1.
Per come è congegnata oggi l’Unione europea, l’accordo raggiunto tra i capi di Stato e di Governo sul cosiddetto recovery fund è un mezzo miracolo. Non tanto e non solo per l’entità delle risorse messe sul piatto, tra sussidi e prestiti, quanto per il meccanismo sotteso alla loro raccolta. I soldi proverranno dall’emissione di bond europei, con la Commissione che si indebiterà per conto degli Stati membri.
Quanto di più vicino, nelle condizioni date, all’idea di eurobond, da sempre considerati come un passaggio fondamentale nella costruzione di una politica fiscale comune. Tutta un’altra storia rispetto alla precedente gestione della “crisi dei debiti sovrani”, nella quale alcuni Paesi della periferia (Portogallo, Spagna, Grecia, Irlanda, Cipro) hanno dovuto vincolare il salvataggio delle proprie finanze pubbliche a programmi di aggiustamento macroeconomico “lacrime e sangue”, i cui segni, nella società, sono visibili ancora oggi.
I numeri. 750 miliardi, dei quali 390 a fondo perduto. L’accesso a queste risorse avverrà sulla base di “piani nazionali” che saranno approvati dal Consiglio a maggioranza qualificata. Sarà invece il Comitato economico e finanziario (CEF) dell’Ecofin a vigilare sulla coerenza tra le spese che saranno effettuate e gli obiettivi fissati nei piani nazionali, sebbene prima di ogni decisione dovrà essere sempre investito delle varie questioni il Consiglio europeo, dove con certi numeri si potranno anche bloccare singole rate del finanziamento accordato a uno Stato membro. Non è il freno a mano che volevano gli olandesi, ma è qualcosa che gli somiglia.
Per l’Italia, le risorse disponibili potrebbero raggiungere la considerevole cifra di 209 miliardi di euro, dei quali oltre ottanta a fondo perduto. Rimarrebbe quindi inalterata la quota da non rimborsare rispetto alla prima bozza di piano proposta dalla Commissione, mentre salirebbe a oltre 120 miliardi quella costituita da prestiti a condizioni agevolate, da rimborsare entro il 2058.
Quindi tutto a posto? A ben vedere, la vera partita si giocherà adesso sui contenuti dei piani nazionali, ovvero sul che cosa si vorrà e si potrà fare con questi soldi. E sulle condizioni che la stessa Ue imporrà ai Paesi che ne dovrebbero beneficiare.
2.
Andiamo con ordine.
Rispetto alla prima questione, va detto, innanzitutto, che la nuova distribuzione delle risorse tra i vari capitoli del piano ha sacrificato alcuni settori fondamentali e direttamente collegati alla specificità della crisi in atto. In particolare, sarebbe stata cancellata la dotazione di Eu4Healt, il programma pensato per «rafforzare la preparazione dell’UE in caso di gravi minacce sanitarie», la «prevenzione delle malattie e la promozione della salute fra la popolazione anziana» e l’accesso ai sistemi sanitari «per i gruppi vulnerabili» (una manovra per spingere alcuni Paesi come l’Italia a ricorrere al Mes?), e ridotta drasticamente quella del cosiddetto Just Transition Fund, il fondo istituito per facilitare la transizione ecologica dell’economia europea, con aiuti, per esempio, alle politiche di decarbonizzazione del trasporto locale, fino alle «attività nel settore dell’istruzione e dell’inclusione sociale».
Scelte politiche, che peseranno nel confezionamento dei programmi nazionali.
La cassaforte del piano di rinascita europeo sarà comunque rappresentata dal Resilience e Recovery Facility, la cui dotazione prevede 312 miliardi di euro di sussidi. Gli Stati, per accedere allo strumento, dovranno presentare dei «piani per la ripresa e la resilienza» (recovery plan), nei quali verranno indicati sia gli investimenti che le “riforme” da realizzare nei prossimi quattro anni.
E qui iniziano i primi problemi.
Il nostro Paese ha appena varato il cosiddetto Piano nazionale di riforma (PNR), una delle componenti del Documento di Economia e Finanza (DEF). Questo piano può essere considerato una sorta di canovaccio preliminare in vista dell’elaborazione del recovery plan la cui presentazione è prevista per settembre. In esso sono state anticipate le linee guida della politica economica italiana per i prossimi anni, tenendo conto delle “raccomandazioni” del Consiglio europeo, a loro volta espresse nell’ambito del «ciclo di coordinamento delle politiche economiche e di bilancio dell’UE» (Semestre europeo). Purtroppo in queste linee guida non c’è nulla di nuovo rispetto alle politiche economiche e sociali perseguite negli ultimi vent’anni dai governi che si sono succeduti alla guida del Paese. Tutto ruota ancora intorno all’impresa, alle politiche dal lato dell’offerta, secondo i dettami della teoria economica dominante.
Istruzione. Non c’è alcun cenno al potenziamento della scuola pubblica, né al diritto allo studio come componente fondamentale delle politiche di welfare. Piuttosto si insiste sulla necessità di “allineare” la scuola alle esigenze dell’economia e dell’impresa. Mercato del lavoro. Ancora misure dal lato dell’offerta. Si insiste sulla «riduzione del costo del lavoro e del cuneo fiscale», sull’aumento della produttività del lavoro, sul «rafforzamento degli incentivi fiscali», fino alla «promozione della contrattazione decentrata» a scapito di quella collettiva. Fisco. Si sposa la tesi per cui il carico fiscale eccessivo sulle imprese sarebbe uno dei motivi della bassa crescita italiana. Infatti, la riforma dovrebbe aiutare «la propensione delle imprese a investire e a creare reddito e occupazione». Finanza pubblica. L’impegno è per un “piano di rientro” decennale del rapporto debito/PIL. In sostanza, dopo il Covid c’è il rischio che l’economia riprenda fiato ma il prezzo del risanamento venga scaricato tutto sui ceti popolari, attraverso nuovi tagli alla spesa sociale. Ricette che superano a destra le stesse “raccomandazioni” del Consiglio, nelle quali, paradossalmente si parla anche di «redditi sostitutivi» e di «accesso al sistema di protezione sociale adeguato», con particolare riferimento ai «lavoratori atipici».
3.
Siamo al dunque.
I soldi messi a disposizione dall’Europa non sono pochi, almeno per l’Italia. Il problema è se queste risorse vengono utilizzate per coniugare stimolo all’economia e giustizia sociale, ovvero se a fagocitarle saranno gli stessi che già hanno guadagnato con la crisi precedente, con effetti modesti o, addirittura, negativi sull’economia.
I problemi sul tappeto. La crisi avrà un impatto devastante sull’occupazione e sui redditi delle persone. All’orizzonte c’è un aumento della povertà e delle disuguaglianze. Per quanto questa crisi presenti delle peculiarità rispetto alle altre crisi del passato più o meno recente, il suo decorso sta assumendo sempre più connotati “tradizionali”, almeno sul piano interno. Il problema nei prossimi mesi non sarà quanti gelati il barista sarà in grado di confezionare in una data unità di tempo, ma quanti clienti ci saranno davanti al suo bancone, con i soldi in tasca per comprarne uno. Siamo nello schema keynesiano secondo il quale «quanto maggiore sarà la propensione marginale al consumo, tanto maggiore sarà il moltiplicatore, e tanto maggiormente, quindi, sarà influenzata l’occupazione in corrispondenza di una data variazione dell’investimento». Uno schema da tenere a mente, per andare oltre. Perché oggi, diversamente che dai tempi dell’economista inglese, la vera frontiera non è solo quella della piena occupazione. Uscire dalla crisi in maniera diversa da come ci siamo entrati significa investire nella dignità del lavoro e nel benessere delle persone, favorendo il più possibile la riconciliazione delle stesse con la propria vita, che non può essere assoggettata in maniera totalitaria alle “esigenze” del mercato ed alla logica del profitto.
Uguaglianza, diritti e sicurezza sociale non sono in contrasto con le “leggi” dell’economia. Semmai il contrario. «Crescita lenta e disuguaglianza sono scelte politiche. Possiamo scegliere diversamente», direbbe Joseph E. Stiglitz. E qui sta il punto. Al di là del quantum, nelle scelte dei governi europei non c’è niente di “diverso” rispetto al passato. Col rischio, per di più, che l’abbuffata di miliardi rimanga sullo stomaco ai ceti popolari, quando dalla corsa all’indebitamento ‒ giusto, per carità! ‒ si passerà alla quaresima imposta dalla riattivazione del patto di stabilità.
Il problema è che al momento non c’è nemmeno una mobilitazione dal basso per imporre un cambiamento dell’agenda di governo, sia in Italia che in Europa.
Mi sale un groppo alla gola pensare che anche questo governo di (centro-sinistra), con tutti i soldi che riceverà dall’Europa non sia in grado di fare riforme che mettano in primo piano le esigenze dei lavoratori, della scuola, della salute, della necessaria svolta ecologica , della cura del territorio, della ricerca. Riforme che creerebbero nuova e duratura occupazione e renderebbero più sicuro il territorio. Saranno solo le grandi imprese (vedi FCA) ad avere il Bancomat per ritirare i soldi e fare sempre il solito gioco? I Sindacati sembrano creature eteree, impalpabili, in attesa di buone notizie. Alla mia età, 66 anni, mi sento sgomento e penso che non ne nascerà nulla di buono.
Mi spiace sopratutto per i giovani, mille volte ingannati, che non trovano l’input per ribellarsi e costringere le classi dominanti ad occuparsi di loro.