Pur nel permanere di un’informazione insufficiente e spesso fonte di confusione sull’evolversi della emergenza Coronavirus, due dati sono fuori discussione: l’efficacia delle misure prese e attuate, fino ai limiti di sostenibilità, da parte delle persone e nelle strutture che si sono fatte carico degli interventi per i casi più gravi ricoverati in terapia intensiva; e, poi, la concentrazione della mortalità in una popolazione anziana e con patologie concomitanti nella quale l’attribuzione di causalità al Coronavirus sembra spesso sconfinare in una con-causa (come si verifica anche nel caso della più classica influenza).
Altrettanto certa, sul versante degli interventi necessari e obbligatori, è l’importanza decisiva di strategie preventive, sia per ridurre le occasioni di contagio che per evitare la progressione da situazioni sintomatiche a condizioni cliniche candidate a interventi di terapia intensiva. A questo livello, peraltro, si confermano purtroppo domande senza risposte che costituiscono il rischio più grave e con più implicazioni di salute pubblica.
Ci si domanda, in particolare, perché, al di là dei bollettini che comunicano numeri e percentuali dei nuovi casi, dei deceduti, dei guariti, non si sia ancora attivato e garantito un servizio pubblico epidemiologicamente impostato, assicurato come fonte ufficiale, con un linguaggio e con modalità comprensibili per l’opinione pubblica. I numeri e le percentuali generali non bastano, tanto più perché questi dati diventano, nei media e sui social, oggetto di discussioni che riproducono la logica dei talk show, nei quali dati più o meno allarmanti sono collegati a opinioni, previsioni, attribuzioni di cause che dipendono dal punto di vista dell’esperto o del giornalista di turno.
Qual è l’evoluzione reale dei nuovi casi, in termini di età, di condizioni accertate di contagio, di progressione da sintomi a patologia conclamata, a guarigione, a mortalità? Le statistiche generali, mescolate spesso nei media con dati e mappe che aggregano arbitrariamente per regioni o province, sono a rischio di trasformarsi in “bollettini di guerra” generalizzati, che creano un’ansia non gestibile e non permettono di orientarsi.
Non è pensabile una comunicazione ufficiale commentata in modo comprensibile, emanante da un’unica fonte, due volte al giorno, che eviti stime inappropriate soprattutto di allarme o di dubbi? Dove ci sono, e con che andamento nel tempo (al di là della, non spiegata, generalizzazione delle zone arancione-rosse), i focolai più a rischio? E le situazioni che invece suggeriscono casualità? Da chi sono composti e con che criteri lavorano i gruppi epidemiologici che effettivamente gestiscono i dati? A chi rispondono , e con che grado di accordo, i diversi esperti che fanno capo ai due distinti poli della “protezione civile” e della “sanità”? Con che criteri? Per confrontarsi con indagini dirette sul campo, e non semplicemente, come spesso sembra, con attese (più o meno disattese) che fanno riferimento ad algoritmi di cui è inevitabile l’inadeguatezza rispetto a numeri e frequenze territoriali o di contesti che sono tanto differenti? Quali sono i confronti veramente affidabili e utili con le statistiche provenienti da altri Paesi?
Come sottolineato anche in un recentissimo editoriale della rivista scientificamente più autorevole in campo medico, il New England Journal of Medicine, una gestione non amministrativo-burocratica, ma in termini di ricerca permanente e trasparente di dati epidemiologici reali, è lo strumento imprescindibile per una comprensione di situazioni che sono allo stesso tempo gravi e dense di incertezze conoscitive e (perciò) decisionali. Il rapporto degli esperti OMS dalla Cina ha messo molto bene in evidenza la complementarietà tra le misure di “contenzione” e di isolamento e l’intensità/completezza con cui si sono documentate, con visite e contatti personalizzati, le situazioni più a rischio. L’intensità e il lavoro eroico, a livello di organizzazione e di assistenza, delle terapie intensive dovrebbero avere un corrispettivo di analoga intensità e organizzazione nella epidemiologia comunitaria e nella comunicazione che genera più informazione e orienta, spiega, esplicita e distingue l’incerto da ciò che è certo e obbligatorio.
Il rispetto del diritto a un’informazione comprensibile e certificata ai cittadini è la premessa indispensabile per un’obbedienza attiva, fatta non di paura ma di fiducia, a tutte le misure che si propongono, che non sono sempre chiare e che devono essere reiterate con un plus di informazione e non di minaccia. L’etica e l’obbligo del “consenso informato” di cui tanto si discute (anche in questo caso purtroppo con accentuazioni burocratiche e con moduli informativi che prescindono dall’attenzione alle persone) per le sperimentazioni cliniche dovrebbero essere applicate anche dagli attori e dai responsabili della sanità pubblica. L’informazione è valida solo se arriva in modo e con tempi adeguati in questa sperimentazione generalizzata di cui siamo tutti soggetti, capaci di condividere, e non destinatari generici di misure che, a volte, obbediscono a logiche di sicurezza e di contenzione più che di ricerca collettiva di risposte.
Segnalo pure questo: https://www.rivistamicron.it/approfondimenti/la-lezione-di-covid-19-sul-clima/