«Immigrato nigeriano, permesso di soggiorno scaduto, spacciatore di droga. È questa la “risorsa” fermata per l’omicidio di una povera ragazza di 18 anni, tagliata a pezzi e abbandonata per strada. Cosa ci faceva ancora in Italia questo VERME? Non scappava dalla guerra, la guerra ce l’ha portata in Italia». È un post dell’allora Ministro dell’Interno Matteo Salvini pubblicato su Facebook il primo febbraio 2018 (1). Frase che con ogni probabilità è stata “ripubblicata” decine di migliaia di volte e letta da decine di migliaia di persone.
Secondo il “barometro dell’odio” sviluppato da Amnesty International durante le elezioni politiche del 2018 in 23 giorni sono state raccolte 787 segnalazioni attinenti a discorsi d’odio, più di un messaggio offensivo, razzista e discriminatorio all’ora moltiplicato dalla Rete; il 43,5% delle dichiarazioni segnalate sono pervenute dai leader; il fenomeno migratorio è stato il tema centrale delle segnalazioni: il 91% delle dichiarazioni hanno avuto per bersaglio migranti e immigrati; l’11% delle dichiarazioni ha riguardato discriminazioni di tipo religioso, veicolando sentimenti islamofobici (2). Ciò significa che i primi ad alimentare l’epidemia del discorso d’odio on line sono stati candidati politici o comunque personaggi pubblici. Il linguaggio d’odio, dunque, non solo è tollerato e accettato dall’opinione pubblica, ma è addirittura considerato simbolo di autorevolezza, di forza politica, fonte di rassicurazione contro eventuali pericoli e minacce esterne. Non pare un caso che da quando i social network sono diventati il principale strumento di comunicazione di massa, il virus dell’hate speech si sia ampiamente diffuso attraverso la rete. Sempre attraverso i social network Matteo Salvini ha fatto un uso più sottile del linguaggio d’odio con il post del 28 febbraio 2017: «La notte del 21 febbraio un immigrato indiano ha aggredito una ragazza a Firenze cercando di strangolarla». In questo caso il messaggio razzista viene trasmesso in modo meno esplicito: è sufficiente aggiungere un elemento non richiesto – la condizione di immigrato del presunto autore del crimine e la sua nazionalità ‒ e il risultato è quello di diffondere la convinzione che esista un legame di causa-effetto fra l’essere immigrato indiano e il perpetrare aggressioni (3).
Il linguaggio salviniano ha memoria lunga ed è stato utilizzato, oltreché dal primo diffusore di questi messaggi, da diversi giornalisti. Chiunque ricorderà il titolo in prima pagina che il quotidiano Libero pubblicò il giorno successivo agli attentati di Parigi nel 2015: «Attentati a Parigi. BASTARDI ISLAMICI».
Per questo titolo l’allora direttore del quotidiano Maurizio Belpietro è stato sottoposto a giudizio penale per il reato di «offese alla religione mediante vilipendio delle persone» previsto dall’art. 403 del codice penale. Ma la richiesta dell’accusa non è stata accolta e l’imputato è stato assolto perché, secondo il Tribunale, «la fattispecie di reato è integrata solo se l’offesa sia diretta a una persona che professa la religione o a un ministro di culto e attraverso la condotta offensiva sia stato offeso il sentimento religioso della collettività dei fedeli. [….] Il vilipendio alla religione deve transitare attraverso l’offesa del singolo individuo che diviene oggetto di tale condotta mentre non vi è vilipendio se l’offesa è rivolta alla moltitudine indifferenziata dei credenti» (4). La responsabilità di un esito così paradossale è certamente frutto della imprecisione delle norme vigenti (5) ma è certo che l’idea stessa di escludere la responsabilità proprio perché l’offesa è rivolta «alla moltitudine», mantenendola se l’offesa è più circoscritta, cozza con il buon senso comunque e con principi minimi di rispetto, che sono la condizione della coesione sociale.
Nel linguaggio giuridico in ambito civile l’hate speech corrisponde alla definizione “molestia razziale”. La molestia è una forma di discriminazione vera e propria ed è definita dalla normativa nazionale e sovranazionale come un «comportamento indesiderato avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo». Le espressioni riportate all’inizio dell’articolo ben rientrerebbero in questa definizione. Ma vi rientrano anche espressioni meno eclatanti. Così, secondo la Corte d’appello di Milano, anche l’espressione «clandestini» indirizzata ai richiedenti asilo (che clandestini non sono) costituisce molestia razziale perché tende a creare un clima di odio e di rigetto verso un gruppo sociale caratterizzato da appartenenze etniche non europee. Naturalmente l’obbligo di «rispetto della dignità altrui» nel linguaggio, si confronta continuamente con la rivendicazione della libertà di espressione e la ricerca di un punto di equilibrio è sempre difficile. Non vi è dubbio, però, che quando sussistano i requisiti ricordati, il bilanciamento deponga a favore della prevalenza del divieto di molestia, non potendo la libertà di espressione sfociare in un’offesa alla dignità collegata a una caratteristica personale (l’etnia, il genere, le convinzioni personale ecc.) che l’ordinamento ritiene destinataria di particolare tutela. È quindi certamente una molestia, secondo il Tribunale di Milano, l’espressione «i rom sono la feccia della società» anche se pronunciata da un esponente politico che ha tra i suoi obiettivi l’espulsione dei rom dalla compagine sociale.
C’è, peraltro, un fattore, ripetutamente affacciatosi nella giurisprudenza, che contrasta e mette in pericolo il divieto di molestia come strumento di difesa nei confronti dell’hate speech. È l’idea che connettere un comportamento riprovevole a un’etnia significhi offendere l’autore del comportamento e non l’etnia. Così, ad esempio, la Corte d’appello di Torino ha ritenuto che un post nel quale l’autrice si augurava che venissero «mozzate le mani» (augurio condito con altri epiteti irripetibili) agli zingari, fosse semmai una offesa ai ladri e non una offesa all’etnia rom e che dunque non si potesse far questione di molestia razziale. Sul versante opposto si collocano non solo le decisioni già richiamate, ma anche una recentissima pronuncia della la Corte Europea per i diritti umani che ha condannato l’Italia per non avere permesso a una nonna di etnia rom di incontrare la nipotina per numerosi anni, nonostante le relazioni positive dei servizi sociali. Il rifiuto del giudice tutelare si basava sul pregiudizio secondo cui i rom cercano di «rapire i bambini affidati ai servizi sociali». Nonostante la Corte non abbia motivato la decisione sulla violazione dell’art. 14 CEDU (principio di non discriminazione) bensì sulla violazione dell’art. 8 (diritto al rispetto della propria vita privata e familiare), i giudici di Strasburgo hanno comunque riconosciuto «l’esistenza di un problema sistemico in Italia» rappresentato dal pregiudizio degli stessi giudici interni nei confronti dell’etnia rom.
Se dunque la stessa magistratura – alla quale spetta trarre dalla legge la regola concreta della convivenza civile – appare talvolta incerta nel definire i confini del discorso d’odio, a maggior ragione una simile incertezza circola nel sentire comune e rende difficile il contrasto. I social network hanno dei “criteri di offesa” che se superati, fanno scattare la segnalazione e la cancellazione del post. Ma non sono criteri universali, né sono stabiliti per legge. Nel frattempo, l’hate speech si diffonde, perché è un virus imprevedibile, che si propaga in maniera generalizzata ed è «privo di sovrastrutture» (6); si alimenta di pregiudizi e si scatena sotto forma di odio razziale, e, non casualmente, è maggiormente diffuso in quelle democrazie occidentali dove i rapporti di potere e di supremazia dei “bianchi” sui “neri” sono ancora molto forti.
Note:
(1) Il post è tratto da F. Faloppa, Manuale di resistenza alla violenza delle parole, Utet, 2020.
(2) Amnesty International, Il barometro dell’odio, reperibile in Il barometro dell’odio – Amnesty International Italia.
(3) Il post è tratto da F. Faloppa, Manuale di resistenza alla violenza delle parole, cit.
(4) Tribunale Milano – 7 sezione penale, 18 dicembre 2017, estensore Calabi.
(5) L’art. 402 del codice penale che puniva il vilipendio della religione dello Stato è stato dichiarato incostituzionale con la sentenza n. 508/2000 della Corte costituzionale perché limitato alla sola religione dello Stato, ma non è stato sostituito da una previsione generale.
(6) F. Faloppa, Manuale di resistenza alla violenza delle parole, cit.
Purtroppo finché i fenomeni migratori e delle minoranze religiose verranno considerate come problemi di polizia è chiaro che chiunque sarà il Ministro dell’Interno avrà potere di bloccare o meno tali fenomeni e questo è sinonimo di emergenzialismo. A me personalmente tutto questo fa molta più paura del fenomeno migratorio.