali o triennali (a seconda della gravità dei reati) contemplati dalla nuova normativa che si vuole introdurre. Inadeguatezze, si badi, che resteranno irrisolte anche a causa della drastica riduzione dei meccanismi di deflazione prefigurati nei lavori della Commissione Lattanzi. Né, in relazione alle Corti di appello più efficienti e virtuose ‒ in teoria in grado di rispettare i tempi che saranno fissati dal legislatore ‒ ci si può troppo fidare di “medie temporali” di smaltimento che possono soffrire eccezioni proprio per i processi più complessi e di maggior impatto pubblico.
L’ibrido “prescrizione sostanziale operante lungo l’arco del giudizio di primo grado – improcedibilità per superamento dei termini nei gradi successivi” rischia dunque di fallire il suo pur condivisibilissimo scopo di non relegare in una sorta di lungo o lunghissimo limbo i processi conclusi in primo grado nel rispetto dei termini della prescrizione sostanziale. Sembra opportuno, perciò, abbandonare i puntigli politici e le proclamazioni di facciata che hanno ispirato il mediocre compromesso di cui parliamo, ritornando a considerare le soluzioni e le alternative limpidamente indicate dai tecnici incaricati del compito di districare la matassa della prescrizione e della ragionevole durata del processo penale. Alla politica spetta naturalmente il compito di scegliere ed essa è oggi nelle migliori condizioni per farlo, rispettando le incalzanti scadenze previste per l’erogazione dei fondi europei per la giustizia. Ma scegliere non significa confezionare l’ennesima soluzione farraginosa e confusa lasciando gli operatori della giustizia l’onere di aggirarsi nel labirinto creato dal gioco perverso dei veti, dei postulati pseudo ideologici, delle necessità propagandistiche.
Ho l’impressione che l’estensore della riforma della giustizia abbia completamente trascurato che il reato si debba considerare essere la trasgressione perpetrata da chi lo commette delle regole alle quali la società civile chiede ad ogni cittadino di attenersi. Il reato perciò oltre a colpire chi lo subisce, che può anche essere in alcuni casi l’intera comunità , colpisce sempre la stessa intera comunità e mentre finora si è parlato sempre solo di reiterazione del delitto si è trascurato l’altro aspetto che riguarda l’osmosi dei comportamenti. Rispetto agli studi precedenti intravedo per quanto detto in questo articolo un notevole peggioramento! Si sta trattando un problema che riguarda cittadini e società o solo logiche burocratiche composte da pratiche con maree di documenti, che quando diventano troppi per poterli leggere tutti non ci sia altro da fare che bruciarli. Uno Stato che aspiri a migliorare la società che gestisce dovrebbe analizzare al massimo tutte le situazioni che intervengono a creare disagio sociale proprio evitare che si ripresentino. A questo devono servire le Riforme. L’altro risultato che i tempi si accorcino è molto più probabile che lo si raggiungerebbe in ogni caso. Mi rendo conto delle difficoltà di attuazione di questa logica riformatrice. L’apparato si è costituito nel tempo con abitudini e comportamenti che difendono le modalità vigenti ed anche la società e i cittadini vivono in simbiosi con lo stesso. Come si deve fare a modificare questo andazzo che è tanto pieno di motivazioni giuste o sbagliate che lo sostengono? Credo che questa volta più di altre sia necessario introdurre una motivazione di principio che renda più chiaro possibile l’obiettivo finale da raggiungere. Ora l’obiettivo mi sembra del tutto diverso dalla giustizia mi sembra avere i soldi dall’Europa.