Attenti al lupo! I presupposti necessari per lo stato d’emergenza

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Dunque, ci siamo: dopo il falso allarme di maggio, la questione della proroga dello stato di emergenza sanitaria dovuta alla pandemia da Covid-19 è realmente assurta all’ordine del giorno del dibattitto politico.

Una breve ricostruzione del quadro normativo è necessaria. La norma di riferimento è il Codice della Protezione civile approvato con decreto legislativo n. 1 del 2018 e, in particolare, i suoi articoli 7, 24 e 25, il cui combinato disposto stabilisce che, al ricorrere di un’emergenza di rilievo nazionale (art. 7), il Consiglio dei ministri delibera lo stato di emergenza, fissandone la durata per un massimo di dodici mesi rinnovabili e l’estensione territoriale (art. 24), e autorizza il Presidente del Consiglio dei Ministri e i vertici della Protezione civile ad adottare, d’intesa con le Regioni interessate, ordinanze in deroga a ogni disposizione vigente, purché sia dichiarato quali sono le disposizioni di legge derogate e siano comunque rispettati i principi generali dell’ordinamento e il diritto dell’Unione europea (art. 25). La proclamazione dello stato di emergenza attiva, dunque, poteri normativi straordinari (adottare ordinanze) in capo al Presidente del Consiglio dei Ministri, che vi provvede, dal punto di vista formale, con propri decreti: gli oramai arcinoti decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (dPCM).

Altre fonti legislative attribuiscono, al ricorrere di situazioni emergenziali variamente definite, la facoltà di adottare ordinanze anche a ulteriori soggetti: al Ministro della Salute, ai Presidenti di Regione, ai Sindaci (si vedano, in particolare, l’art. 32 della legge n. 833/1978, l’art. 117 del d.lgs. 112/1998, l’art. 50 del d.lgs. n. 267/2000 e, con specifico riguardo alla pandemia da Covid-19, gli artt. 1 e 2 del d.l. n. 19/2020 convertito nella legge n. 34/2020). Parte della confusione normativa di questi mesi è dovuta – sullo sfondo degli insani protagonismi di esponenti del governo, presidenti di Regione e Sindaci – a tale pletora di fonti normative, il cui riordino sarebbe auspicabile.

In questo quadro normativo, l’emergenza Covid-19 è stata proclamata, con apposita deliberazione del Consiglio dei Ministri, lo scorso 31 gennaio 2020, per un periodo non di dodici mesi, come pure avrebbe potuto essere, ma di sei mesi: dunque, con validità sino al 31 luglio 2020. La scelta di proclamare un’emergenza semestrale, anziché annuale, va senz’altro apprezzata: e, infatti, nel momento in cui si attivano poteri eccezionali, suscettibili di derogare il quadro ordinario delle fonti del diritto sino a giungere alla compressione di diritti costituzionali, prevedere un termine di fine emergenza relativamente ravvicinato significa preoccuparsi di poter, almeno in ipotesi, ripristinare il pieno ordine costituzionale in tempi ragionevoli, agendo in osservanza dei principi di adeguatezza e proporzionalità rispetto all’andamento dell’emergenza stessa. Naturalmente, è possibile che alla scadenza del termine l’emergenza non sia stata superata: ecco perché lo stesso d.lgs. n. 1/2018 ne prevede la prorogabilità, con il limite che, nel complesso, non si superi il periodo di ventiquattro mesi.

Un primo segnale che la questione della proroga dell’emergenza iniziasse a essere argomento di discussione lo abbiamo avuto a maggio, quando, nella bozza di quello che sarebbe poi diventato l’art. 14, co. 4, del decreto-legge n. 34/2020, era comparsa una disposizione che così recitava: «i termini di scadenza degli stati di emergenza dichiarati ai sensi dell’articolo 24, del decreto legislativo 2 gennaio 2018, n. 1 […], in scadenza il 31 luglio 2020 e non più prorogabili ai sensi della normativa vigente, sono prorogati per ulteriori sei mesi». In tanti, sbagliando, vi avevano visto il tentativo di procedere, come alla chetichella, alla proroga dello stato di emergenza causata dal Covid-19, senza che la questione fosse stata oggetto del necessario dibattito pubblico.

Benché si trattasse di un’interpretazione politicamente assurda – perché mai un governo che avesse voluto tentare un colpo di mano avrebbe dovuto farlo con decreto-legge anziché con semplice deliberazione del Consiglio dei Ministri? – e giuridicamente impossibile – dal momento che la norma parlava di «stati di emergenza», al plurale, mentre lo stato di emergenza Covid-19 è uno soltanto, e di stati di emergenza «in scadenza il 31 luglio 2020 e non più prorogabili», mentre lo stato di emergenza Covid-19, pur scadendo effettivamente il 31 luglio 2020, era, come sopra visto, sicuramente prorogabile – la polemica basata sull’equivoco era montata al punto che, (pare) su pressione del Presidente della Repubblica, il decreto era stato modificato in modo da escludere esplicitamente che la proroga potesse riguardare l’emergenza Covid-19. Ed, effettivamente, essa si riferiva a quattro casi di emergenze di carattere regionale (in Emilia Romagna e in Piemonte per eventi meteo, in Molise per eventi sismici e in Veneto per inquinamento delle falde acquifere), in scadenza il 31 luglio 2020 e non più rinnovabili perché vigenti da ventiquattro mesi: intento del decreto-legge n. 34/2020 era derogare, per questi quattro casi, al decreto legislativo n. 1/2018, consentendo un’ulteriore proroga di sei mesi, dal momento che la pandemia aveva impedito il compimento degli interventi volti a far fronte a quelle specifiche emergenze.

Perché, dunque, tanti commentatori – come, per esempio, Sabino Cassese sul Corriere della Sera, dove aveva scritto che «il decreto detto “rilancio” proroga di sei mesi il periodo di emergenza» – avevano equivocato la situazione? Probabilmente perché la proroga dello stato di emergenza già allora non era una mera ipotesi, ma una prospettiva concreta di cui nel mondo politico si iniziava a discutere senza che l’opinione pubblica ne fosse stata, sin da subito, adeguatamente informata.

Il punto era, ed è, delicatissimo. Il fatto che l’emergenza abbia una durata predeterminata è una fondamentale garanzia democratica in una situazione che consente alle autorità di governo di derogare alla normativa vigente, sino a limitare diritti e libertà costituzionali. Chiaramente, un’emergenza a tempo indeterminato perderebbe ogni carattere di eccezionalità, trasformandosi in un ordinario, e quindi incostituzionale, strumento di gestione del potere. Allo stesso modo, fondamentale garanzia democratica è che il perdurare dell’emergenza corrisponda al perdurare delle cause che ne hanno motivato l’adozione, che dunque devono essere, per quanto possibile, trasparenti e controllabili da parte dell’opinione pubblica.

Ora, quel che in queste settimane ci stanno dicendo le autorità politiche è che la situazione è molto migliorata e, almeno parzialmente, ritornata sotto controllo. Il numero dei contagi si è ridotto, così come la pressione sugli ospedali, che nel frattempo – così anche ci viene detto – si sono attrezzati per un eventuale riacutizzarsi della pandemia. Conseguentemente, non passa giorno senza che nuove attività, vietate nella fase più acuta dell’emergenza, ricomincino a essere liberamente praticabili, incluse quelle ricreative a tutti i livelli: dal campionato di calcio al gioco delle carte nei bar. Quali sarebbero, allora, i presupposti che giustificherebbero, in questa situazione, la proroga dell’emergenza? Delle due l’una: o le cose vanno male, e allora la proroga dell’emergenza è legittima, o le cose vanno bene, e allora la proroga dell’emergenza è illegittima. Il che, naturalmente, non esclude che – ahinoi – le cose possano in futuro nuovamente peggiorare, rendendo così in futuro giustificata una nuova proclamazione dello stato di emergenza da parte del Consiglio dei Ministri. Quel che, in ogni caso, assolutamente non è accettabile è che la dichiarazione dell’emergenza sia effettuata in modo “preventivo”, in modo da premunirsi nel caso in cui le cose dovessero peggiorare. E ciò sia perché solo un pericolo in atto può giustificare l’adozione di atti normativi in deroga alla legislazione anche costituzionale vigente, sia perché, prevedendo che lo stato d’emergenza possa essere dichiarato con semplice deliberazione del Consiglio dei Ministri, il decreto legislativo n. 1/2018 ha introdotto uno strumento d’intervento d’uso semplice e immediato.

Intervenendo contro l’ipotesi di disciplinare lo stato d’emergenza nella Costituzione, Giuseppe Dossetti aveva messo in guardia contro il rischio che, una volta vissuta l’ebbrezza di poter usufruire di poteri eccezionali, i governanti non ne avrebbero più potuto fare a meno. Abbiamo appena assistito, con il c.d. decreto semplificazioni, all’inaccettabile estensione del “modello dPCM” per la scelta delle grandi opere da realizzare in deroga alla normativa vigente. Occorre adesso evitare che lo stato d’emergenza per il Covid-19 sia prorogato senza che il governo dimostri, in modo credibile e controllabile, attraverso una seria discussione parlamentare, la ricorrenza dei necessari presupposti giustificativi.

Gli autori

Francesco Pallante

Francesco Pallante è professore ordinario di Diritto costituzionale nell’Università di Torino. Tra i suoi temi di ricerca: il fondamento di validità delle costituzioni, il rapporto tra diritti sociali e vincoli finanziari, l’autonomia regionale. In vista del referendum costituzionale del 2016 ha collaborato con Gustavo Zagrebelsky alla scrittura di "Loro diranno, noi diciamo. Vademecum sulle riforme istituzionali" (Laterza 2016). Da ultimo, ha pubblicato "Contro la democrazia diretta" (Einaudi 2020) e "Elogio delle tasse" (Edizioni Gruppo Abele 2021). Collabora con «il manifesto».

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