Ustica: una strage, tanti silenzi, alcune le certezze

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Da 41 anni l’isola di Ustica è indissolubilmente associata a una delle stragi più sanguinose della nostra storia.  

Il 27 giugno 1980 alle 20.08 un DC-9 della compagnia aerea Itavia con a bordo 81 persone decollò dall’aeroporto di Bologna diretto a Palermo. L’arrivo a Punta Raisi era previsto per le 21.13 ma l’aereo non arrivò mai a destinazione. L’ultimo suo contatto radio, con la torre di controllo di Roma, avvenne alle 20.59 mentre si trovava a circa 7000 metri di altezza sul braccio di mare compreso tra le isole di Ponza e di Ustica e viaggiava alla velocità di 800 km orari. Dopo quel contatto le comunicazioni si interruppero e il DC-9 scomparve dai radar. Solo la mattina successiva a 110 km a nord di Ustica vennero avvistati una grossa chiazza di carburante, dei relitti e, poi, i corpi di alcuni passeggeri. La notizia occupò, ovviamente, le prime pagine dei quotidiani del 28: “L’aereo Itavia è esploso in aria. Mistero sulle cause del disastro” (La Repubblica), “Esplode a 7500 metri sul mare: 81 morti” (Stampa Sera), “Cade in mare con 81 persone sulla rotta tra Bologna e Palermo” (Corriere della Sera). Da allora, appunto, Ustica evoca una delle molte stragi senza colpevoli accertati che hanno insanguinato l’Italia tra il dicembre 1969 (data delle bombe in piazza Fontana a Milano) e l’inizio degli anni ’80 (fino alla strage del 23 dicembre 1984 sul rapido 904).

In questi quarant’anni molto si è detto e scritto al riguardo, da ultimo in due libri preziosi: Luca Alessandrini [a cura di], 1980: l’anno di Ustica (Mondadori Università, 2020) e Cora Ranci, Ustica, Una ricostruzione storica (Laterza, 2020). E ciò consente di sottolineare, insieme ad alcune incertezze, molti punti fermi.

Primo. Sul versante giudiziario quella di Ustica è tuttora una strage senza colpevoli. Ad essa sono seguiti ben dieci processi, penali (uno per la strage e uno nei confronti di ufficiali di primo piano dell’Aeronautica militare imputati di alto tradimento e falsa testimonianza) e civili (promossi da parenti delle vittime e dal proprietario della Compagnia Itavia contro i Ministeri della Difesa e dei Trasporti), che hanno portato, in sede istruttoria e nei vari gradi di giudizio, a 20 sentenze dal cui intreccio emerge in modo univoco che il DC9 è stato coinvolto in un’operazione di intercettamento aereo, condotta nei confronti di un velivolo libico, che volava nella sua ombra per non essere avvistato dai radar, da aerei verosimilmente statunitensi o francesi. Nessun cedimento strutturale dell’aereo dunque, come pure inizialmente sostenuto da molti anche in sede politica (provocando così, tra l’altro, il fallimento di Itavia) e nessuna esplosione di ordigni collocati all’interno del DC-9, secondo una tesi fatta balenare da una prima falsa rivendicazione e adombrata per anni (fino alla prima perizia disposta in sede penale dal giudice istruttore di Roma). Resta incerto solo se l’esplosione del DC-9 venne provocata dallo scontro con uno degli aerei coinvolti nell’intercettamento o dal lancio di un missile: in ogni caso in uno scenario caratterizzato da un andirivieni di jet militari di diversa nazionalità che nessuno vide sol perché tutti finsero di non vedere (nell’immediato e nell’esame delle immagini dei radar).

Secondo. Quella di Ustica è una strage comunemente accostata a quelle degli anni di piombo. Accostamento condivisibile per un verso, ma errato per un altro: errato perché l’esplosione del DC-9 non fu opera di terrorismo interno ma affondò le sue radici in dinamiche di carattere internazionale; condivisibile perché, come le altre stragi, è stata seguita da un atteggiamento istituzionale che ha consapevolmente allontanato l’accertamento della verità, contribuendo a scrivere una delle pagine più buie della nostra storia repubblicana. L’azione di depistaggio istituzionale si è dispiegata attraverso la diffusione di false ipotesi ricostruttive, la mancanza di ogni collaborazione delle autorità militari con gli inquirenti, il rinvio di anni nel recupero del relitto dell’aereo, l’occultamento, la manipolazione e la distruzione di documenti e di altri materiali probatori, fino al condizionamento degli accertamenti peritali disposti nel procedimento penale, al punto da far dire ai pubblici ministeri che la prima perizia «è affetta da tali e tanti vizi di carattere logico, da tante contraddizioni e distorsioni del materiale probatorio raccolto […] da essere inutilizzabile» e al giudice istruttore che «le attività dei periti incaricati delle perizie principali […] sono state non poche volte disturbate da interferenze ed anche inquinate da interventi di ambienti di imputati e consulenti di parte dell’Aeronautica militare, interferenze ed interventi generati da rapporti e collegamenti tra periti d’ufficio e ufficiali dell’Arma, che hanno determinato nei primi – per insipienza, infedeltà, incapacità morali e conoscitive – degli stati di subordinazione e dipendenza in totale contrasto con il dovere di indipendenza d’ogni ufficio del giudice».

Terzo. Depistaggi, complicità e infedeltà di settori rilevanti delle istituzioni, in rigorosa continuità con quanto accaduto in altre vicende parallele, sono una delle facce della strage di Ustica. L’altra faccia, speculare e contraria alla prima, è quella del peso avuto nell’accertamento della verità dai familiari delle vittime e da settori dell’informazione e dell’opinione pubblica. Un ruolo decisivo, in particolare, hanno avuto dapprima, nel 1986-87, il Comitato per la Verità su Ustica, presieduto dall’ex presidente della Corte costituzionale Francesco Paolo Bonifacio e formato da sette autorevoli personalità di diversa estrazione politica e culturale e poi, a partire dal 1988, l’Associazione parenti delle vittime della strage di Ustica. Ad essi si devono sia la (tardiva) decisione del Governo di stanziare le risorse necessarie al recupero del relitto del DC-9 (indispensabile ai fini dell’accertamento delle cause della sua caduta in mare) sia la ripresa e il rilancio delle indagini che, nel 1986, si stavano avviando a conclusione con un generale proscioglimento accompagnato dalla totale incertezza sulla dinamica della strage. Né va dimenticato il ruolo dell’informazione che, attraverso interventi e inchieste anche di testate mainstream, fece emergere la contraddittorietà e l’inconsistenza delle versioni ufficiali: effetto di quella che Giorgio Bocca definì la «breve stagione del sogno» del giornalismo italiano «quando il risanamento delle imprese editoriali avviato dalla riforma del 1981 portò […] a un ritrovato dinamismo della stampa e soprattutto alla ricerca di autonomia e di un rapporto dialettico con il potere politico».

C’è una conclusione che va oltre il caso specifico. Dopo 40 anni esiste su Ustica una verità definita da molti processi. È peraltro ‒ come in quasi tutte le stragi che hanno insanguinato il Paese negli anni ’70 e ’80 ‒ una verità limitata e parziale: appagante quanto alla dinamica del fatto ma ferma alle soglie dell’identità dei responsabili, che pure è il proprium dell’accertamento giudiziario. Le ragioni sono molteplici. Ma ciò apre scenari più generali. Nel nostro Paese c’è stata, negli ultimi decenni, una frequente delega alla giurisdizione non solo di attribuzioni della politica ma anche di compiti propri degli storici. Così, grandi fenomeni che hanno attraversato la storia nazionale – dal terrorismo alle mafie – sono stati ricostruiti e interpretati soprattutto nelle aule dei tribunali (e talora anche, impropriamente, in scritti di pubblici ministeri e giudici), relegando gli esiti della ricerca storica a una sorta di verità minore. È stato – ed è – un errore ché l’accertamento giudiziario, pur fondamentale nell’assetto democratico del Paese, ha dei limiti insuperabili sia di contenuto che di metodo. Sarebbe bene non dimenticarlo.

L’articolo riprende una recensione dell’autore pubblicata su L’indice dei libri

Gli autori

Livio Pepino

Livio Pepino, già magistrato e presidente di Magistratura democratica, dirige attualmente le Edizioni Gruppo Abele. Da tempo studia e cerca di sperimentare, pratiche di democrazia dal basso e in difesa dell’ambiente e della società dai guasti delle grandi opere. Ha scritto, tra l’altro, "Forti con i deboli" (Rizzoli, 2012), "Non solo un treno. La democrazia alla prova della Val Susa" (con Marco Revelli, Edizioni Gruppo Abele, 2012), "Prove di paura. Barbari, marginali, ribelli" (Edizioni Gruppo Abele, 2015) e "Il potere e la ribelle. Creonte o Antigone? Un dialogo" (con Nello Rossi, Edizioni Gruppo Abele, 2019).

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