
Ho incontrato per la prima volta Giannantonio Pellegrini Cislaghi ne La città degli untori di Corrado Stajano. In una di quelle sue esplorazioni del consueto, che fanno emergere la vita segreta e autentica di una città, Stajano nota in una stretta via del centro di Milano, sulla facciata di un austero palazzo di famiglia primo Novecento, una lapide che recita:
Stajano è toccato dalle parole solenni e desuete: Dio, patria e libertà; io rimasi colpita dal riferimento al Tancia: un monte che conoscevo bene, vicinissimo a Casperia, il paese natale del mio nonno materno, al confine tra Umbria e Lazio. Che cosa aveva portato quel ragazzo milanese a morirvi? E come si era svolto quell’”impari combattimento”? Cercarne le tracce mi ha condotto anche alla memoria di una strage di inermi, diversa da quelle di Marzabotto o di Sant’Anna di Stazzema soltanto per il numero minore di vittime.
Nell’inverno 1943-44 Giannantonio è un brillante studente quindicenne (era nato il 29 settembre del 1928) destinato con tutta probabilità a continuare le tradizioni giuridiche della famiglia. Frequenta l’Istituto Zaccaria dei Padri Barnabiti, prestigiosa scuola cattolica di Milano, ama molto lo sport, gioca benissimo a tennis, ha fondato e dirige il giornale scolastico. I Pellegrini Cislaghi sono di matrice liberale e antifascista: il nonno Antonio era nell’elenco degli intellettuali milanesi da inviare al confino, il padre Luigi ospita ebrei nel palazzo di via San Martino (vi trascorse un periodo anche Primo Levi). Giannantonio, per citare la sua lettera di commiato ai genitori, si convince che “in questi momenti di estremo pericolo per la Patria, ogni giovane che veramente si sente italiano non può stare inerte mentre si compiono i destini della Patria”. Sceglie come agire dopo due condanne a morte di oppositori del fascismo del dicembre 1943.
Il 18 dicembre a Milano un commando gappista uccide il federale Aldo Resega e il 19 otto prigionieri politici detenuti nel carcere di San Vittore vengono giustiziati all’Arena: il giudizio sommario di un Tribunale militare ha dato parvenza di legalità alla rappresaglia. Pochi giorni dopo il processo altrettanto sommario di un tribunale convocato nottetempo nel municipio di Erba dal prefetto di Como si concluderà con la fucilazione, nel cimitero, del ventenne Giancarlo Puecher, legato ai frati serviti Davide Turoldo e Camillo De Piaz ed esponente di quella resistenza di matrice cattolica che operava soprattutto facendo informazione e propaganda antifascista, fornendo appoggio e mezzi alle formazioni partigiane in clandestinità, nascondendo perseguitati, aiutando fughe all’estero. Giannantonio si convince che non ci sono possibilità di lotta restando a Milano: l’unica strada è raggiungere il Sud per arruolarsi nell’esercito regolare. Lo fa il 28 gennaio 1944 accomiatandosi dai genitori con una lettera toccante, determinata come di un adulto, ingenua come di un adolescente.

“… tento di raggiungere Badoglio ed il nostro Re che deve e dovrà seguire l’esempio dei suoi Grandi Avi (…)
Non piangete; non sia mai detto che dei veri italiani piangano perché il proprio figlio è andato a combattere per la Patria!
Non vi ho chiesto il permesso perché voi, seguendo l’impulso del vostro cuore, me lo avreste negato.
So che vado incontro ad un grave pericolo, ma sono cosciente di ciò che ho fatto. (…) Non fatemi cercare, lasciatemi al mio destino pur volendomi sempre bene come io ne ho sempre voluto a voi.
Non addoloratevi e cercate di star bene. Il vostro sempre affezionatissimo TOTO. W l’Italia democratica
W Badoglio W il Re”
Non riuscì ad arrivare al Sud, fermatosi a Roma entrò in contatto con il Fronte militare clandestino e venne mandato “in montagna” in Sabina, con un gruppo di giovani partigiani reduci dagli scontri nelle borgate di Centocelle e Tor Pignattara, in appoggio alla banda D’Ercole – Stalin già operante nella zona di Poggio Mirteto.
La D’Ercole-Stalin era nata dalla fusione di due formazioni, una di soldati sbandati che faceva capo ad ufficiali dell’esercito, fra cui appunto D’Ercole, e una di giovani comunisti guidata da Redento Masci. Oltre che bene addestrata era anche bene armata, perché con grande tempismo (i tedeschi avrebbero occupato Poggio Mirteto il 18 settembre 1943) i partigiani avevano prelevato armi e munizioni da un deposito dello Stato Maggiore Generale, prima che questo, in disarmo, lo svuotasse del materiale bellico. All’inizio erano impegnati soprattutto in azioni di sabotaggio delle vie di comunicazione stradali e ferroviarie: a Poggio Mirteto Scalo infatti transitavano per il carico e scarico i convogli con i rifornimenti per le truppe. Dopo aver più volte danneggiato binari e linee elettriche erano anche riusciti, facendo saltare una cisterna di carburante, a provocare un enorme incendio che aveva coinvolto tutta la stazione e distrutto treni, autocarri e anche i due vagoni presidenziali che Mussolini usava per i suoi viaggi, spostati lì dalla Tiburtina, perché fossero al sicuro.
Nei primi mesi del 1944, quando al gruppo originario si erano aggiunti dai paesi vicini molti giovani renitenti alla leva forzata e da Roma i partigiani dell’8^ zona garibaldina, nell’insieme la brigata D’Ercole- Stalin era forte di circa trecento uomini; di questi, un consistente nucleo si era attestato sul Tancia.
Il Tancia è una delle cime più alte dei monti Sabini, un intersecarsi di alti dossi dalle linee morbide, coperti di lecci, querce, faggi sino alle cime brulle dove affiorano le bianche rocce calcaree e la vista spazia sulla piana di Rieti da una parte, sulla valle del Tevere dall’altra. Nei boschi si aprono lunghe dorsali e ampie conche erbose dove, ancora oggi, pascolano liberi mucche, pecore, capre e maiali. Allora, molto più di adesso, le bestie costituivano, insieme con l’oliva prodotta sulle colline digradanti verso la pianura, la base dell’economia della zona ed erano numerosi in montagna i casali isolati o riuniti in minuscoli villaggi dove le famiglie vivevano tutto l’anno o soggiornavano quando gli animali erano portati nei pascoli alti. In alcuni di questi casali, e in particolare al Casale Ferri, avevano la loro base i partigiani, riforniti dai compaesani che “facevano la spoletta” per portar loro viveri e informazioni.

In Sabina si era fatta più massiccia la presenza delle SS, anche perché lo sbarco degli alleati ad Anzio, iniziato il 22 gennaio, aveva indotto i tedeschi a rafforzare il controllo sul territorio per garantirsi una più sicura ritirata a nord. Nella zona, quindi, i partigiani avevano sferrato vere e proprie azioni militari: da attacchi a convogli e caserme fino all’occupazione di interi paesi. Il 16 Marzo un contingente della brigata Antonio Gramsci entra a Leonessa, sulle pendici del Terminillo, e unendo Leonessa a Cascia, Norcia e Poggio Bustone si costituisce “come unica autorità esistente in questo territorio che degnamente rappresenta la nuova Italia democratica.” (Proclama della costituzione del territorio libero Umbro Sabino.) È, anche se per brevissimo tempo, la prima zona liberata d’Italia.
La reazione tedesca è immediata e violentissima: a Leonessa, come nella zona del Monte Cosce e sui Sabini. Anche il Tancia è zona da “bonificare” e il 7 aprile, venerdì santo, viene avviata l’operazione sarcasticamente denominata Osterei (uovo di Pasqua) a cui partecipano reparti delle divisioni Goering e Sardinia e un battaglione di Camicie Nere. Per sorprendere e accerchiare i “banditi” salgono nottetempo lungo le sterrate che da più punti portano verso il Tancia e che si ricongiungono nel vasto pianoro della Sella di Tancia, per secoli punto nodale di passaggio a Rieti dal territorio della potentissima Abbazia di Farfa, difeso da un castello e con ben due locande (Osterie nella dicitura locale) per alloggiare i viaggiatori, ma ormai zona di pascolo, poche case e una chiesetta dedicata a Michele Arcangelo. Il piano riesce solo in parte: un gruppo di partigiani viene sorpreso a Casale Ferri, ci sono morti e feriti, vengono fatti prigionieri (fra cui Giannantonio che nel combattimento ha perso due dita), ma il grosso della brigata riesce ad attestarsi sulle cime e impegna il nemico per tutta la giornata. Quando cominciarono a scarseggiare le munizioni sette partigiani comandati dal romano Bruno Bruni si fermarono con una mitragliatrice sulla piccola cima dell’Arcucciola da cui si domina tutta la Sella di Tancia, in modo da tenere aperto un varco ai compagni che si dispersero nei boschi per forre e sentieri e si rifugiarono a Poggio Catino, Roccantica, Aspra (così allora si chiamava Casperia). I sette dell’Arcucciola, finite le munizioni, furono uccisi e i loro corpi lasciati sul posto. Solo il 6 maggio fu concesso al parroco di Bocchignano di salire con cinque carabinieri e alcuni volontari per dar loro sepoltura; in una lettera al vescovo di Rieti il sacerdote racconta con solenne retorica e autentica commozione, citando il laicissimo Carducci, come abbia ricomposto e sepolto quei poveri resti “piano, adagio, per non far male” e come abbia alzato “la mano benedicente alle bare, al dolore, all’eroismo, alla Patria: Ell’è un’idea/fulgente di giustizia e di pietà:/ io benedico chi per lei cadea;/ io benedico chi per lei vivrà.”
L’ operazione Osterei era costata a tedeschi e fascisti molte più perdite del previsto e l’obiettivo di annientare il nucleo partigiano del Tancia era sostanzialmente fallito. Ne fecero le spese gli abitanti della piccola frazione di San Michele Arcangelo del Tancia.
Vengono spinti nella chiesetta e da lì assistono alla devastazione e all’incendio delle loro case, all’uccisione dei loro animali; nel pomeriggio anche alla chiesa vien dato fuoco, donne vecchi e bambini sono trascinati in uno spiazzetto dietro la fontana e lì mitragliati. Sul piccolo monumento funebre che segna il luogo dell’eccidio i morti sono raggruppati per nuclei familiari, l’età di ognuno tra parentesi:

Si salvano i padri, in montagna dietro le bestie o nascosti nel bosco per sfuggire a quello che avevano ritenuto l’ennesimo rastrellamento di uomini validi. Tra gli scampati anche Amaranto Bonacasata, dodicenne, grande abbastanza per esser mandato sul far dell’alba in cerca di una mucca sviata; scendendo dal dosso dove l’ha recuperata scorge dall’alto un gran luccicare di elmetti, prima che una raffica di mitra gli falci davanti agli occhi l’animale. Riesce ad appiattarsi in una forra, dietro una piccola cascata proprio sotto l’Arcucciola, e da lì per tutta la giornata sente gli spari della lunga battaglia. Quando si azzarda a uscire dal suo nascondiglio, vede un gran fumo di incendio dove erano le case e davanti a lui, a guardia del varco da cui pensava di scappare, un soldato tedesco, mitra imbracciato, ma sente anche, in un italiano stentato: “Non impaurire, io essere austriaco, vai avanti.” Il giorno dopo, tornato con il padre alla Sella di Tancia, troverà la casa distrutta, ammazzati la mamma due fratelli e una sorellina. Ancora in vita Alba, la più grandina, appiattatasi in tempo dentro un cespuglio, e l’ultima nata, Antonietta, di tre mesi: il padre si è chinato a raccogliere da terra il cappotto della moglie, pensando che glielo avessero strappato mentre la portavan via, e la piccola scivola fuori dal fagotto che l’aveva avvolta e protetta. I morti sono ammucchiati tutti insieme là dove sono stati uccisi, ma passano tre o quattro giorni prima che possano coprirli di terra. Saranno poi trasferiti al cimitero, ma ormai, dice Amaranto, erano solo “ ‘na brancatina de cenere”.
Giannantonio viene portato a Poggio Mirteto e chiuso in una rimessa insieme con altri due giovani partigiani, Giuseppe Felici e Diego Eusebi, e con Giuseppe De Vito, il podestà repubblichino del paese, arrestato perché si era rifiutato di farsi delatore dei suoi concittadini. La successiva tappa è il carcere reatino di Santa Scolastica dove rimane la sua ultima traccia: l’atto di consegna del detenuto Pellegrini Giannantonio, alto 1,86, occhi castani, una ferita d’arma da fuoco alla mano sinistra.

Nella notte di Pasqua dal carcere vengono prelevati quindici detenuti, tra cui Giannantonio, l’ Eusebi, il Felici, Giuseppe De Vito, Roberto Pietrostefani, che aveva fatto parte del Comitato Comunale di Liberazione di Leonessa, Onofrio Sitta, un contadino del Polesine arruolato a forza nell’esercito repubblichino e disertore. Vengono portati fuori Rieti in località Quattro Strade dove un bombardamento ha lasciato nel terreno profonde buche, a gruppi di cinque, come alle Fosse Ardeatine, vengono fucilati alle spalle e gettati nella fossa comune.
La località Quattro Strade dove erano campi e qualche casa sparsa è ora un quartiere periferico di Rieti, con la sua parrocchia, i suoi negozi, la sua scuola. Nell’aprile del 1990 su richiesta degli alunni questa è diventata Scuola Elementare Giannantonio Pellegrini Cislaghi.