Un’imposta di solidarietà, i ricchi e i loro valletti

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In questo momento in Italia occorre molta solidarietà. In realtà anche prima dell’epidemia ne occorreva molta di più di quanto implementato, ma adesso la cosa è più largamente accettata. Per qualche motivo tutt’altro che ovvio, agli occhi delle istituzioni i giovani che emigrano per mancanza di lavoro sono meno importanti dei giovani che rimangono senza lavoro, e quindi emigreranno, per colpa dell’epidemia.
Più solidarietà vuol dire più risorse a chi ne ha bisogno. Da dove possono venire? Una prima ipotesi è che la Banca Centrale Europea compri un po’ del debito italiano dando quindi dei soldi all’Italia. È un’ipotesi del tutto corretta dal punto di vista della teoria economica ma impraticabile per motivi politici. Un’altra ipotesi, che a quanto pare è quella favorita dal Governo, consiste nell’espandere il debito. Si tratta di un’ipotesi molto poco solidale: invece di chiedere risorse a chi è in grado di offrirle, si pagano a costoro degli interessi a scapito della collettività. I tassi di interesse sono bassi, è vero, ma è la stessa logica per la quale era giusto che i contadini poveri, in varie parti del mondo, si indebitassero con gli usurai nelle annate difficili.
Perché si abbia davvero solidarietà occorre che alcuni italiani trasferiscano parte del loro reddito ad altri. Quanto bisogna trasferire? E come? E da chi? 

Quanto dipenderà dalle politiche che si vorranno mettere in atto. Certamente somme consistenti. Suggerisco indicativamente 20 miliardi all’anno per due o tre anni. Ritengo che sia una somma adeguata come ordine di grandezza, ed è l’arrotondamento verso l’alto dell’1% del PIL. Venti miliardi non sono pochi; basti pensare che la più grande operazione solidaristica attuata negli ultimi anni, il reddito di cittadinanza, costa da 5 a 6 miliardi. Ma, come vedremo, questa cifra non dovrebbe creare grandi problemi a coloro cui andrà sottratta.
Riguardo a chi, la risposta ovvia è che le risorse andrebbero trasferite seguendo il principio fondamentale della progressività delle imposte, come sancito dall’art. 53 della Costituzione, vale a dire che tanto più uno è ricco tanto maggiore deve essere la percentuale di reddito cui deve rinunciare. (Un purista potrebbe avere il dubbio che qui si stia confondendo reddito con ricchezza; vedremo un po’ più avanti che non è così).
Ma come? Il mio suggerimento è che si proceda con una imposta di solidarietà sulla ricchezza finanziaria (solo su quella finanziaria, non sulle case ed altri immobili). Ci sono molti validi motivi per scegliere questa opzione. Eccoli: a) l’aliquota richiesta sarebbe bassissima: in media, dell’ordine del 5 per mille, anche se sarebbe preferibile un’aliquota progressiva con una quota esente; b) i costi di esazione sono nulli. Lo Stato può trasferire “con un clic” l’importo dovuto dai conti correnti dei contribuenti, e quindi i contribuenti non devono fare nulla. Per fare un esempio, chi avesse 50.000 euro di ricchezza finanziaria (BOT, azioni, obbligazioni, conto in banca ecc.) vedrebbe il suo conto ridotto di 250 euro, una cifra tale da non rendere necessario vendere dei titoli se non in casi veramente eccezionali. È vero che chi avesse un milione dovrebbe pagare 5000 euro (o di più, se l’aliquota è progressiva). Ma sicuramente sul suo conto in banca avrà una liquidità per le spese correnti maggiore di così, e quindi anche lui non dovrà fare nulla.

Poi ci sono un paio di punti un po’ più tecnici: la trasformazione di venti miliardi di ricchezza (che non fa parte del PIL) in redditi farebbe aumentare per ciò stesso il PIL (di circa l’1%) e quindi ridurre il rapporto debito/PIL, e gli effetti moltiplicativi consentirebbero un maggiore sviluppo (o una minore recessione) dell’economia nel suo complesso.
Un po’ più in dettaglio, i venti miliardi di cui stiamo parlando potrebbero essere ottenuti con un’aliquota del 6 per mille per il 10% più ricco delle famiglie italiane (che hanno in media più di 800.000 euro), del 5 per mille per il 10% che viene subito dopo (che ne hanno in media 275.000 euro circa) e del 2 per mille per gli altri. Chi avesse 20.000 euro ne pagherebbe 40. Chi ne avesse 100.000 ne pagherebbe 200. Chi ne avesse 300.000 ne pagherebbe 1500, e chi ne avesse 1.000.000 ne pagherebbe 6000. (In realtà bisognerebbe ragionare per aliquote marginali crescenti, ma dato che queste cifre sono solo indicative possiamo risparmiarci la fatica. Comunque 20 miliardi sono compatibili con una quota esente intorno agli 80.000 euro e una quota marginale massima inferiore all’1%). Non si tratta certamente di aliquote predatorie, e altrettanto certamente imporrebbero alla popolazione sacrifici immensamente inferiori a quelli arrecati dalle politiche di austerità di questi anni. Ricordo che parliamo sempre solo di ricchezza finanziaria, conti in banca, azioni, BOT ecc.; con esclusione quindi di case e altri immobili.

A questo punto sorge inevitabilmente una domanda: come reagirebbe l’opinione pubblica? Per rispondere credo che la cosa migliore sia chiederlo a chi sta leggendo. In altri termini: voi sareste disposti a vedere ridurre il vostro conto in banca del 5 per mille perché lo stato implementi una seria politica di solidarietà? Attenzione, è importante che sia seria; supponiamo per ora che lo sia, torneremo su ciò. Sarei grato di ricevere dei riscontri, ma la mia convinzione è che in generale la risposta sarebbe “sì”. Penso che pochi si rifiuterebbero di rinunciare a 500 euro all’anno se ne hanno 100.000 in banca, o a 100 euro se ne hanno 200.000, se questo servisse davvero ad attuare politiche di solidarietà. (In realtà le cifre sarebbero inferiori se si adottassero, come suggerito, aliquote progressive: con una quota esente di 80.000 euro e un’aliquota del 4 per mille fino a 250.000 euro, per esempio, chi avesse 100.000 euro ne pagherebbe 80, e chi avesse 200.000 euro ne pagherebbe 480).

Prima di andare in pensione facevo il professore di economia. Sono sempre stato convinto che i princìpi di base su cui gli economisti basano le loro analisi sono profondamente validi, nonostante gli sforzi di parecchi colleghi per convincere l’opinione pubblica del contrario. Uno di questi princìpi, universalmente accettato, è quello della utilità marginale calante: che afferma, per spiegarlo con un esempio, che se un tale ha un reddito di 1000 euro al mese che viene portato a 1100, il suo guadagno di utilità sarà maggiore di quello di chi ha 5000 euro al mese che vengono portati a 5100. Naturalmente, in base allo stesso principio la perdita di utilità sarà maggiore per il primo soggetto che per il secondo, se a entrambi vengono sottratti 100 euro.
Supponiamo allora che la maggior parte di chi legge queste righe (fra cui presumo ci siano pochissimi che hanno un milione in banca o in titoli, probabilmente nessuno) e di coloro che si trovano in analoghe condizioni sia favorevole alla proposta qui illustrata, nella versione in cui ciascuno paga il 5 per mille. Allora, in base al principio dell’utilità marginale calante, dovremmo presumere che anche la maggioranza di chi ha un milione o più lo sia. Un estremista di sinistra molto moralista che ritiene che i ricchi siano tutti molto cattivi, o un estremista molto moralista di destra che ritenga che la ricchezza è il premio che Dio dà a chi se lo merita, e quindi portargliene via un po’ è sacrilego, potrebbero forse obbiettare a questa conclusione. Ma i sacerdoti del nostro tempo, gli economisti, no.

Quanto sopra è una congettura; ed è una congettura solida. Esiste molta letteratura empirica che suffraga l’ipotesi che la disponibilità alla solidarietà sia elevata, e soprattutto ne esiste pochissima, forse non ne esiste affatto, che suffraghi il contrario. Ma non c’è nessun bisogno di assumerla per certa: per un Governo che volesse prendere l’ipotesi in considerazione sarebbe un compito molto semplice verificarla con i dati di un sondaggio specifico. Da quel sondaggio il Governo potrebbe dedurre se una politica come quella qui suggerita aumenta o riduce la sua popolarità. Personalmente, sono sicuro che è un’indagine che vale la pena di fare; e sono convinto che la popolarità aumenterebbe, ma solo sotto una condizione molto importante, e cioè che la politica di solidarietà che si vuole implementare sia appunto seria: occorre cioè che i trasferimenti vadano davvero a chi ne ha davvero bisogno e là dove gli effetti per la crescita dell’economia (o per contrastarne il declino) siano massimi.  
Ora, elaborare una politica di solidarietà seria è certamente nelle capacità di qualsiasi Governo, se c’è la volontà di farlo. E allora, perché questa volontà non c’è? Perché il Governo non elabora quella politica e non impone l’imposta di solidarietà, o quanto meno non svolge quell’indagine? Non lo so. Ci sono probabilmente molti motivi, alcuni dei quali forse loschi. Ma fra i più importanti credo che ci sia una sorta di tabù culturale che impone di non tassare mai la ricchezza, soprattutto quella dei ricchi. Non credo che i ricchi siano per natura cattivi. Molti di loro sarebbero probabilmente disponibili a versare un po’ – molto poco – della loro ricchezza per aiutare i meno fortunati. Ma i loro valletti che siedono in Parlamento o scrivono sui giornali non lo sanno. È un eccesso di zelo abbastanza comune negli ambienti della servitù.

Gli autori

Guido Ortona

Guido Ortona, economista, è stato professore di Politica economica presso l’Università del Piemonte orientale. Le sue ricerche hanno riguardato soprattutto le economie di tipo sovietico, l’economia del lavoro e l’economia comportamentale. Tra i suoi libri, da ultimo, I buoni del tesoro contro i cattivi del tesoro (Robin, 2016)

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