Giustizia vo’ cercando (in morte di Cesare Romiti)

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Sarà pure vero che non è buona cosa parlare male dei morti, ma anche il silenzio non va bene. Non va bene soprattutto quando tacere significa complicità con la cultura dominante. Quella cultura che egemonizza la definizione di chi è “delinquente” e di chi non lo è attraverso l’immagine stereotipata del “criminale”: maschio, di bassa estrazione sociale e, più recentemente, straniero, meglio se irregolare.

Vengo al dunque. È mancato in questi giorni Cesare Romiti, il manager che fece a suo tempo il bello e cattivo tempo con i soldi della società che amministrava, la FIAT, falsificando bilanci (false comunicazioni sociali) e nutrendo partiti (in primis il PSI di Craxi a cui donò quattro miliardi di vecchie lire). Tralascio qui le complesse vicende dell’iter giudiziario conclusosi nei primi anni Duemila con l’assoluzione dell’imputato dall’accusa di falso in bilancio grazie a una benevola – per l’imputato – modifica della relativa normativa che aveva avuto luogo nel frattempo, grazie al Governo Berlusconi (la modifica stabiliva, per così dire, un tetto al di sotto del quale la somma non messa in bilancio non costituiva più reato). Ma non posso esimermi dal ricordare che Romiti, pochi mesi dopo la condanna a un anno di reclusione da parte della terza sezione penale della Corte di appello di Torino (sentenza n. 2313 del 28 maggio 1999), viene invitato come relatore, a fianco di monsignor Gianfranco Ravasi, per discutere, in un incontro al Castello di Belgioioso, del tema «Dall’industria alla ricerca di Dio». E, nel rispondere alla domanda «quale Dio possa esserci in una società dominata dal danaro, una società nella quale stanno scomparendo i valori etici», sottolinea la necessità di ritrovare quei valori, auspicando che «laddove esista un imprenditore che gestisca l’azienda nel rispetto delle leggi del paese e dell’etica, e produca reddito, costui dovrebbe essere proclamato santo» (La Stampa, 3 ottobre 1999).

Ciò detto, nessun giudizio morale sulla persona. Tuttavia gli apprezzamenti per il suo operato in cui si è profusa la quasi totalità dei media nazionali e soprattutto il silenzio sul suo passato “criminale” ci obbligano a richiamare alla memoria alcune cose; a riaffermare qualche verità che va ben di là della sua figura.

La prima è che alle classi egemoni e ai loro membri spetta da sempre il privilegio di non essere chiamati e soprattutto di non essere trattati da criminali quando i crimini li commettono. Al massimo vengono definiti disonesti. Questa impunità, vale a dire il fatto di potersi sottrarre al controllo dell’apparato giurisdizionale e al suo sistema sanzionatorio, ha rappresentato per secoli un “segreto” conosciutissimo tra le classi subalterne. La vastissima letteratura folklorica, in particolare quella relativa ai proverbi, rivela una cultura contadina lucidamente segnata dalle ingiustizie subite e dalla consapevolezza che la legge non si applica ai potenti. Contano i soldi e le “conoscenze” («u’ dinara et amicizia, si temi in culu la giustizia» [«Con denari ed amicizia si tiene al culo la giustizia»], L. Lombardi Satriani, Diritto egemone e diritto popolare, Quale cultura, Vibo Valentia, 1975); conta il potere perché è questo che, in ultima istanza, amministra la giustizia («Chi cculla potenti fa la lutta, o crepa, o va de sutta» [«Chi col potente fa la lotta, o crepa o va di sotto»], ivi; «I grand lader impicu cui cit» [«I grandi ladri impiccano quelli piccoli»], ivi e A. Cottino, Disonesto ma non criminale, Roma, Carocci,1983,107-108). Parimenti, dignità e rispetto non si guadagnano con l’onestà – «ad ese galantom as diventa nen sgnur» («Ad essere galantuomini non si diventa signori», ivi) – ma attraverso il possesso illecito di beni («Chi ch’a roba nen a fa nen d’roba» e «chi l’a d’roba l’è rispetà; il pover l’è dispresià» [«Chi non ruba non fa roba»; «chi ruba è rispettato e il povero è disprezzato»], ivi). E la solidarietà di classe fa la sua parte. «Se sei nei guai con la legge italiana, può tornarti utile essere il capo della più grande azienda del Paese e avere amici ben piazzati, come Cesare Romiti, presidente della casa automobilistica FIAT, e il suo collega ai vertici della società, Francesco Paolo Mattioli, hanno scoperto». Così l’incipit di un articolo del The Economist (26 aprile 1997) che, dopo aver spiegato i termini delle condanne dei due, racconta la straordinaria mobilitazione del Sole 24 Ore, il giornale confindustriale che si premura di pubblicare i messaggi di solidarietà di 45 grandi imprenditori italiani. Solidarietà spesso espressa anche dallo stesso ceto politico. Memorabile in tal senso l’incontro tra il tenore Luciano Pavarotti e l’allora Ministro delle finanze Ottaviano Del Turco – oggetto del contendere era un’evasione fiscale di 24 miliardi di lire –. Dichiara il tenore, dopo aver staccato l’assegno per quella somma: «non mi sento un evasore. Ho solo male interpretato una legge poco chiara». E Del Turco commenta: «Da oggi il maestro è un cittadino fiscale di questo paese: aveva ansia di chiudere una ferita. – e aggiunge – Lui è in buona fede e questo è un bel giorno, lo potrò raccontare ai miei nipotini» (Pavarotti stacca l’assegno, La Repubblica, 28 luglio 2000).

C’è una seconda verità che pochissima accoglienza trova nell’immaginario collettivo e cioè il fatto che gli illeciti commessi dagli appartenenti alle classi egemoni, messi a confronto con i crimini della delinquenza cosiddetta tradizionale (omicidi, furti e rapine) sono tendenzialmente assai più violenti e dannosi. Basta ricordare gli infortuni sul lavoro, i reati ambientali, la corruzione, l’evasione fiscale.

La terza verità è la più dolente e la più celata poiché ha a che fare con l’internamento di decine di migliaia di poveri cristi che da sempre transitano nelle nostre galere. Sono loro a garantire la sostanziale impunità di cui godono i “disonesti”. La garantiscono perché la presenza di questa popolazione carceraria, in larghissima misura colpevole di reati di poco o nessun conto, proprio per le sue caratteristiche socio-culturali ed economiche non fa che confermare lo stereotipo di cui parlavo più sopra. Ed è anche la verità più celata perché della violenza segregazionaria, quella intrinseca nelle strutture stesse – di là dagli episodi, neppure tanto episodici, della violenza fisica sui detenuti da parte degli agenti di polizia penitenziaria – non si parla quasi mai. Insomma, la galera conclude al tempo stesso il processo di criminalizzazione dei subalterni e riconferma l’opinione diffusa secondo cui i criminali sono proprio loro, mentre il Pavarotti di turno diventa – come scriveva l’articolista del già citato articolo di La Repubblica – il testimonial anti-evasione (sic!).

Gli autori

Amedeo Cottino

Amedeo Cottino è stato professore di Sociologia presso le Università di Umeaa (Svezia) e di Torino. Si è occupato di diritto internazionale umanitario in qualità di esperto della Croce Rossa Internazionale. Ha scritto sul lavoro nero nell'edilizia e sulla criminalità dei colletti bianchi. Studia, tra l’altro, i temi dell'uguaglianza di fronte alla legge e della responsabilità individuale di fronte alla violenza.

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3 Comments on “Giustizia vo’ cercando (in morte di Cesare Romiti)”

  1. C’é anche qualcosa d’altro che andrebbe ricordato e sono i suicidi successivi alla sconfitta del movimento operaio che il Romiti, con la complicità dei sindacati, aveva realizzato con la marcia dei 40mila che furono molto meno ed organizzati dal Romiti stesso. Sono centinaia i lavoratori che si tolsero la vita ed ora potranno finalmente discutere con il presidente padrone e cattolicissimo di quella strana lotta vinta con arroganza e senza anima. Tutti ricordiamo le assemblee in cui gli operai votarono NO all’accordo subito travolti con l’inganno dai sindacati che volevano chiudere a tutti i costi una lotta che non avevano saputo gestire.

  2. Hai assolutamente ragione. E’ una violenza,quella che tu ricordi, che mai viene criminalizzzata perché il nostro diritto penale né vuole né può farlo. Bisogna allora iniziare una riflessione che vada ben oltre la nozione di reato; che sia in grado cioè , come appunto la nozione di violenza, di cogliere gli effetti perversi della struttura; in ultima istanza del sistema capitalistico.

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