All’inizio siamo stati colti di sorpresa. Tutti. Prima dimenticando che, in tempo di globalizzazione, la Cina è dietro l’angolo. Poi, quando il coronavirus si è affacciato nel nostro Paese, con reazioni diverse, a seconda del carattere, delle informazioni e delle conoscenze disponibili, della fiducia (o meno) nella scienza e nelle istituzioni. Abbiamo sbagliato tutti: chi minimizzava e chi gridava alla nuova peste, chi alimentava il panico e chi lo irrideva. Poi abbiamo cominciato a vedere e a capire: la situazione è seria e grave; questa “nuova influenza” è un’epidemia che uccide in maniera diffusa, anche se i dati, tuttora disomogenei, non consentono di misurarne la dimensione reale (e non è certo un sollievo il fatto che, come tutte le malattie, colpisca soprattutto anziani e soggetti debilitati…). Sarà la natura del virus o l’insufficienza delle difese di cui disponiamo (in termini di strutture sanitarie, di farmaci specifici, di esperienza) ma questo è lo stato delle cose. Ed è sempre più evidente che l’uscita dal tunnel non è vicina. Restano differenze di analisi anche importanti ma su questi punti c’è un’ampia convergenza.
Alcune cose, poi, sono chiare fin d’ora (dall’irresponsabilità di chi, negli ultimi anni, ha smantellato il servizio sanitario pubblico all’evidente inidoneità, nelle prove difficili, del “sovranismo sanitario”), mentre restano da capire le ragioni per cui l’epidemia si è concentrata in maniera massiccia in alcune aree e da individuare le connesse responsabilità (non alla ricerca di “capri espiatori” ma per trarne le lezioni indispensabili per il futuro). Bilanci e valutazioni generali si faranno a mente fredda, ché, come ammoniva Manzoni ne I Promessi sposi, mentre l’epidemia infuria è tempo di «osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare» (https://volerelaluna.it/cultura/2020/03/04/la-peste-la-paura-la-folla-manzoni-sullanimo-umano/).
Ma intanto, in attesa di quei bilanci, occorre ragionare sul modo in cui si affronta l’epidemia, sulle misure che vengono adottate, sull’informazione che le accompagna. Perché nella ricostruzione che verrà dopo il coronavirus quel che facciamo ora e gli effetti collaterali dell’epidemia condizioneranno pesantemente il nuovo assetto sociale, politico e istituzionale. Occorre, dunque, mantenere alti lo spirito critico e la guardia su quanto ci accade intorno. È una doverosa prudenza, un esercizio del principio di precauzione, che non può riguardare solo le limitazioni delle uscite e dei contatti. Non si tratta di evocare complotti o macchinazioni ma di comprendere che nelle società – come nella fisica ‒ «un corpo, sottoposto a una pressione, mantiene una deformazione anche quando la tensione si allenta o termina» (il suggestivo riferimento è tratto da Lucia Capuzzi, su Avvenire del 21 marzo: https://www.avvenire.it/mondo/pagine/i-militari-per-strada-il-vero-rischio-che-poi-ci-restino). Mi limito ad alcuni flash.
Primo. Bisogna evitare comportamenti (promiscuità, assembramenti etc.) idonei a diffondere il contagio. Difficile non essere d’accordo. Ma le scelte conseguenti non convincono e annunciano pericolose derive future. Perché, infatti, vietare finanche le passeggiate solitarie e in luoghi isolati e consentire invece, come accaduto fino a ieri (e ancor oggi nonostante le dichiarazioni di intenti), attività lavorative non indispensabili con vicinanza fisica in industrie e stabilimenti e connesso affollamento nei mezzi di trasporto per raggiungerli (https://volerelaluna.it/controcanto/2020/03/20/coronavirus-la-classe-operaia-allinferno e https://volerelaluna.it/commenti/2020/03/23/una-repubblica-fondata-sul-profitto/)? E perché non intervenire in maniera adeguata e tempestiva a tutela della salute nel complesso arcipelago del carcere, con un’omissione segnalata sui social con l’efficace espressione: «Fuori a un metro di distanza, dentro otto in una stanza» (https://volerelaluna.it/commenti/2020/03/09/le-nostre-prigioni-lindulto-necessario/ e https://volerelaluna.it/rimbalzi/2020/03/20/carceri-il-coraggio-che-non-ce/). V’è in ciò una evidente discriminazione nel riconoscimento e nella tutela dei diritti e una disparità di trattamento destinate, se non avvertite e contrastate per tempo, a stratificarsi ulteriormente.
Secondo. C’è, nella politica e nell’informazione, una narrazione dell’epidemia pressoché esclusivamente bellica. L’espressione più diffusa, rilanciata da ministri ed editorialisti, è: «Siamo in guerra contro un nemico invisibile». A ciò seguono provvedimenti – giustificati anche da costituzionalisti più o meno illustri – che limitano le libertà di tutti e che dispongono finanche l’intervento dell’esercito per garantirne l’applicazione. Le metafore e lo spirito bellico non aiutano. E ancor meno aiutano prassi disinvolte in tema di diritti e libertà, che di ora in ora si incrementano di nuove manifestazioni (dall’uso di droni in funzione di controllo diffuso delle persone alla tracciabilità degli spostamenti di ciascuno…). Tali prassi non fanno che moltiplicare la paura e spingere alla ricerca del moderno untore (runner o ciclista che sia). E, soprattutto, hanno una naturale tendenza a radicarsi ed espandersi nell’ordinamento e a rimanervi anche una volta tornata la normalità (come dimostra, per tutte, la vicenda degli Stati Uniti, e non solo, dopo l’11 settembre). Lo ha segnalato con acutezza, su un giornale non sospettabile di estremismo o complottismo come Avvenire, Lucia Capuzzi nel già citato articolo dall’inequivoco titolo I militari per strada: il vero rischio è che poi ci restino: «Di fronte all’estendersi rapido dei contagi, i vari esecutivi del mondo stanno adottando misure proprie di una situazione di conflitto, dalla chiusura allo schieramento dell’esercito. Il coronavirus, oltretutto, arriva in un momento di infatuazione collettiva verso l’autoritarismo populista, considerato più efficiente nella risoluzione dei problemi. In questo senso, l’epidemia finirebbe con il diventare un ulteriore fattore di crisi della democrazia».
Terzo. I divieti sono necessari. Per arginare il contagio e salvaguardare la salute di tutti (oltre che la propria). D’accordo. Ma come fare per incentivare i cittadini a comportamenti responsabili? La scelta istituzionale è stata quella di agire su due piani: una campagna martellante su tutti i media scritti e parlati e una serie di prescrizioni accompagnate da controlli a tappeto e dalla previsione della denuncia dei contravventori per il reato di «inosservanza dei provvedimenti dell’autorità» (art. 650 c.p.), a cui alcuni volonterosi interpreti hanno aggiunto quelli di «falsità ideologica commessa da privato in atto pubblico» (art. 483 c.p.) o, addirittura, di procurata epidemia (artt. 452 e 438 c.p.). Condivisibile la prima strada (anche se sarebbe auspicabile una campagna differenziata e meno terroristica), assai meno convincente e francamente pericolosa è la seconda, che finisce per alimentare una pericolosa spirale repressiva (già così diffusa nel Paese) senza portare a risultati apprezzabili. Le evasioni dall’abitazione e gli assembramenti, infatti, non diminuiscono (come dimostrano ripetute immagini televisive) mentre il moltiplicarsi delle denunce (82.041 per art. 650 e 1.943 per falso mentre scrivo) non fa che intasare gli uffici giudiziari senza un seguito di sanzioni tempestive. Si alimenta così una onnipresenza del diritto penale in funzione di controllo, inevitabilmente pervasivo e destinato a estendersi in altri settori (come dimostrato, per esempio, dalla storia dei DASPO). Anziché alimentare l’illusione repressiva non sarebbe meglio un intervento mite, fondato sulla spiegazione e sulla convinzione anche sul territorio (ché la solidarietà si conquista non si impone)? e, nei casi più gravi, un’immediata sanzione amministrativa (come per le violazioni del codice della strada), meno stigmatizzante e insieme più immediata e, per questo, più efficace?
Le forzature poste in essere durante l’emergenza possono diventare regola una volta tornati alla normalità. Non si tratta di evocare fantasmi ma di far tesoro dell’esperienza.