Il 25 aprile di ogni anno celebriamo la liberazione dell’Italia dall’occupazione nazista e dal regime fascista. La festa della liberazione venne istituita, su proposta di Alcide De Gasperi, l’anno successivo all’avvenimento, il 22 aprile del 1946. E la festeggiamo ancora, sempre con un certo gioioso entusiasmo, nonostante i tentativi di farla diventare qualcos’altro, magari di “meno politicizzato” (per esempio, è stato proposto di intitolarla a «tutti i caduti di tutte le guerre, compreso il coronavirus»). Certo, quest’anno non ci saranno sfilate e manifestazioni e scarseggeranno le cerimonie collettive di posa delle corone d’alloro davanti ai monumenti per ricordare i caduti; chiusi come siamo in una sorta di cattività preventiva, necessaria per il bene nostro e della collettività, passeremo questa festa della liberazione in attesa: di un cambiamento, di una novità, forse di una luce in fondo al tunnel; magari, della nostra liberazione, letteralmente. Perché diciamocelo: dopo due mesi passati in casa, a parte le uscite essenziali, con scuole, posti di lavoro e luoghi di aggregazione chiusi, l’idea stessa della festa della liberazione assume tutto un altro sapore.
Tra i molti filoni di discussione che hanno monopolizzato l’opinione pubblica in queste settimane di clausura, una che mi ha colpito particolarmente è quella che di fatto, più o meno esplicitamente, rimprovera noi, sani o perlomeno poco acciaccati, rintanati al sicuro, nell’abbraccio delle nostre case, senza problemi di approvvigionamento alimentare, di lamentarci per il “semplice fatto” di essere stati privati della libertà di movimento. Ne ho letti a bizzeffe di articoli, approfondimenti e commenti di questo genere: gli italiani dipinti come popolo di piagnoni perché si lamentano di non poter uscire a correre, di non avere modo di portare i bambini al parco o magari di non poter andare dal partner non convivente: sciocco popolo di viziatelli, abituati a vivere nell’agio. E poi, immancabile, la china che io definirei benaltrista: bisognerebbe pensare a chi in questo momento sta rischiando la vita negli ospedali, a chi è in terapia intensiva, a chi non ha un tetto sopra la testa…
Intendiamoci: per un verso, sono completamente d’accordo; penso continuamente a chi si trova a tu per tu con il coronavirus, e la mia stima per queste persone è immensa, come pure la mia gratitudine; e i problemi sono ben altri che non il mio fastidio di passare la maggior parte della giornata, quando non tutta, tra le quattro mura; i problemi sono ben altri che non trovare il proprio ristorante preferito chiuso, o magari dover fare un’ora di coda per andare al supermercato: dovrei essere felice di essere in grado di andarci, al supermercato! I problemi sono anche ben altri rispetto all’impossibilità di vedere i propri affetti… Però, non so a voi, ma a me questo parallelismo ricorda vagamente i ricatti morali di genitori e nonni per farmi finire il piatto di pasta quando ero piccola: pensa a chi in questo momento muore di fame…
Forse, proprio nell’ottica del 25 aprile, conviene chiedersi esattamente di cosa siamo stati privati con le misure di contenimento del contagio che sono state definite social distancing, distanziamento sociale, e che forse potrebbero essere chiamate con l’espressione distanziamento fisico o qualcosa di simile, che sottolinei la necessità di tenersi fisicamente lontani dagli altri, senza però dare adito a una distanza psicologica dal prossimo, a un eccesso di egoismo e solipsismo, come ha notato ad esempio il linguista David Crystal su Twitter.
Siamo stati privati delle “giratine”, che detta così sembra veramente un capriccio da bimbi viziati. Però riflettiamo su una cosa: anche le misure carcerarie implicano principalmente la perdita della possibilità di muoversi liberamente. Certo, in questo caso siamo in linea di massima a casa nostra, non in carcere; ma cosa vuol dire per ognuno di noi stare a casa? L’abitazione non è per tutti un luogo piacevole per trascorrerci la maggior parte del tempo, sia per questioni strutturali (si pensi ai quartieri-dormitorio, concepiti soprattutto per il riposo, non certo per una vita intensiva tra le mura domestiche) che per motivi di convivenza; ma anche per il fortunato che è felice di passare tutto il tempo con i propri cari e magari ha una bella casa con tutti i comfort, la sola idea di non poter andare e venire a piacimento può diventare, con il tempo, difficilmente sopportabile. Il nostro essere “animali sociali” implica anche lo stare tra le persone, la normalità dei contatti interpersonali (sia forti che deboli) quotidiani. Per quanto possiamo sforzarci di vedere i lati positivi della situazione, dobbiamo ricordarci che non poter uscire di casa non è una condizione di vita normale e facilmente sostenibile sul lungo periodo, anche nella situazione apparentemente più agiata: semplicemente perché è innaturale. Siamo sicuramente diventati stanziali, ma nessuno ci aveva mai preparati a una stanzialità così ristretta, a una parcellizzazione domestica della nostra società.
Io sto relativamente bene con me stessa; la pandemia non mi ha costretta a immobilizzarmi e “guardarmi dentro”, il rallentamento non mi ha “colta di sorpresa” e, soprattutto, non mi sento “meno me stessa” perché mi sono dovuta fermare (ho virgolettato le espressioni perché le ho ritrovate in numerosi pezzi di esperti, intellettuali, pensatori pubblicati in queste settimane). Chi pensa che sia questo il problema della maggior parte delle persone secondo me è fuori strada. Se è pur vero che, ad esempio, il lavoro contribuisce alla nostra autodefinizione, e che quindi la sua mancanza o il suo stravolgimento pesano, non penso che per la maggior parte delle persone il trauma sia stato dover rallentare a tutti i costi.
Al netto di problemi pratici (mancanza di prospettive lavorative, scarsezza di denaro, disagi oggettivi), ritengo che per me, come per molti altri, la questione centrale sia che senza il contatto con il mondo e con gli altri esseri viventi mi sento umana a metà. Certo, sono più o meno sana, respiro, non sono all’ospedale e appartengo a quella schiera di fortunati che possono ancora lavorare, seppure a distanza (mi rifiuto di chiamare smart working il disbrigo faticosissimo delle faccende lavorative dal salotto di casa mia, tra figlia, gatti, campanello che squilla e altre emergenze giornaliere: chi l’ha definito così riferendolo alla situazione attuale non deve avere mai provato il brivido di partecipare a una sessione di tesi di laurea in queste condizioni). Ciononostante, mi mancano i miei simili.
Questo 25 aprile io vorrei celebrare la mia appartenenza a una società libera, democratica, fatta di esseri umani, ma anche la prospettiva di tornare a parteciparvi in maniera attiva, reale e fisica. E francamente, non ci vedo nulla di disdicevole o sbagliato nel vivere con disagio la mia agiata, ma straniante, settima settimana di confinamento tra le mura domestiche.
Propongo di fare un piccolo sforzo collettivo: ricordandoci che in questo momento più che mai c’è bisogno di fare proprio il motto di Don Milani, I care (sottinteso: del prossimo), «“Me ne importa, mi sta a cuore”. È il contrario esatto del motto fascista “Me ne frego”», una misura concreta per rimanere umani, perfettamente umani, e di conservarci al contempo anche animali sociali, potrebbe essere smetterla di giudicare per cosa e in quale modo ognuno di noi stia male: se c’è qualcosa di davvero e infinitamente personale è il dolore; non penso che si debba cedere alla tentazione di definire dolori di serie A, degni, e dolori indegni di serie B.
Anche quella di soprassedere sul perenne giudizio del prossimo potrebbe essere una forma di liberazione, del resto: da una pessima abitudine nella quale indulgiamo forse troppo di frequente.