1.
«I 285,66 euro mensili, previsti dalla legge per le persone totalmente inabili al lavoro per effetto di gravi disabilità, non sono sufficienti a soddisfare i bisogni primari della vita». Lo ha stabilito – verrebbe da dire confermato, visto che è indiscusso che con meno di 300 euro al mese qualsiasi persona non possa affrontare le spese per il minimo mantenimento vitale – la Corte costituzionale nella camera di consiglio del 23 giugno esaminando una questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d’appello di Torino nel procedimento promosso, tramite il proprio tutore, da S. B., cinquantenne affetta da tetraplegia spastica neonatale, incapace di svolgere i più elementari atti quotidiani della vita e di comunicare con l’esterno (https://volerelaluna.it/societa/2019/10/14/la-costituzione-e-limporto-da-fame-della-pensione-di-inabilita/).
In attesa del deposito della sentenza la Corte ha emesso un comunicato stampa nel quale ha precisato di aver «ritenuto che un assegno mensile di soli 285,66 euro sia manifestamente inadeguato a garantire a persone totalmente inabili al lavoro i “mezzi necessari per vivere” e perciò violi il diritto riconosciuto dall’articolo 38 della Costituzione, secondo cui “ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto di mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale”. È stato quindi affermato che il cosiddetto “incremento al milione” [pari a 516,46 euro, nel frattempo divenuti 615 euro per effetto dell’incremento dell’inflazione come riportato dal Sole 24 Ore del 25 giugno, ndr] da tempo riconosciuto, per vari trattamenti pensionistici, dall’articolo 38 della legge n. 448 del 2011, debba essere assicurato agli invalidi civili totali, di cui parla l’articolo 12, primo comma, della legge 118 del 1971, senza attendere il raggiungimento del sessantesimo anno di età, attualmente previsto dalla legge».
La sentenza ha effetto immediato dalla pubblicazione per coloro «che abbiano compiuto i 18 anni e che non godano, in particolare, di redditi su base annua pari o superiori a 6.713,98 euro» (limite ISEE sul quale merita attendere il chiarimento della sentenza), restando ferma «la possibilità per il legislatore di rimodulare la disciplina delle misure assistenziali vigenti, purché idonee a garantire agli invalidi civili totali l’effettività dei diritti loro riconosciuti dalla Costituzione». Si tratta quindi di un provvedimento immediatamente esecutivo che, pur non riguardando gli importi pregressi, di fatto raddoppia l’importo mensile che lo Stato riconosce agli inabili totali per il loro mantenimento (escludendo quindi le necessità ulteriori derivanti dalla condizione di grave disabilità e le spese per le cure).
La sentenza fissa uno spartiacque storico nel riconoscimento dei diritti e nelle tutele per le persone con disabilità. Per Vincenzo Bozza (presidente dell’UTIM, Unione per la tutela delle persone con disabilità intellettiva, che ha sostenuto l’iter del procedimento – primo grado, appello, rinvio alla Consulta – su suggerimento e sprone di Francesco Santanera, decano della promozione dei diritti delle persone non autosufficienti) «si tratta di un passaggio epocale, che riconosce la legittimità delle nostre argomentazioni e l’incostituzionalità di un importo largamente al di sotto del minimo vitale. Il percorso di questi anni è stato lungo, faticoso per una famiglia e un’associazione piccola ma battagliera. Il cammino è stato ancor più arduo in quanto intrapreso in solitudine, nonostante gli appelli dell’UTIM e del CSA a tante organizzazioni nazionali per sostenere la causa. Ha prevalso la coerenza e la fiducia nel diritto; la Consulta ha affermato in concreto la dignità per tutte le persone con disabilità grave».
2.
Il testo della pronuncia della Corte fornirà l’occasione di ulteriori approfondimenti, ma fin d’ora la decisione e i suoi effetti pratici pongono alcune questioni.
L’incremento della pensione di invalidità comporterà un aumento della spesa dell’INPS relativo a questa prestazione. Una stima ragionata sui dati delle pensioni per invalidi civili corrisposte dall’ente previdenziale porta a ritenere che la maggiore spesa sarà di 2 miliardi di euro all’anno (per quasi 531mila destinatari, dati 2020 INPS). È prevedibile che nel dibattito che seguirà la sentenza, avrà ampio risalto la questione delle coperture finanziarie e bene sarà, in primis per le organizzazioni di tutela dei diritti delle persone con disabilità, seguirlo nel dettaglio e proporre soluzioni di risparmio/reperimento di risorse grazie all’eliminazione di sprechi o spese inutili o inique. Il tema, insomma, è senza dubbio importante, ma va posto a partire dall’assunto che tali risorse colmano una mancanza storica nel riconoscimento dei diritti dei più deboli (dalla Sentenza della Corte discende direttamente la considerazione che lo Stato finora non ha, nei fatti, garantito il mantenimento sancito all’articolo 38 della Costituzione). Le risorse per l’aumento della pensione non sono quindi discrezionali e le istituzioni non possono vincolare l’erogazione alla verifica della disponibilità dei bilanci. La somma richiesta è obbligatoria per il riconoscimento concreto di un diritto costituzionale (e, ancora prima, del diritto fondamentale a una vita dignitosa).
Tra le proposte più pericolose in materia di recupero delle risorse per far fronte all’incremento di spesa previsto per l’INPS c’è quella avanzata dal quotidiano di Confindustria. Il Sole 24 Ore nel riferire la notizia della sentenza ha osservato: «A fine 2019 INPS ha pagato l’indennità di accompagnamento senza vincoli ISEE a una platea di 2 milioni e 222.697 beneficiari, per una spesa totale di 12,8 miliardi […]. Introdurre un vincolo di reddito per questa prestazione […] libererebbe risorse per rafforzare altre voci come, appunto, le inabilità totali». Per evitare che la sentenza della Corte diventi “merce di scambio” per una nuova sottrazione dei diritti alle persone con disabilità, occorre fare ordine con i giusti argomenti contro strumentalizzazioni e soluzioni di spostamento delle risorse erogate. L’indennità di accompagnamento è riconosciuta come somma a titolo di indennizzo per la condizione di disabilità. Certamente la somma di 520 euro al mese non è sufficiente a portare le condizione di una persona con grave disabilità e limitata o nulla autonomia al pari di una che non ha disabilità; l’importo è, dunque, largamente sottostimato per le persone non autosufficienti. In ogni caso, tale importo nulla ha a che fare con le spese per il mantenimento della persona e proprio per questo non è vincolata all’ISEE. Molto opportunamente, il legislatore, trattandosi di indennità e non di contributo finalizzato a specifiche prestazioni, non l’ha vincolata nemmeno a servizi specifici o a rendicontazione puntale, versante che è assai appetibile per molti enti del terzo settore, che vedono in una possibile regolamentazione in questo senso lo spazio per diventare fornitori di servizi per oltre 2 milioni di utenti.
Infine, l’iter che ha portato alla sentenza della Consulta conferma l’efficacia delle azioni di volontariato dei diritti, animate da cittadini che prestano la loro opera per promuovere e difendere le esigenze dei più deboli, esercitando pressione sulle Istituzioni, nelle forme e nei modi democratici, per l’applicazione delle leggi in favore dei più deboli, oppure proponendo modifiche alle norme considerate penalizzanti, o ancora contrastando – come nel caso specifico – i provvedimenti che discriminano le persone con disabilità e limitata o nulla autonomia. La sentenza della Corte vale oggi per tutte le persone nella medesima condizione della ricorrente: invalidità grave, inabilità al lavoro e mancanza dei mezzi per vivere. Si tratta quindi di una misura di dignità e di contrasto a una situazione di discriminazione che riguarda oggi oltre mezzo milione di persone (tanti sono i percettori della pensione di invalidità aumentata dalla Corte), più le relative famiglie. Domani potrebbe riguardare ciascuno di noi. Non ci sono azioni di volontariato caritatevole (quello che interviene – come può – sugli effetti della negazione dei diritti, ma non si interroga e non agisce sulle cause dell’ingiustizia) o iniziative legate alle istituzioni (per esempio l’attività dei sindacati in questo ambito) che abbiano ricadute immediate così vaste e decisive sulla popolazione. Non è un caso che a innescare il processo che ha portato al raddoppio della pensione di invalidità sia stata la causa sostenuta da una piccola associazione che persegue attività di volontariato dei diritti. Per i sindacati, le chiese, le grandi associazioni che proclamano la tutela delle persone con disabilità portare avanti un’iniziativa anti-discriminazione come quella dell’UTIM sarebbe costato pochissimo. Ma non l’hanno fatto. E questo non può non spingere a una riflessione critica sull’azione di queste organizzazioni, considerando anche che la legge istitutiva della pensione di invalidità non è certo «cosa di ieri», dal momento che porta la data del… 1971.