Alla fine la seconda ondata è arrivata.
Era prevedibile. Si poteva fare di più. Si doveva fare di più. Si doveva fare prima. I come, i se, i perché occuperanno i dibattiti e le analisi dei prossimi mesi. A oggi, poco importa. Perché nel frattempo gli ospedali hanno ricominciato a riempirsi, i pronti soccorso a essere intasati, i reparti a essere riconvertiti per accogliere sempre più malati, cercando di sopperire, così, alla cronica mancanza di posti letto (ma anche di personale e di risorse). Muri buttati giù in primavera sono tornati a separare le zone pulite, quelle destinate alle normali degenze, da quelle sporche, le aree Covid.
Di nuovo, si è tornati a separare il fuori e il dentro, il mondo esterno, alle prese con suddivisioni del territorio in zone di diversi brillanti colori, quasi fosse un’aggiornata versione di Risiko, da quello interno dei reparti ospedalieri, fatto di storie e vissuti di pazienti e di personale sanitario che ormai siamo abituati a vedere solo più vestito con tute da astronauta e maschere filtranti a nascondere il viso.
Tra l’una e l’altra realtà una divisione quasi impenetrabile.
Eppure, indagare cosa accade “dentro” diventa oggi l’unico modo per dare un senso a ciò che sta succedendo “fuori” e, per farlo, serve la voce di chi, come la dott.ssa Chiarlo dell’Ospedale Giovanni Bosco di Torino – che ha già commentato la prima ondata (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2020/04/01/cronache-da-un-ospedale-in-tempo-di-covid-19/) ‒, vivendo quei luoghi tutti i giorni, può rendere una lucida e responsabile testimonianza dello tsunami che, a distanza di pochi mesi, ci troviamo di nuovo ad affrontare.
Improbe Neptunum accusat, qui iterum naufragium facit
Publilio Siro
Per un po’ abbiamo avuto la nostra personale Berlino, quel muro pieno di graffiti a dividere il pronto “pulito” da quello “sporco”, la zona Covid dalla zona non-Covid. Poi, come in Germania nel novembre ’89, a fine giugno è stato abbattuto. Un gesto scenografico che tutti abbiamo immortalato con i nostri telefoni a sancire una minuscola vittoria di questa strana guerra. Insieme al muro sono stati smantellati uno a uno i reparti Covid dell’ospedale, i contratti di collaborazione straordinaria sono stati sciolti, e infine le OGR sono tornate lo spazio polifunzionale per eventi che erano prima della pandemia.
In Pronto Soccorso, però, abbiamo continuato a lavorare come prima. Il muro è stato sostituito da un numero crescente di porte di vetro, più versatili e meno angoscianti, e gli spazi sono stati ridistribuiti continuamente. Abbiamo continuato a lavorare con tute, visor, filtranti e guanti anche quando i giornalisti hanno perso interesse, anche ad agosto, con l’aria condizionata sempre insufficiente a dare sollievo sotto troppi strati di plastica. Abbiamo continuato ossessivamente a cercare il Sars-Cov-2 in tutti i malati febbrili, con sintomi respiratori e poi anche in tutti i malati da ricoverare. Siamo stati attenti a non farci scappare neanche un caso possibile in fase di pretriage: il paziente non parla? Percorso Covid. Non è in grado di riferire un’anamnesi? Percorso Covid. Ha problemi delle vie aeree? Percorso Covid. Tanto erano sempre tutti negativi. Ci siamo compiaciuti, al momento di chiamare i pazienti a casa per comunicare l’esito del tampone, di notare colonne di “negativo” per pagine e pagine, come se veramente fosse stato merito nostro, come se si trattasse della schiacciante vittoria ottenuta grazie a una strategia ben congegnata. E non fosse, invece, la ritirata del nemico che brucia tutto alle sue spalle per riorganizzarsi e tornare più forte di prima.
Poi, un giorno, è tornato.
Sto aggiornando il registro dei tamponi con i risultati di quelli eseguiti in mattinata e, piuttosto inaspettatamente, leggo “positivo”. Ricarico la pagina, rileggo, stampo per sicurezza: è proprio positivo. Compilo il mezzo chilo di scartoffie richiesto in questi casi (mi ero quasi dimenticata di quanto fosse fastidioso, tra domande ripetute, informazioni che non si trovano, fax che non prendono la linea) e mi preparo a chiamare il paziente.
«Buongiorno, chiamo dall’ospedale Giovanni Bosco, è il signor F.?».
«Sì, buongiorno».
«Devo comunicarle l’esito del tampone, che è positivo. Ha il coronavirus!».
«Ah».
Gli lascio il tempo di assimilare l’informazione, poi parto con la tiritera di domande e raccomandazioni, consigli clinici e norme di isolamento domiciliare. Concludo come sempre con un: «Mi raccomando, Lei e le persone con cui convive non potete uscire di casa. Vi contatterà il Sisp per il tampone di controllo».
«Ma io ho il frigo vuoto, non mi può dare almeno un’ora e mezza per andare a fare la spesa?».
Ecco. Otto mesi di bombardamento mediatico, di bollettini quotidiani con contagiati, ricoverati, guariti e deceduti, di dibattiti, DPCM, colonne di camion a Bergamo, corse al lievito e alla farina al supermercato, canti dai balconi, mascherine fatte in casa, pareti di plexiglas alle casse dei negozi, posti distanziati al ristorante e politici, imprenditori, sportivi che si ammalano e ci troviamo qui: a non aver capito a cosa serve l’isolamento domiciliare dei positivi.
Per fortuna lavoro in pronto soccorso, sono abituata a spiegare che sì, se non hai mai preso l’aspirina nella tua vita e due ore fa ne hai presa una e ora sei pieno di pomfi pare proprio che tu sia allergico all’aspirina e no, non può essere la pizza che hai mangiato ieri. Che se hai mal di schiena da tre settimane no, non sei un caso urgente e no, non devi venire in pronto soccorso. Che se la tua pressione è appena al di sopra dei limiti previsti dall’apparecchio con cui la misuri a casa no, non ti sta venendo un ictus e sì, puoi chiamare il tuo medico curante domani mattina in tutta sicurezza.
Quindi, con molta calma, gli rispondo che no, non può andare un’ora e mezza a fare la spesa perché ha il frigo vuoto, ma che deve chiamare un amico o parente disposto a portargliela oppure può organizzarsi con la spesa online che tutti i supermercati offrono da almeno sei mesi.
Torno a casa e ci rido su, convincendomi che è un caso, con tutti i tamponi che facciamo un positivo ogni tanto capita. Cerco di non pensare che del pronto soccorso Covid, il prefabbricato esterno modulare con posti distanziati, zona antishock con monitor e ventilatori e docce per il personale che ci è stato promesso, finanziato e approvato tre mesi fa non c’è ancora traccia. Cerco di ignorare che i reparti Covid sono stati chiusi ovunque: al momento i malati sembrano stare bene, in gran parte sono giovani e paucisintomatici e vengono dimessi a domicilio.
Al mio turno successivo, la settimana seguente, però, i positivi da chiamare a casa sono nove e due pazienti si trovano nella ex sala ortopedica, ora degenza dei Covid positivi. A. e C. sono marito e moglie: lei ha la febbre e la polmonite, lui solo la febbre. Stazionano qui da ieri, perché l’ospedale per le malattie infettive ha accettato lei ma non lui, e comunque non ricovera di notte.
Finché i problemi sono questi non è grave, mi dico. Chiamo il reparto di malattie infettive e prenoto l’ambulanza per C., che piange disperata all’idea di essere separata dal marito per chissà quanto tempo. Nel frattempo cerco un posto ad A. Dopo mezz’ora, sei telefonate e una valutazione congiunta con i rianimatori decidiamo di mandare anche lui nel reparto di malattie infettive, anche se il collega mi avvisa «Con questo abbiamo finito i posti, poi non so dove li ricovererete i Covid finché non dimettiamo qualcuno». C. scoppia di felicità quando l’ambulanza, percorsi pochi metri, inverte il senso di marcia per tornare a prendere A. e lo saluta con gioia smisurata, come se non fossero trascorsi pochi minuti da quando ha lasciato la stanza: «Sa, dottoressa ‒ mi spiega ‒ domani festeggiamo 61 anni di matrimonio!».
Due pazienti soddisfatti e la degenza vuota in un colpo solo, non capitano spesso gioie simili. È solo su questo che preferisco concentrarmi, anziché sul fatto che il nuovo reparto Covid di un altro ospedale dell’ASL ha ritardato per l’ennesima volta l’apertura per mancanza di personale.
Un’altra settimana trascorre e, tra alti e bassi, la situazione inizia a precipitare con un nuovo DPCM e manifestazioni sopra le righe, tra coprifuochi ventilati, minacciati, attuati e negozianti disperati che «Perché devo chiudere io e lui no» e «Se aveste messo la mascherina non sarebbe finita così», tra fascisti che si lamentano della deriva autoritaria del Governo e opinionisti della domenica che se la prendono con le chiese aperte, con i teatri chiusi, con la dittatura sanitaria, con le palestre, con il calcio, con i fascisti, con il Governo, con il Governo fascista che se la prende con i fascisti.
In ospedale i problemi sono altri: gli operatori malati, sempre più numerosi, o le risorse ancora una volta ridotte all’osso. Forse se tutta Italia avesse messo bene la mascherina non saremmo arrivati qui, o forse non sarebbe cambiato nulla, poco importa: in medicina siamo abituati a gestire l’incertezza, quello a cui non siamo abituati è il caos. Perché gli eventi, anche improbabili, sono spesso prevedibili e con un po’ di organizzazione diventano affrontabili. Ciò che trovo lunedì mattina in area Covid, invece, è entropia tendente a infinito e non contenuta. Due pazienti intubati che attendono un posto in rianimazione, due ventilati che non hanno una destinazione perché le subintensive Covid non esistono più e quattro con la polmonite ed elevato fabbisogno di ossigeno che non possono essere ricoverati in nessuno dei reparti Covid esistenti perché troppo instabili.
Per fortuna quando fallisce il piano A si passa al piano B e le lettere dell’alfabeto sono 26.
Martedì pomeriggio, ancora una volta, cediamo. L’ospedale “pulito” diventa metà e metà, in pronto soccorso invertiamo la zona pulita e la zona sporca per ricavare più spazio, trasferiamo i pazienti del reparto di medicina d’urgenza e in poche ore riapriamo la terapia subintensiva Covid.
A tutti sembra di rivivere un brutto sogno (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2020/04/01/cronache-da-un-ospedale-in-tempo-di-covid-19/). Manca l’energia un po’ spavalda con cui abbiamo affrontato l’ignoto la scorsa primavera, manca la solidarietà di chi sta fuori, l’ottimismo retorico e infantile dell’«andrà tutto bene», mancano le forze per affrontare in apnea un inverno che non è ancora cominciato e già sembra senza fine.