Sotto la pelle dello Stato, nella società del frammento, ritrovi tracce di comunità. Liquide come il mercurio non fanno società scomposte nel rancore, nella cura e nell’operosità. Mai come ora queste fenomenologie interrogano la statualità. Il condensarsi del rancore si fa sovranismo, l’irrompere dei bisogni del corpo malato chiede sanità e welfare state e le imprese e le economie chiedono aiuto per ricominciare con il codice noto del produrre per competere in scenari geoeconomici mutati. In questa metamorfosi da covid 19 si è visto un ritorno prepotente della statualità come potere di ultima istanza sia per regole e comportamenti per mantenere la giusta distanza, che per un capitalismo finito nella terapia intensiva dell’helicopter money e per i tanti senza più moneta per mangiare.
Partendo dalle fenomenologie comunitarie che stanno sotto e chiedono più Stato rovescerei il paradigma. Chiedendomi quale welfare, quale impresa, quale modello di sviluppo viene avanti, quale Stato vogliamo? Scavando in orizzontale e in profondità non solo guardando all’elicottero che ci sorvola annunciando. Se non ora quando mettere in mezzo un intelletto collettivo sociale da società riflessiva sul lavoro, l’impresa e lo Stato. Anche perché non si dà economia senza società e non si dà statualità senza mettere in mezzo tra economia e politica la società. Per questo più che sul “quanto Stato” occorre interrogarsi sul “quale Stato”. Certo diverso da quello di nudo apparato di amministrazione procedurale prevalso nella lunga stagione neoliberista ed oggi al suo culmine con i DPCM (Decreti del Presidente del Consiglio). Anche perché ciò che stiamo vivendo mostra l’incapacità piramidale degli interventi pubblici di arrivare alle filiere degli invisibili nei meandri di una composizione sociale molecolare alla base della piramide dove nascondiamo, come polvere sotto il tappeto, la società dello scarto.
Non basta aver memoria e nostalgia del secolo breve dove la radice etico-umanistica comune tra élite produttive, lavoro e welfare state era espressione di una società dei produttori nella quale impresa e lavoro erano luoghi di contrattazione e conflitto mediati dalla politica. Anche la questione di quale Stato va posta dentro il salto d’epoca, dentro l’antropologica fine “di un mondo” (De Martino) con il nuovo segnato dall’antropocene e dal tecnocene. Il motto weberiano “la proprietà obbliga” che invitava al patto tra capitale e lavoro in basso e lo Stato in alto non basta più nell’epoca in cui “l’innovazione obbliga”. Occorre trovare una nuova radice non solo tecnico-funzionale ma etico-sociale sulla quale costruire un nuovo rapporto Stato-Società innervato da umanesimo, dall’umano, sia nel fare impresa, nei lavori e nel welfare di comunità.
Mai come oggi, a proposito di capitalismo della rete e quale Stato, l’innovazione obbliga a riflettere sulla pervasività della società automatica e digitalizzata nella vita quotidiana, nei lavori e nelle forme di convivenza. Oggi l’innovazione produce reddito, profitto e consenso, mette al lavoro il nostro sentire, pensare, ricordare e comunicare da parte dell’infrastruttura tecnologica e dei “padroni dell’algoritmo”. Anche nell’affrontare l’emergenza pandemica il potere di sorveglianza diffusa della Silicon Valley, si presenta come deus ex machina del futuro. Qui vedo un vuoto di statualità che non rimanda solo alla tassazione delle astronavi che ci sorvolano, ma anche ai giacimenti del nuovo petrolio dei big data. Tanti saranno i remotizzati al lavoro per riprodurre la società automatica dell’algoritmo sentendosi sulla plancia di comando. Immemori sia di quelli in basso al lavoro nelle polveri sottili dei lavori di riproduzione e non coscienti che, quello che dolcemente si denomina smart working, può assomigliare al vecchio (quanto il capitalismo) lavoro a domicilio. Anche nelle piattaforme che volano dei cognitari fatti cognitariato che lavora comunicando, tante sono le Partite IVA messe al lavoro quante quelle in basso nei lavori apolidi precari e sommersi. Futuro non più prossimo, sperimentato nel lockdown, che già con suadente dolcezza qualcuno definisce nuova normalità.
Normalità in cui può sembrare un ossimoro la parola grande “umanesimo industriale” in tempi in cui riappare l’essenzialità del rapporto tra lavoro e salute. In un paese che si regge su una composizione produttiva di 5 milioni di imprese con una dimensione media di 3,8 addetti spalmati e diffusi sul territorio sferzato dal vento gelido e selettivo della crisi delle crisi. Grandi, piccoli e sommersi si rivolgono allo Stato come salvatore di ultima istanza. Provo a mettere in mezzo l’icona del nostro umanesimo industriale: Adriano Olivetti. Che allora, ragionando più di comunità concrete che di Stato, si chiedeva se umanesimo d’impresa non fosse solo destinare parte dei profitti per alcuni bisogni della comunità ma, viceversa, non fosse il caso di coinvolgere la comunità per disegnare le esigenze a lungo termine della comunità e le prospettive di sviluppo dell’impresa. Arrivando così a pronunciare la parola e la questione allora impronunciabile della cogestione dentro e fuori la fabbrica.
Certo utopie di uno sconfitto con il suo fordismo dolce dal fordismo hard di Valletta, con l’innovazione di prodotto che si è fatta rete, sulla cogestione con i territori con l’IRI fatto flusso dall’alto senza territori e con la Cassa del Mezzogiorno a Sud, a proposito di elicotteri statali dell’offerta. E con il sindacato in perenne attesa di una socialdemocrazia alla tedesca con la cogestione al vertice tra grande impresa-grande banca- grande sindacato. Era il sogno di un capitalismo renano che da noi ha prodotto solo una cogestione molecolare tra padroncini ed operai nelle micro imprese e tracce di comunità operosa nei distretti. Attualità nell’inattualità per chi vede, a proposito di umanesimo industriale, l’impresa come un istituto della poliarchia sociale oltre che un’organizzazione funzionale alla produzione di merce. L’impresa è anche organizzatore sociale ove dar senso alle forme dei lavori ed ai rapporti sociali intorno a sé comportandosi non solo come una macchina per fare profitti, ma come istituzione di una comunità operosa di un sistema territoriale composto oltre che da imprese, da autonomie funzionali e delle reti, da pezzi di società di mezzo ed imprese sociali di welfare di comunità e da istituzioni. Da qui un’altra visione della statualità come statualità diffusa che accompagna ed innerva con scuola, università, medicina di territorio, infrastrutture dolci le piattaforme territoriali, le città sino ai piccoli comuni tenendo assieme smart city e smart land.
Tenuta sociale nelle città e nei territori che la pandemia ci ha reso evidente non regge senza i saperi sociali in grado di percorrere l’ultimo miglio della filiera degli invisibili. Non ha retto né il fantasma del welfare state del ‘900 né la retorica del welfare aziendale, entrambi incentrati su una sussidiarietà dall’alto che delegava al basso, quando non privatizzava esternalizzazioni caritatevoli al terzo settore. L’impianto piramidale dei flussi, che impattano nei luoghi desertificando le reti sociali e del lavoro, con in mezzo uno Stato ancillare più che regolatore, inducono una gara per pochi verso l’alto e per tanti il precipitare verso il basso dove sono delegati agli uomini dei sussurri della comunità di cura. Che deve prendere voce ricostruendo welfare dal basso, case della salute, non ghetti per anziani o per il disagio psichico in una società della competizione, assieme alla medicina di territorio e di fabbrica, mai così attuale. Mettendosi in relazione con le reti territoriali che sono beni collettivi come la scuola e i servizi nelle città e nei piccoli comuni. Rovesciando la filiera che vede prima l’economico che attraversa lo Stato ed impatta nei luoghi nel suo opposto: dalle comunità di luogo alla statualità che fa rete territoriale sino a cambiare le economie in metamorfosi nella crisi ecologica e nel salto tecnologico.
Sono deboli tracce di comunità di cura e di operosità che fanno oasi più che società nella loro resilienza da Fondazioni di Comunità per il welfare locale, da rete Caritas o da Casa della Carità. Ci sono anche imprese responsabili che incorporano nel fare green economy il concetto del limite ambientale e sociale e firmano il Manifesto di Assisi di Symbola e tendenze da ritornanti facendosi agrigiani, nuovi contadini artigiani della terra. E testimonianze più radicali che portano il ‘900 del “mondo dei vinti” interrogante ricostruendo i paesi abbandonati come a Paraloup o l’esperienza del comune di Riace in relazione con i flussi delle migrazioni.
Il territorialista Magnaghi, attento alle lunghe derive, ci insegna a scomporre e ricomporre le città infinite. Partendo dal margine che si fa centro nella crisi climatica e nella crisi sociale colloca il tema della città sociale nella bioregione. Pratiche e visioni destinate a rimanere oasi se non si fanno comunità larga per attraversare il deserto facendo società e dandosi risposta alla domanda di “quale Stato”.
Affrontare questi temi partendo dalla coscienza di luogo e del territorio è importante per una nuova cultura. Perché partendo da tre città emblematiche, segnate dal Coronavirus e dal loro essere in mezzo alle città infinite come Parma, Bergamo e Brescia che sono e si candidano ad essere Città Italiane della Cultura, non proviamo a farle diventare nei prossimi anni luoghi simbolo di un’altra visione? Certo solo con le comunità si fa testimonianza, non società, se non iniziamo a tessere e ritessere almeno una società di mezzo in grado di mettersi in mezzo tra flussi e luoghi e per ridisegnare statualità. Per attraversare il deserto che ci pare “la fine di un mondo “andando verso l’altrove ho usato la metafora di Enea che si carica sulle spalle Anchise, citata in un’intervista da Papa Francesco, da me laicamente piegata verso le rappresentanze delle imprese e dei lavori sperando si facciano Enea adeguati ai tempi.
Vale per Confindustria che mi pare più guardare all’indietro al partito del PIL senza nemmeno tracce del BES (Benessere equo e sostenibile) da incorporare per andare altrove. Antonio Calabrò in un intervento sull’HuffPost segnala che oltre alla politics per il PIL, occorre per “l’impresa riformista” un più di policy che rimanda ai valori e alla visione del fare impresa. Discontinuità che vale anche per le rappresentanze del capitalismo molecolare falcidiato dal lockdown ed in affanno nel ripartire nelle filiere e nelle piattaforme produttive. Per il commercio con la sua prossimità rivalutata e negata dalle astronavi simil Amazon e in affanno a ridisegnare servizi nelle città, sul territorio e per il turismo. Per le rappresentanze dell’agricoltura nei campi per il lavoro, come abbiamo visto, nelle filiere e in rapporto con la grande distribuzione. E vale per il sindacato, che questa volta si trova a cogestire l’introduzione di tecnologia in alto, a negoziare, si spera con i padroni dell’algoritmo, a dar voce alla frammentazione dei lavori dentro le mura, sul territorio e nelle case del lavoro a distanza facendo anche sindacato di comunità di cura per gli invisibili. Marco Revelli mi ha fatto giustamente notare quanto sia debole questo mio disegnare una comunità larga tra gli uomini e le donne delle oasi e le forze sociali del ‘900 che ho appena tratteggiato. Spero in una loro metamorfosi imposta dal mutamento delle forme del produrre e della composizione sociale. Auspicando il venire avanti di una società di mezzo adeguata ai tempi, che si metta in mezzo dando voce interrogante e conflittuale nella metamorfosi che ci aspetta. Certo come dargli torto nel vedere l’eterno ritorno dei tanti pronti a saltare loro sulle spalle di un Anchise barcollante. Ma qui siamo e qui ci tocca ricominciare ad andare verso un altrove, sperando di riuscire a metterci in comune.
Una versione ridotta è stata pubblicata su il manifesto del 28 maggio col titolo La domanda non è quanto stato ma quale stato e quale welfare