Fuori la guerra dalla storia

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Sono sempre dell’opinione che ripudiare la guerra e quindi avere una politica estera favorevole alla trattativa e ridurre le spese per gli armamenti siano le migliori prevenzioni della catastrofe bellica, opinione che la diffusione delle armi di distruzione di massa non fa che confermare… Oggi si dice (e non è una battuta di umorismo nero) che gli arsenali atomici contengono armi tante da poter distruggere undici volte il pianeta, che è la definizione stessa di follia, quella che nel sonno della ragione genera mostri. Negli anni a cavallo dell’80 esplose il pacifismo, e io ero sempre presente. Stavo nell’organizzazione e nella promozione di tutte le marce per la pace, le manifestazioni, gli eventi: è mio il motto «Fuori la guerra dalla storia», lo slogan più presente in quegli anni.

Lidia Menapace se n’è andata pochi giorni fa, il 7 dicembre, e con queste sue parole, tratte dal libro autobiografico edito nel 2015, Canta il merlo sul frumento, mi piace ricordarla e renderle omaggio.

Sono la migliore introduzione alla presentazione di una recente proposta rilanciata nel contesto del dibattito di queste settimane intorno alla Legge di Bilancio in discussione in Parlamento. Tale legge prevede di spendere circa sei miliardi di euro nel 2021 per l’acquisto di nuovi sistemi d’arma. Si tratta di cacciatorpedinieri, cacciabombardieri, fregate, carri armati, missili e sommergibili… A fronte di ciò la Rete italiana Pace e Disarmo, insieme alla Campagna Sbilanciamoci!, porta avanti la proposta di una moratoria, almeno per un anno, dell’aumento delle spese militari (https://retepacedisarmo.org/2020/moratoria-su-spese-per-nuove-armi-nel-2021-6-miliardi-da-destinare-a-sanita-e-istruzione/).

In questo contesto di gravissima crisi pandemica e, di conseguenza, economica, la Rete ha diffuso un comunicato nel quale mette in evidenza alcuni degli investimenti che si potrebbero fare utilizzando diversamente queste risorse: con il costo di un solo F35 si potrebbero mettere in sicurezza 250 scuole; con l’equivalente del costo di un carro armato Ariete si potrebbero costruire 20 piccoli ospedali; con il costo di una sola fregata si potrebbero pagare 1200 infermieri per 10 anni… «Cosa ci difende meglio?» si chiedono gli estensori di questa proposta. La risposta appare scontata. Anche perché l’esperienza della pandemia ha messo in discussione molte delle nostre certezza, tra cui lo stesso concetto di “difesa”.

Nel senso comune è diffuso il pensiero che la difesa sia “naturalmente” affidata alle armi e che la nostra “sicurezza” si difenda alzando muri, chiudendo porti e confini, ben pattugliati da eserciti e sistemi militari. Ma di fronte al nemico invisibile del Covid-19, le armi, evidentemente, non servono. Anzi, si può osservare che proprio l’aver destinato grandi risorse alle spese militari, sottraendole alla sanità e alla ricerca, ci rende più scoperti e indifesi. Abbiamo visto, infatti, che nei confronti di questa emergenza il nostro sistema sanitario universalistico, che pure è uno dei migliori al mondo, vacilla e lamenta la mancanza di attrezzature, medici, strutture. Non siamo in grado di difenderci da questa aggressione perché ci siamo attrezzati a difenderci da altri “nemici”, drenando risorse importanti che ora ci mancano.

Il Covid-19 ci insegna dunque che il modo migliore di creare sicurezza è avere una società organizzata in modo tale da rispondere ai bisogni di tutti, a partire dalle fasce più deboli ed esposte. Una società di questo tipo saprà garantire anche le proprie “difese immunitarie” contro i pericoli, interni ed esterni, che possono minacciarla, sviluppando l’uso corretto del potere da parte di ciascuno, le capacità di autogoverno e di resilienza, nonché forme organizzate di difesa popolare nonviolenta che i movimenti per la pace da tempo propongono, per intervenire nei conflitti in modo diverso dalla guerra.

Si tratta perciò di ripensare radicalmente le politiche della difesa e degli investimenti ad esse connessi e di riprendere seriamente la riflessione avviata tempo fa anche da sindacalisti come Alberto Tridente, per fare un solo nome, sulla riconversione dell’industria bellica. Anche in considerazione dell’attuale situazione di crisi economica e occupazionale, infatti, è da tenere presente quanto da tempo sostiene Francesco Vignarca (della Rete italiana Pace e Disarmo) sullo scarso ritorno, in termini di occupazione, dell’industria degli armamenti, in relazione ad altri settori produttivi. In un webinar del 4 novembre scorso (https://serenoregis.org/evento/l-industria-militare-italiana-e-le-proposte-dei-movimenti-per-la-pace/) Vignarca ha citato studi di due università statunitensi che hanno fatto un confronto tra i posti di lavoro attivati in diversi settori a parità di investimento. Da tali ricerche risultano, per ogni milione investito nell’industria bellica, 7 posti di lavoro, che salgono a 9,5 se l’investimento è nel settore dell’energia solare, a 16 – 19 nel settore dell’istruzione e a 14,2 in quello della sanità. Se si considera, poi, che gli addetti al lavoro nel settore militare in Italia sono circa lo 0,21% della forza lavoro complessiva (lo 0,65% con l’indotto), Vignarca si chiede se vale la pena investire soldi pubblici per mantenere industrie di questo tipo, sapendo che tali “prodotti” alimentano conflitti in giro per il mondo, compromettendo la sicurezza di tutti…

Ci sono dunque non solo ragioni etiche, ma anche ragioni politiche ed economiche per rifiutare il sistema militare-industriale- scientifico dominato dalla guerra.

In questa direzione sarebbe doveroso almeno cominciare ad eliminare le armi più micidiali, come quelle atomiche. L’Italia, invece, non ha sottoscritto il trattato TPNW (Treaty on the prohibition of nuclear weapons) per la messa al bando delle armi nucleari approvato nel 2017 dalle Nazioni Unite, che, ottenute le 50 ratifiche necessarie, entrerà in vigore il 22 gennaio del 2021. Eppure, secondo un sondaggio di Greenpeace dello scorso ottobre, l’81% degli italiani vorrebbe che l’Italia aderisse al trattato e il 79% non vuole armi atomiche in Italia (nel nostro paese ci sono almeno 40 testate nucleari nelle basi militari USA di Ghedi e Aviano).

Per tutte queste ragioni appare del tutto sensato, concreto e proponibile chiedere che, intanto, almeno i 6 miliardi previsti per l’acquisto di nuovi sistemi d’arma nel 2021 siano invece destinati a sanità e salute.

Per ritornare a Lidia Menapace, poiché «la terribile selvaggia barbara scorciatoia delle armi non serve a nulla se non a imbarbarire tutto, e non scorcia nemmeno» sarebbe davvero una buona occasione per cominciare a mettere la guerra fuori dalla storia.

 L’articolo è pubblicato contestualmente sul sito del Cento Sereno Regis

Gli autori

Angela Dogliotti Marasso

Angela Dogliotti Marasso, già docente nella scuola media superiore, educatrice e formatrice, da sempre impegnata nel movimento non violento è attiva nel Centro Studi Sereno Regis, di cui è stata anche presidente sino al 2020.

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2 Comments on “Fuori la guerra dalla storia”

  1. Sarò per qualcuno un eretico, ma mi pare che tra i politici ormai sia sempre più sfumata la convinzione di dover fondare la difesa su armi sempre più letali. Dirò di più. Anche gente alla Salvini, allevato nella destra di chi si fida ciecamente del potere armato degli eserciti, ormai è ben più teso alla propaganda verso chi è nei secoli fedele: civili di una certa tradizione politica e militari incatenati alla visione che deriva dal loro mestiere.
    Cosa resta dunque, della motivazione reale alle politiche di superinvestimento pubblico nei sistemi d’arma? Due cose nient’affatto slegate: il cappio atlantico e le megasomme di denaro in gioco in un mercato globale che le nazioni “sviluppate” ritengono di dover presidiare con il massimo peso possibile.
    Nel primo caso, ormai mi sono abituato a cancellare ogni fiducia, riguardo a chi non ammetta di dover sottostare ad un vero e proprio cappio politico, tale da stravolgere convinzioni e costringere i veri pacifisti alla falsa vergogna di essere utopisti. Peccato che così si salvi quasi nessuno, in parlamento…
    Nel secondo caso, non servirebbe neanche un caso Regeni per scandalizzarsi di una “politica estera” che (così ridotta anche o soprattutto dal cappio di cui sopra) si riduce a stendere tappeti rossi alle aziende italiane nei mercati globali più forieri di investimenti (guarda caso, le armi vendute a chi le può usare e dunque pubblicizzare). Qualcuno direbbe: meno male che le principali aziende produttrici dei grandi sistemi d’arma sono “pubbliche”. Magari fosse semplicemente così. Se arriva un superinvestitore estero, mica lo cacciano: anzi, i governi si beano tanto dei contratti fatti sottoscrivere per le aziende italiane, tanto dei nuovi investitori attratti laddove si devono mettere in gioco più denari.
    Da notare che, nascosto sotto il tappeto il cappio atlantico, resta in superficie la motivazione del mercato globale. Come spazzarla via? Almeno riconoscendo che è polvere. Ovvero, gridando che stiamo parlando di denari ormai puramente virtuali, fatti sulla pelle realissima della gente.
    Finiamola di dare fiducia a chi in Parlamento dice che senza queste premesse (l’accettazione del cappio e l’affermazione dell’Italia nei “lucrosi” mercati globali dei sistemi d’arma) non si può neanche fare politica!

  2. Come far rivoltare nelle loro tombe le donne e gli uomini che si sono opposti alle guerre come la partigiana storica femminista Lidia Menapace.

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