Da almeno un ventennio cerco di comunicare ad amici e conoscenti alcune mie riflessioni sulle generazioni (cui appartengo) nate nei primi decenni del Novecento e sulla loro esperienza unica, irripetibile, profonda, nella percezione della realtà. Credo di non esserci mai riuscito, nemmeno nei confronti di miei coetanei (forse non usavo i termini giusti), tantomeno verso i più giovani (forse è un’osservazione fuori dalla portata di chi non l’ha vissuta). Recentemente ho letto una formidabile testimonianza di Raffaele La Capria, che mi ha commosso perché finalmente vedo un racconto autorevole e preciso di quelle mie esperienze.
Nel recensirne il libro La vita salvata, Alfonso Berardinelli (Avvenire, Agorà del 13 novembre 2020) riporta queste parole di La Capria:
Il mio sentimento della natura non è più quello di prima […]. È un sentimento che nasce da un’esperienza traumatica fatta da quelli della mia generazione, e solo da loro, in tutta la storia dell’umanità. Solo noi abbiamo vissuto, nel breve arco di una vita, il tempo in cui la natura (il mare, il cielo, la terra) era la stessa che è sempre stata per millenni, e il tempo in cui non è più quella, ed è malata, sofferente, disanimata.
Per quanto mi riguarda, la più notevole delle mie esperienze è nata da percezioni visive (in età infantile, durante la seconda guerra mondiale) in lunghi soggiorni nella campagna collinare lombarda, osservando il paesaggio dall’alto di un carro di fieno, trainato da buoi, in lento ritorno alla cascina, verso il tramonto.
Questa percezione, fissata in me come immagine fotografica, è stata illuminata dai versi 82 e 83 della Prima Bucolica di Virgilio (scritta 2062 anni fa, con riferimento alla stessa campagna, a lui ben nota).
Et iam summa procul villarum culmina fumant
Maioresque cadunt altis de montibus umbrae.
[E già in lontananza fumano i tetti più alti del villaggio
E sempre più lunghe scendono le ombre dalla sommità dei monti.]
Quando conobbi questi versi, al liceo, fui toccato fortissimamente, non solo dalla loro bellezza intrinseca, ma dal fatto che vi si raccontava quel paesaggio vivente, esattamente come l’avevo vissuto io non molti anni prima, e però quel paesaggio (e il modo di percepirlo) già ai tempi del mio liceo non esisteva più in tutte le sue componenti e non sarebbe esistito mai più.
È una sensazione che dà le vertigini: dalle percezioni vissute nei primi decenni del secolo scorso ci si sporge all’indietro e si constata che per millenni la realtà è stata pressoché uguale. Pochi anni dopo nulla è più (e nulla sarà più) così: noi abbiamo vissuto questo incredibile passaggio, nessun altro vivrà qualcosa del genere, in tutta la storia dell’umanità. Pochi decenni del cosiddetto “secolo breve” hanno pesato sul Pianeta più di millenni e millenni.
Non credo che La Capria e tanti suoi vicini di età chiedano premi o… indennizzi per questo: ma sperano di essere ascoltati come testimoni diretti e sofferenti, perciò attendibili, quando lamentano e denunciano i danni alla natura e al tessuto sociale prodotti da un progresso sconsiderato.
Per quanto mi riguarda questa esperienza mi dà un triplice dolore: il mio personale come testimone di certe qualità irrecuperabili del mondo, che mi sono state sottratte; quello della collettività degli umani che hanno perso quel patrimonio senza averlo conosciuto; infine il dolore (la rabbia) per la incoscienza criminale dei devastatori del mondo.
Grazie a Raffaele La Capria che mi fa sentire meno solo e forse ci aiuta tutti, con un argomento speciale, nel diffondere l’impegno a contrastare, o almeno a rallentare, il peggioramento in corso.