Dopo mesi di attesa e di rinvii, passata la tornata elettorale, il Consiglio dei ministri ha finalmente approvato un decreto legge che supera gran parte delle norme ideologiche costituenti il cuore della politica leghista in tema di immigrazione. Ora siamo in attesa del testo definitivo che andrà alla firma del Presidente della Repubblica e poi in Gazzetta Ufficiale per l’entrata in vigore. Dopo si aprirà una doppia battaglia: nelle aule del Parlamento e nel Paese, per la conversione in legge (per la quale, è bene ricordarlo, ci sono 60 giorni), e nelle Commissioni Territoriali Asilo e negli uffici delle Questure, per la sua corretta applicazione.
Se negli ultimi vent’anni abbiamo registrato e denunciato, a ogni intervento legislativo, una progressiva sottrazione di diritti per gli stranieri che arrivano e risiedono in Italia, questo provvedimento segna una inversione di tendenza con interventi che ripristinano alcune norme giuste e praticabili nel settore dell’accoglienza e del diritto d’asilo. La speranza è che si tratti di un cambio di atteggiamento delle forze di centro sinistra, in primo luogo del PD, finora succubi dell’egemonia della destra xenofoba e impegnate in politiche che, con l’intento di sottrarle spazio, di fatto l’hanno avvantaggiata (Minniti docet), alimentando l’idea che togliere diritti agli stranieri, produce effetti positivi per gli italiani e le italiane.
L’intervento legislativo dei giorni scorsi, oltre a cancellare alcune delle norme più illiberali contenute nei decreti Salvini, introduce elementi di novità importanti.
Tra questi va sottolineata la possibilità di convertire in permessi di lavoro molti permessi di soggiorno temporanei: una modifica rilevante, seppur limitata ad alcune tipologie, perché supera la logica dell’incomunicabilità tra i titoli di soggiorno temporanei e quello per lavoro. Se, ad esempio, una persona presente legalmente in Italia per ragioni artistiche trova un lavoro stabile, non avrà più bisogno di tornare a casa e aspettare il prossimo decreto flussi (peraltro atteso da più di 10 anni), sperando di rientrare nelle quote previste: gli sarà sufficiente chiedere la conversione e restare in Italia per lavorare. Una norma, insomma, che, oltre a realizzare una elementare giustizia, dovrebbe ridurre gli ingressi irregolari e quindi gli affari dei trafficanti. Con un po’ più di coraggio e lungimiranza si sarebbe potuto prevedere la conversione anche per i richiedenti asilo che, dopo anni di attesa, spesso lavorano con contratti a tempo indeterminato e rischiano di essere cancellati dall’esito negativo della procedura d’asilo. Ma è, comunque, un primo passo.
Sul diritto d’asilo e l’accoglienza ci sono, peraltro, due novità positive: il ripristino di una forma di protezione aggiuntiva a quella internazionale prevista dalle direttive europee (sussidiaria e asilo), che recepisce gli «obblighi costituzionali o internazionali» richiamati dal presidente Mattarella all’atto della firma del primo decreto Salvini, e il ritorno dei richiedenti asilo ‒ la maggioranza delle persone accolte ‒ nel sistema pubblico dei Comuni, che solo cambia nuovamente nome (da SIPROIMI, che aveva sostituito SPRAR, diventa SAI, Sistema di Accoglienza e Integrazione…). Prima dei decreti leghisti, l’Italia registrava una media di risposte positive alle richieste di permesso di soggiorno del 40% (solo leggermente inferiore a quella dell’Unione Europea), poi dimezzata dalla cancellazione del soggiorno per ragioni umanitarie, con conseguente aumento di ricorsi e irregolari. Oggi c’è l’occasione per tornare a essere un Paese dove presentare una richiesta d’asilo significa accedere a un diritto internazionalmente riconosciuto e garantito dalla Costituzione (e non approfittare della generosità altrui, come ripetuto dalla propaganda razzista). Per i richiedenti asilo viene poi ripristinato l’obbligo di iscrizione anagrafica, cancellata dal primo decreto Salvini con un intervento pesantemente discriminatorio, già eliminato di fatto prima dai tribunali ordinari e poi dalla Corte costituzionale.
Dove, invece, è mancato il coraggio di cambiare realmente è in materia di concessione della cittadinanza: aver ridotto a tre anni gli anni d’attesa per la richiesta d’accesso, dai quattro introdotti dai decreti Salvini, non cambia, infatti, di molto il segno del rapporto tra il nostro Paese e i nuovi cittadini.
Quanto alla disciplina delle ONG che effettuano ricerca e salvataggio, in attesa che lo facciano gli Stati e l’UE, c’è, almeno sulla carta, il ripristino di una situazione prossima alla normalità. Si sarebbe potuto (e dovuto) arrivare alla cancellazione totale – e non alla semplice riduzione – delle odiose multe introdotte dai decreti Salvini, evitando di perpetuare, anche solo simbolicamente, la criminalizzazione delle ONG, ma c’è stato, evidentemente, il cedimento a quell’anima della maggioranza di cui fa parte l’attuale Ministro degli Affari esteri, che, è bene ricordarlo, fu il primo a parlare, al riguardo, di “taxi del mare”. Vedremo a breve se il Governo cambierà davvero politiche o continuerà ad usare espedienti per impedire la navigazione di chi salva vite umane.
Tralasciando gli altri profili del decreto, va detto che, a fianco dei citati elementi positivi, permangono limiti e criticità che avrebbero potuto essere già superati con questo testo: per migliorarlo, Governo e maggioranza hanno a disposizione sia la fase di conversione che le diverse proposte di legge depositate in Parlamento (tra le quali, in primo luogo, quella sulla disciplina della cittadinanza e quella di iniziativa popolare della campagna “Ero Straniero”, che introdurrebbe finalmente una via di accesso sicura e legale per lavoro e una forma di regolarizzazione permanente). La speranza è che il nuovo decreto consenta di tornare a intervenire in questo ambito in maniera ragionevole, oltre che giusta ed efficace. Ma la strada è ancora lunga: navi quarantena, accordi con la Libia, gestione delle frontiere, accoglienza dignitosa e patto europeo sono le tante contraddizioni che non ci consentono di parlare ancora di discontinuità con la stagione del razzismo istituzionale.