L’arte di essere figli d’arte

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Bei tempi per i lettori quando i libri scritti dai figli d’arte (cinematografica) erano spietati regolamenti di conti, come Mammina cara (1981) della figlia di Joan Crawford o Marlene Dietrich. Mia madre (1992) di Maria Riva. La materia a tinte forti, tra il freudiano e il melodrammatico, era tutto fuorché noiosa.

Ora qui da noi prolifera invece un nuovo genere letterario molto meno avvincente, le memorie dei figli d’arte dei registi della commedia all’italiana. Non metterebbe conto di parlarne se non fosse diventato, appunto, un genere, che minaccia riproduzioni e moltiplicazioni.

Il problema fondamentale di queste memorie è che né a chi le scrive né a chi le pubblica sembra chiaro che l’unico motivo per cui vengono acquistate è la maniacalità dei cinefili che sperano – ingenuamente – di spigolare qualche particolare inedito sui registi amati. Vanamente. Perché se il nome del padre famoso è sbattuto in bella evidenza in copertina – in genere nel sottotitolo, forse per un residuo di pudore –, poi all’interno del libro dilaga l’Io dei figli, che occupano pagine e pagine con le loro vicende e i loro pensieri. Purtroppo non si tratta di grandi scrittori, di grandi pensatori, di avventurieri dalle vite rocambolesche. Quindi al lettore cinefilo non resta che la delusione, il tedio e un esiguo numero di pagine interessanti (un po’ poco per giustificare una spesa media di 18-19 euro). Non so se questi libri abbiano anche qualche altro tipo di lettore; io ne dubito, non trattandosi di divi, che godono ovviamente di un platea di fan molto più ampia. Gli editori, dunque, o ignorano questo fatto fondamentale – ma allora perché tengono in libro paga un ufficio marketing – o sono in cattiva fede, consapevoli di mollare una “sola”, come dicono a Roma.

La felice eccezione che conferma la regola di quest’astuta strategia editoriale è, ad esempio, Il cinema secondo Sonego (2000), eccellente libro di Tatti Sanguineti sullo sceneggiatore veneto, ampliato e ripubblicato nel 2015 sotto il più popolare titolo Il cervello di Alberto Sordi. Rodolfo Sonego e il suo cinema.

Pioniera di questo genere, per quel che ne so, è stata nel 2013 Ottavia Monicelli, con Guai ai baci. Così grande, così lontano: ritratto di mio padre (chi sia il padre è evidente dalla foto del regista che riempie la copertina). A differenza di quanto promesso dal titolo, è soprattutto il ritratto della bimba trascurata da papà.

In quest’ultimo anno il genere si è arricchito di due notevoli esemplari. Il primo, uscito a ottobre dell’anno scorso, è stato Chiamiamo il babbo. Ettore Scola. Una storia di famiglia, di Paola e Silvia Scola. Il punto di vista del racconto era potenzialmente interessante, visto che entrambe sono state collaboratrici del padre e quindi teoricamente in grado di parlare con maggior cognizione anche del regista. Purtroppo il lato pubblico naviga tra il risaputo e l’insignificante, con i soliti ritrattini triti e ritriti dell’ambiente del cinema dell’epoca. Emblematico dell’insignificante è l’aneddoto dell’attrice riccioluta in predicato per una parte, alla quale Scola fa stirare i capelli per poi, comunque, non prenderla. Paola Scola lo riferisce come prova del fatto che il regista «era grande non solo perché era l’amore mio, non solo perché è uno dei più grandi autori del cinema mondiale, ma perché si prendeva il coraggio delle sue scelte». Il lato privato è invece dominato da alcune battute ricorrenti in famiglia nobilitate dall’etichetta di “lessico familiare”, come recita anche il risvolto di copertina (Natalia Ginzburg, quanti crimini si commettono in tuo nome!). Il tutto è poi appesantito da una vocazione didascalica che sembra rivolgersi a lettori undicenni: è davvero necessario spiegare che «sotto la dittatura fascista l’unico partito ammesso in Italia dal 1926 al 1943 fu il Partito nazionale fascista (PNF), tutti gli altri erano vietati dal regime e chi la pensava diversamente era arrestato e condannato al carcere»? Tra le poche pagine che rivestono per l’appassionato di cinema un vero interesse, ci sono quelle dedicate all’uso antirealistico del doppiaggio ne La famiglia, così come le altre in cui si racconta della guerra fatta da Gianni Agnelli a Trevico-Torino, piccolo film autoprodotto su «un giovane che emigra pieno di speranze dal suo paesino dell’Irpinia e che va a scontrarsi con la feroce realtà della condizione operaia». Il proprietario della Fiat non solo fece dileguare i possibili produttori (nessuno voleva inimicarselo) e vietò le riprese all’interno della fabbrica, ma riuscì anche a impedire la distribuzione del film.

Il secondo recentissimo – marzo 2020 – esemplare del genere è Forte respiro rapido. La mia vita con Dino Risi di Marco Risi. Anche qui l’autore parla parecchio di sé, anzi in alcuni capitoli quasi esclusivamente di sé, come ad esempio in quello intitolato La scuola, tutto dedicato ai suoi ricordi del liceo, con accurate descrizioni di compagni e professori (c’è qualcosa di più noioso dei ricordi di scuola?). La cosa più sconcertante del libro, però, è che Risi (Marco) ricicla degli aneddoti già raccontati da Risi (Dino) in I miei mostri (2004), come ad esempio quello sulla fine della sua storia con Anita Ekberg, riprendendolo quasi alla lettera e arrivando quindi a un nuovo reato, quello del plagio familiare o appropriazione indebita di ricordi. Ci sono però un paio di pagine che valgono tutto il libro. Qui è Dino a parlare in prima persona, in una lettera datata 28 ottobre 1946 e indirizzata alla fidanzata. Claudia. Nella lettera c’è un passo bellissimo che contiene già il sentimento dominante di un filone importante del suo cinema e che emerge a partire dagli anni Settanta, con Profumo di donna (1974). È la malinconia di chi contempla la lotta tra l’amore e il tempo, ma che comunque non si rassegna a quella che sembra la conclusione già scritta: «andremo al sole sulle montagne a fare le fotografie con la tua macchina infernale, poi ci sposeremo, avremo pochi ma buoni bambini, e vivremo a lungo contenti e felici, e quelli che ci incontreranno diranno: ecco due che si vogliono bene “ancora”. Perché questa è la cosa difficile, la cosa nella quale noi riusciremo: volersi bene ancora».

Da questa lettera prendo spunto per fare una richiesta ai figli d’arte: invece di scrivere le vostre memorie, fate parlare direttamente i vostri genitori, dando alle stampe sceneggiature di film mai realizzati, lettere, diari ecc. Più lavoro d’archivio e meno ricordi, per favore!

Gli autori

Francesca Marcellan

Francesca Marcellan vive a Padova, lavora presso il Ministero della Cultura e scrive di arte, soprattutto nei suoi aspetti iconologici. Sulla scorta di Morando Morandini, va al cinema "per essere invasa dai film, non per evadere grazie ai film". E quando queste invasioni sono particolarmente proficue, le condivide scrivendone.

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