Genova. Una stagione ribelle da declinare al futuro

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1.

Il vertice del G8 di Genova giunse in una fase di grande forza del movimento dei movimenti e l’appuntamento del luglio 2001 rappresentava il primo momento di rilevanza globale in cui l’orizzontalità della speranza di un altro mondo possibile costruita dalle lotte si confrontava con la verticalità dei poteri forti che tutto determinava, in totale separatezza “medievale” dai popoli. «Voi G8, noi 6 miliardi» era lo slogan che riassumeva la profondità dell’antagonismo politico e culturale.

Tutte e tutti conosciamo quale fu la risposta dei diversi poteri alle istanze portate avanti dal movimento dei movimenti: «La più grande violazione dei diritti umani in un paese occidentale dal dopoguerra ad oggi» fu la sintesi che ne fece Amnesty International. Il movimento fu scientificamente e ferocemente attaccato, e, dentro quelle giornate, fu costretto ad abbandonare prematuramente la propria infanzia, sperimentando, accanto all’entusiasmo della speranza che ne costituiva la cifra, la tragicità della morte, con l’uccisione di Carlo Giuliani, della tortura a Bolzaneto, del massacro alla scuola Diaz. L’obiettivo era chiaro: terrorizzare quel movimento nascente per spingere le aree più pacifiste e più legate al cattolicesimo sociale a tornare a casa e colpire le aree più radicali per trascinarle dentro un conflitto più violento e poterle di conseguenza ghettizzare.

Di quei giorni, facendo parte, come rappresentante di Attac Italia, del Consiglio dei Portavoce del Genoa Social Forum, ricordo ancora adesso l’intensità delle emozioni individuali e collettive e la drammaticità delle scelte da proporre a centinaia di migliaia di persone. Ricordo soprattutto la straordinaria intelligenza collettiva che quel movimento seppe mettere in campo, non cadendo nella trappola, rimanendo unito e capace di attraversare l’enormità della violenza che gli era stata scaricata contro. Fu quel movimento, unito, che poco più di un anno dopo, realizzò il Forum Sociale Europeo a Firenze (novembre 2002) e che partecipò, con la più grande manifestazione nazionale di sempre (tre milioni di persone), alla più grande manifestazione globale di tutti i tempi contro la guerra nel febbraio 2003.

Ma la mobilitazione contro la guerra in Iraq segnò l’apice della mobilitazione sociale di quella stagione e contemporaneamente ne avviò il declino.

Se un movimento così ampio, forte e plurale non era riuscito a determinare neppure lo spostamento di un giorno dell’avvio dell’attacco armato all’Iraq, voleva dire che lo stesso modello capitalistico si era trasformato e, dal lancio della “guerra globale permanente” seguito all’attacco delle Torri Gemelle, stava progressivamente divorziando dalla democrazia, per quanto formale. Quel modello, non potendo più contare sul consenso, scelse l’imposizione autoritaria. Un secondo elemento di declino fu determinato dalle caratteristiche di quel movimento, che era soprattutto a vocazione globale e internazionale, ma senza una declinazione territorialmente consolidata. Una volta che i poteri forti decisero di sospendere la sovra-esposizione dei grandi vertici – vere e proprie manifestazioni di potere ostentato – sostituendoli con incontri altrettanto dannosi ma formalmente più sobri, la chiamata alla mobilitazione verso quegli appuntamenti perse molta dell’intensità precedente. Contemporaneamente, la scelta del Partito della Rifondazione Comunista, l’unico partito che coraggiosamente aveva accettato la sfida del movimento dei movimenti standone all’interno con intelligenza e generosità, di abbandonare il campo dell’alternativa per entrare nel governo Prodi, acuì il disorientamento sociale.

Quel movimento pian piano si disperse, ma, contrariamente a quanto sostenuto dalla narrazione dominante, non scomparve: quelle migliaia di attiviste e di attivisti tornarono, ciascun* con il proprio zainetto ricco di esperienza, a far politica nei territori, traducendo nella quotidianità le analisi globali e provando a intervenire nei conflitti territoriali. Fino a produrre risultati straordinari: dieci anni dopo Genova, una inedita esperienza di partecipazione popolare, reticolare e diffusa, portò alla vittoria dei referendum per l’acqua pubblica e contro la sua privatizzazione, coinvolgendo la maggioranza assoluta del popolo italiano. L’esperienza del movimento per l’acqua non fu ovviamente un risultato diretto del movimento dei movimenti che aveva realizzato Genova, ma senza Genova non avrebbe mai potuto nascere. Così come moltissime, e altrettanto egregie, lotte territoriali che, da allora ad oggi, continuano ad attraversare il paese, nel nome del paradigma dei beni comuni e della democrazia partecipativa.

2.

Sono passati due decenni da quelle giornate e le analisi e le proposte messe in campo da quel movimento si sono dimostrate per certi versi profetiche: la finanziarizzazione dell’economia e della società ha portato alla crisi globale del 2007-8; la totale non considerazione della relazione uomo-natura ha comportato la crisi climatica, fino all’arrivo della pandemia da Covid-19, nella quale siamo immersi da ormai due anni.

Proprio la pandemia – che sarebbe più corretto definire sindemia, essendo stretta l’interrelazione fra il problema sanitario e le condizioni economiche, sociali e ambientali in cui è maturato – ha evidenziato in maniera esponenziale le insuperabili contraddizioni del modello capitalistico e la sua totale insostenibilità. La pandemia ci ha posto davanti a un bivio. E se la strada sinora intrapresa dai grandi poteri economico-finanziari e dai governi ha puntato a chiuderne la faglie per riproporre l’ineluttabilità del modello capitalistico, noi sappiano che quella direzione rende irreversibile la crisi ambientale e climatica e cristallizza la diseguaglianza sociale, dividendo il mondo fra vite degne e vite da scarto. E abbiamo consapevolezza di come un sistema siffatto possa proseguire solo se incardinato dentro un telaio iper autoritario e di ulteriore espropriazione della democrazia.

È esattamente per questo che torna d’attualità ciò che venti anni fa ha mosso il movimento dei movimenti: la necessità di non limitarsi alla difesa dell’esistente in termini di diritti e beni comuni, ma di porre, oggi come allora, la sfida al livello dell’alternativa di società, facendo proprie le faglie aperte dalla pandemia nella narrazione liberista e trasformandole in fratture per la costruzione di un altro modello sociale. Una società basata sulla cura, che metta al centro la vita e la sua dignità, che sappia di essere interdipendente con la natura, che costruisca sul valore d’uso le sue produzioni, sul mutualismo i suoi scambi, sull’uguaglianza le sue relazioni, sulla partecipazione le sue decisioni.

Venti anni fa un movimento ampio, inclusivo e globale osò sovvertire il perimetro dato e, dichiarando «un altro mondo è possibile», pronunciò l’indicibile e sfidò i potenti della Terra. Oggi quell’orizzonte è ancora più necessario se si vuole garantire una vita degna a tutte e tutti. La stagione ribelle che ha aperto il millennio propose una direzione: è giunto il momento di rimettersi in cammino.

Una versione più ampia dell’articolo è pubblicata sul n. 47, luglio-agosto 2021, di Granello di Sabbia – periodico di Attac Italia, con il titolo 20 anni di lotta e di speranza  (https://www.attac-italia.org/granello-di-sabbia-n-47-2021-20-anni-di-lotta-e-di-speranza/).

Gli autori

Marco Bersani

Marco Bersani, laureato in filosofia, è dirigente comunale dei servizi sociali e consulente psicopedagogico per cooperative sociali. Socio fondatore e coordinatore nazionale di Attac Italia, è stato fra i promotori del Forum italiano dei movimenti per l'acqua e della campagna “Stop Ttip Italia”.

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