Il vecchio mondo del “Piano Colao”

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1.

Prima di chiederci cosa c’è scritto nel cosiddetto “Piano Colao” (https://static.gedidigital.it/repubblica/pdf/2020/cronaca/schede-lavoro.pdf), dovremmo chiederci perché un Governo costituzionale abbia affidato al buio a un manager privato, coadiuvato da un team di docenti, esperti e professionisti, l’elaborazione di un piano per il rilancio dell’economia italiana, dopo la serrata imposta dalla pandemia (vedi https://volerelaluna.it/commenti/2020/04/13/coronavirus-fase-2-guai-ai-poveri/). La risposta a questo interrogativo rimanda indubbiamente al tema, ormai storico, dello svuotamento progressivo della “funzione politica” nei principali Paesi capitalistici, in nome di una presunta oggettività delle leggi che regolano l’economia. Il rapporto agonico tra politica ed economia è stato risolto nella subordinazione della prima alla seconda, rendendo maledettamente reale l’assunto marx-engelsiano secondo cui il potere statale moderno non sarebbe altro che «un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese».

Eppure, non è stato sempre così. Per più di un trentennio, nel dopoguerra, la politica, forte anche della sua legittimazione di classe, è riuscita a contendere pezzi di potere al capitale. Finché, per dirla con Mario Tronti, «la storia non ha ripreso nelle sue mani il secolo e ha espulso la politica», cosicché «il capitalismo ha riafferrato tutto intero l’esercizio della sua egemonia, con le armi proprie, strategiche, della forza economica, della potenza finanziaria, della violenza tecnologica». Non c’è altra spiegazione al fatto che, di fronte alla più grave crisi economica degli ultimi cento anni, un Governo, formalmente espressione di una volontà parlamentare, quindi in teoria “politica”, decida di appaltare a terzi, senza nemmeno dettare una qualche linea generale d’indirizzo, la definizione di una strategia di medio periodo per la ripartenza del Paese.

Probabilmente, il premier e i partiti della maggioranza non si aspettavano un documento così sfacciatamente liberista e contrario all’attuale disposizione d’animo degli italiani, sebbene, nel complesso, lo stesso Conte l’abbia definito «un buon lavoro». Ma ciò, a ben vedere, costituisce un’aggravante, la conferma che il Governo abbia del tutto abdicato alla sua funzione di indirizzo politico, in nome di una presunta “neutralità” della tecnica programmatoria.

2.

Che dice questo piano? Che la ripartenza del Paese può avvenire soltanto dando soldi e mano libera alle imprese. Una riproposizione del vecchio laissez-faire. Come ai tempi di Adam Smith, come se due secoli fossero passati invano, la convinzione è che il perseguimento dell’interesse personale costituisca la fonte del bene comune. «Non è dalla benevolenza del fornaio o del birraio che dobbiamo aspettarci il nostro desinare […], ma dal loro egoismo», scriveva l’economista inglese nella sua Wealth of Nation. Lasciar fare, quindi.

Anzitutto il datore di lavoro non deve avere alcuna responsabilità, sul piano penale, nel caso che un suo dipendente si ammali di Covid-19, né dev’essere obbligato a stabilizzare i lavoratori precari dopo un certo periodo di tempo, come la legge vigente prevede. Piuttosto, deve avere la possibilità di vedersi condonate le sue pendenze col fisco e ricevere un premio, sotto forma di sgravi ed incentivi, dichiarando di avere lavoratori in nero o soldi nascosti all’estero. Poi, ovviamente, saranno ancora le esportazioni a trainare la ripresa, giocando sul costo del lavoro e il contenimento della domanda interna. E, naturalmente, le solite grandi opere e regole “semplificate” per gli appalti, ampliamento della gestione privata dei beni culturali, competizione tra le università per l’accaparramento di fondi sia pubblici che privati, sponsor privati per le scuole e campagne di crowdfunding per «adottare una classe».

Un manifesto della scuola di Chicago con quarant’anni di ritardo, che per le fasce più deboli e vulnerabili della società prevede i «presìdi di welfare di prossimità», una sorta di Caritas istituzionale gestita dai comuni, e l’assistenza psicologica, trattando la povertà come malattia.

Ma la cosa che colpisce di più in questo documento è l’assenza, tra i sei assi strategici individuati, di un asse specifico relativo alla sanità pubblica e al diritto universale alla salute, nonostante i problemi strutturali riscontrati nel comparto in questi mesi di emergenza e l’evidenza dei danni che le concessioni al privato e i tagli alle risorse hanno arrecato negli anni al sistema sanitario nazionale. Di sanità si parla soltanto nel capitolo intitolato «Individui e famiglie», ma sempre dal lato della salute mentale, della dipendenza, del disagio, delle devianze.

Lo Stato non scompare in questo modello di riorganizzazione della società e dell’economia, ma si limita ad apparecchiare la tavola agli attori privati, all’impresa, al capitale finanziario, preoccupandosi, dal suo canto, di gestire “sanitariamente” il disagio sociale ed eventuali conflitti derivanti dall’aggravarsi, complice la grave recessione in atto, delle condizioni di deprivazione materiale per milioni di persone. Una narrazione distopica, purtroppo, che contrasta volgarmente con le aspettative di larga parte della popolazione, di chi è costretto a lavorare per sopravvivere, di tutti coloro che ancora adesso pagano il prezzo dell’altra crisi, quella del 2008-2011, dalla quale, a dire il vero, non siamo mai pienamente usciti.

3.

Appare perfino banale ricordare che oggi servirebbe altro. Su tutto, l’uso della spesa pubblica per creare lavoro e reddito, una rifondazione del welfare su basi universalistiche, una politica di redistribuzione della ricchezza attraverso la leva della progressività fiscale e della tassazione sui grandi patrimoni, riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Se è vero, come è vero, che la disuguaglianza «indebolisce l’economia, danneggia la democrazia e divide la società» ‒ per usare le parole del Premio Nobel Joseph Stiglitz ‒ proprio l’investimento nell’uguaglianza dei produttori e, più in generale, dei cittadini, sarebbe la risposta più efficace alla grave crisi nella quale ci siamo infilati. Perché la forte disparità di reddito «erode la performance economica, riducendo la domanda e facendo salire l’instabilità».

Ma chi può, oggi, nel nostro Paese, farsi carico di una simile istanza? La fine (o la residualità) delle organizzazioni politiche del movimento operaio è una delle concause dell’arretramento della politica a vantaggio del capitale. In Italia, più che altrove. L’unica forza ancora in piedi che potrebbe rianimare il conflitto e contrapporre alla “soluzione del capitale” una soluzione alternativa, calibrata sugli interessi dei lavoratori, dei precari, dei ceti popolari, è il sindacato. Che però, almeno fino a questo momento, si sta mostrando balbettante ed eccessivamente compatibilista. A meno che, la crisi, com’è accaduto anche nel recente passato in alcuni Paesi, non si faccia levatrice di un nuovo progetto politico di alternativa con basi di massa. Ciò che, per il momento, non si intravede nemmeno lontanamente.

Gli autori

Luigi Pandolfi

Luigi Pandolfi, laureato in scienze politiche, giornalista pubblicista, scrive di politica ed economia su vari giornali, riviste e web magazine, tra cui "Il Manifesto", "Micromega", "Economia e Politica". Tra i suoi libri più recenti: "Metamorfosi del denaro" (manifestolibri, 2020).

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