Il tema del lavoro è sempre presente in due grandi italiani, Giacomo Leopardi e Primo Levi. Esso consente ad esempio di poter accostare la figura del legnaiolo de Il sabato del villaggio a quella dell’operaio de La chiave a stella, una moderna figura di artigiano che lo scrittore torinese estrae dalla propria vita e con la quale dialoga simpaticamente. Questo breve romanzo del 1978 (ristampato nel 2019 da Einaudi e diffuso con La Stampa in occasione dei cento anni della nascita dell’autore) è un vero e proprio elogio del lavoro, costruito non con un lessico letterario, ma con un “gergo di officina”, quello stesso di cui è capace peraltro il versificatore delle Storie naturali, un gergo fatto perlopiù di termini tecnici e di minuziose descrizioni relative a procedure pratico-tecnico-scientifiche, come pure di intense metafore dialettali, di proverbi popolari e di vivo senso dell’ironia. Ironia che, fatta eccezione per Se questo è un uomo e per I sommersi e i salvati, ritroveremo persino nella stessa Tregua oltre che nel più tardo Se non ora, quando?. Non solo perché ‒ confessa il chimico al montatore ‒ fine del narratore è di «regalare al lettore un momento di stupore e di riso» (p. 146), ma soprattutto perché il raccontare «è una delle gioie della vita» (p. 141). E tutti i lettori di Levi sanno bene il valore che il raccontare ha assunto per un testimone prezioso come lui. Senza il quale il mondo non avrebbe mai saputo «di che cosa l’uomo è stato capace, di che cosa è tuttora capace» (P. Levi, dalla Premessa a La vita offesa. Storia e memoria del Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, a cura di Anna Bravo e Daniele Jalla, Franco Angeli, 19966, p. 9). L’opera di Levi, dice infatti Maurice Goldstein (un suo compagno di campo), è «la più “vera” testimonianza su Auschwitz». Anche perché – osserva dal suo canto lo storico Federico Cereja, – «tutto quello che vi era da dire di fondamentale sul Lager nazista in Se questo è un uomo è stato detto». E al di là di ciò, al di là del suo apporto decisivo nella comprensione della realtà del Lager, un altro compagno di prigionia di Levi, Jean Samuel (Pikolo), pensando a scritti appunto come La chiave a stella, dice che Primo «sarebbe diventato un grande scrittore [anche] senza Auschwitz, non lo stesso sicuramente!» (cfr. Primo Levi. Il presente del passato, Franco Angeli, 1991).
Levi lascia che a tessere questo elogio del lavoro, pronunciato con parole a un tempo semplici, vive, intuitive e profonde, sia lo stesso Libertino o Tino Faussone, l’operaio specializzato nel montaggio di grandi ponteggi, un montatore meccanico torinese, uno che, come dice lui stesso in alcuni dei suoi divertenti e avventurosi racconti («Il ponte», «La coppia conica»), «su un lavoro ci mette tutti i suoi sentimenti» (p. 119), uno per il quale «ogni lavoro è come il primo amore» (p. 114), «uno di quelli che il suo mestiere gli piace» (p. 140). Si tratta di una persona genuina e mite, proprio come il falegname dell’idillio leopardiano: uomini per i quali la vita, come si legge nel Libro della Sapienza, non era affatto un trastullo né l’esistenza un mercato lucroso (15, 12). Attraverso la figura di Faussone, infatti, Levi sembra voler proporre l’idea di uomo giusto e integro, di operaio onesto e affidabile, la cui giustizia e onestà derivano dalla cura e dall’amore che egli mette nel suo lavoro, specie in quello più faticoso e difficile. Riprendendo inconsapevolmente un consiglio di Rilke, a un certo punto Tino afferma: «Io credo proprio che per vivere contenti bisogna per forza avere qualche cosa da fare, ma che non sia troppo facile; oppure qualche cosa da desiderare, ma non un desiderio così per aria, qualche cosa che uno abbia la speranza di arrivarci» (p. 144).
Questo semplice ma intenso encomio del lavoro, e proprio perciò mai vanitosamente di sé stessi – «I destini individuali non hanno importanza» dirà tra l’altro Ulybin, un capo partigiano russo, in Se non ora, quando? – lascia intravedere in Faussone una specie di sapienza, non solo tecnica, che si manifesta in una evidente, sicura e responsabile competenza, tale che, per riprendere il Siracide, qualsiasi cosa egli intraprendesse, il Signore lo benediceva (4, 13). Sebbene non sgorghi da un’intima vocazione, da una klésis o da una chiamata nel senso paolino, ma da una laboriosa tradizione familiare che si condensa in una sintesi di esperienza assimilata, questo amore per la sua attività ne determina col tempo, appunto, la competenza, la quale non è solo ‒ come diceva già Platone nella Repubblica ‒ la base su cui si fonda la giustizia sociale e ogni genere di responsabilità (premessa necessaria per la riuscita di ogni opera umana, compresa quella, molto ardua, che ha come fine la pace), ma è anche – osa supporre Levi – una qualità umana che coincide addirittura con la libertà (p. 143), la quale può trovare attuazione solo quando si vive la propria vita. Sorretto profondamente da un tale amore per il proprio lavoro, Tino è quel tipo di uomo senza hamartía, senza peccato, che certamente immaginavano a loro modo sia l’apostolo Paolo sia Ibsen, perché tutto l’agire di questo umile artigiano proviene da un convincimento di fede, da una pistis agapica, da una fede fondata sull’amore per il proprio lavoro. A proposito di agápe, infatti, credere nel proprio lavoro, nella propria vita e quindi in sé stessi, in coerenza con ciò che ognuno ha di più proprio, non vuol dire affatto essere egoisti, bensì altruisti, poiché – come diceva appunto Platone in quel dialogo – operando con una simile competenza e con una simile fede nel proprio lavoro, si creano le condizioni per la giustizia e per il bene sociale. L’umile e positiva fede nel lavoro, «la nobiltà del nostro lavoro, il suo valore educativo e formativo» – diceva già Levi in un’intervista del 1975 a proposito dell’uscita del Il sistema periodico – costituisce quel valore che, annotava Giorgio Calcagno, è sempre più dimenticato nella nostra cultura sociale, ma del quale Levi prende le difese come uomo e come scrittore (Echi di una voce perduta. Incontri, interviste e conversazioni con Primo Levi, Mursia, 1992, pp. 11-12, 58).
Sia per il poeta recanatese che per lo scrittore torinese il lavoro costituisce dunque uno dei valori fondamentali all’interno del «consorzio umano». In un racconto del 1986 («Bella come un fiore”, ne Il fabbricante di specchi, «La Stampa», Torino, 2007), secondo una paradossale tripartizione del mondo abitato, Levi riscontra ad esempio una certa comunanza tra piemontesi e inglesi, perché entrambi i popoli oltre che per la legge e l’ordine, hanno anche «l’amore per il lavoro ben fatto». Al di là di questo divertente paradosso, il lavoro nell’ambito di Se questo è un uomo – opera che secondo Philip Roth resta «uno dei libri veramente necessari del nostro tempo» – è riconducibile al concetto delle «inevitabili cure materiali» (Einaudi, 1989, pp. 14-15). Oltre alla «insufficiente conoscenza del futuro» e alla «sicurezza della morte», così inteso il lavoro è, per il testimone, uno dei tre momenti che certo si oppongono alla realizzazione della felicità e della infelicità perfette. Mentre da un lato, infatti, con la fatica che implica, inquina ogni felicità duratura, dall’altro tuttavia esso serve, serviva ‒ dice Levi ‒ almeno a distogliere la nostra attenzione dalla sventura che ci sovrastava, rendendone perciò sostenibile la consapevolezza e con ciò stesso evitabile l’infelicità perfetta.
Eppure in quel romanzo del 1978, durante una riflessione portata su uno dei racconti del montatore piemontese («Batter la lastra»), egli avanza l’idea secondo cui il lavoro per quanto renda impossibile la realizzazione di una felicità perfetta, tuttavia, qualora venga svolto e amato nel modo in cui lo ama e lo svolge Faussone, può almeno consentire di tendere a quella perfezione. «[L]’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) – scrive infatti Levi – costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono». Specialmente oggi, diremmo, in cui persino le alienanti grandi industrie, che pure per molti hanno avuto quella valenza educativa e formativa, sono in via di parcellizzazione, smantellamento e smaterializzazione. Ma – faceva notare Levi a coloro che in quegli anni da sinistra criticavano il suo romanzo – l’amore e l’odio per il lavoro «dipende molto dalla storia dell’individuo, e meno di quanto si creda dalle strutture produttive entro cui il lavoro si svolge» (pp. 78-79). Ciò per dire, in ultima analisi, che Faussone rappresenta per Levi non solo il possibile riscatto di quel lavoro e di quella libertà che con il loro “Arbeit macht frei” i nazisti (genia di “bestie verticali” potremmo definirli mutuando un’espressione dalle Storie naturali: Il sesto giorno) avevano legato con un cappio alla non-vita del Lager, ma rappresenta anche quel tipo di umanità della quale è possibile non vergognarsi più, della quale non sentirsi più colpevoli per il solo fatto di appartenervi (così scriveva amaramente ne Il sistema periodico: Cromo), dal momento che allora una parte di essa, quella stessa che aveva pur dato i natali ai geni più consacrati, era riuscita a concepire e a edificare Auschwitz.